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TematicheItalia ed EuropaNagorno-Karabakh: quando l’Occidente resta a guardare

Nagorno-Karabakh: quando l’Occidente resta a guardare

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Conteso dall’ Azerbaigian musulmano e dall’Armenia cristiana, il fazzoletto di terra del Nagorno-Karabakh aspetta da oltre vent’anni il responso decisivo della comunità internazionale sulla sua controversa situazione. Palcoscenico e vittima di un conflitto che sembra non essere sufficientemente interessante per i paesi occidentali, il Nagorno-Karabakh è in realtà al centro di un delicato e complesso gioco di forze e di equilibri mondiali.

A conclusione di un biennio di sanguinosa guerra aperta tra le due etnie per il predominio sul territorio, durata dal 1992 al 1994, sono stati avviati i negoziati per la risoluzione pacifica del conflitto: dopo un caldeggiato “cessate il fuoco” da parte degli Stati della regione, affiancati dalle Nazioni Unite, si è giunti all’accordo di Bishkek – capitale del Kirghizistan, del 5 maggio 1994. Con questo, i rappresentanti di Azerbaigian, Nagorno-Karabakh e Armenia, grazie alla mediazione della Russia e dell’assemblea parlamentare della CSI, “congelarono” il conflitto, in vista del raggiungimento di un rapido accordo finale.

Nonostante gli apparenti buoni propositi, la speranza di mettere un punto soddisfacente e risolutivo non è ancora stata soddisfatta. Attualmente, il processo di pace sembra infatti non aver portato ai successi attesi. Il Gruppo di Minsk, creato ad hoc durante il meeting straordinario dell’OSCE ad Helsinki (1992), deve lavorare a nuove proposte per il raggiungimento della pace, dal momento che quelle formulate finora sono risultate inconcludenti: da un lato l’Armenia continua ad occupare con le sue truppe il 20% circa del territorio azerbaigiano (che, oltre al Nagorno-Karabakh, comprende sette regioni strategiche formanti una “cintura” attorno ad esso), dall’altro l’Azerbaigian chiede all’Europa di dichiarare ufficialmente il proprio dissenso circa l’occupazione armena del territorio nazionale.

Il processo di pace si è di fatto trascinato lentamente fino ad oggi, attraversando fasi altalenanti che spesso sembravano preludere ad un anelato compromesso, ma che poi sono state distrutte dall’atteggiamento ostruzionistico adottato prima da uno, e poi dall’altro. Le quattro risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU nel 1993 (la numero 822, 853, 874 e 884), nelle quali si invocava l’immediata cessazione di tutte le ostilità e azioni di guerra, e si sollecitava il ritiro delle truppe armene dai territori occupati dell’Azerbaigian, non hanno finora trovato la loro strada per l’implementazione. La zona del Karabakh resta ancora la più militarizzata d’Europa, ed è sorprendente la quota di bilancio che questi Paesi sborsano per le spese militari (secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute – SIPRI, nel 2013 la spesa militare armena ha superato i 400 milioni, quella azera i 3 miliardi), precludendosi la possibilità di utilizzare invece tali somme di denaro per finanziare progetti di sviluppo economico e sociale, di cui entrambi i Paesi avrebbero senz’altro bisogno.

Come nel caso del Kosovo, il negoziato politico è l’unico strumento utilizzabile per risolvere tal genere di controversie, ma nei numerosi comunicati succedutisi nel tempo (gli ultimi dello scorso anno a Sochi – meeting trilaterale fortemente voluto dal presidente russo Vladimir Putin, e a Parigi – summit di iniziativa francese che però non ha portato a sostanziali novità, ed infine quello più recente, di neanche due mesi fa, a New York – settembre 2015 – anche a seguito del quale tuttavia non è stato annunciato alcun “breakthrough” nel processo dei negoziati) le parole non sono riuscite a trovare concretizzazione nei fatti, relegando ogni possibile esito positivo della disputa ad una situazione di stallo.

La difficoltà intrinseca della situazione descritta è il risultato stridente (e inevitabile) degli obiettivi, esageratamente distanti, manifestati dai protagonisti della scena: il Nagorno-Karabakh aspira all’indipendenza, l’Armenia rivendica le sue “storiche montagne”, mentre l’Azerbaigian denuncia la violazione dei confini nazionali. Ma non è semplice, oggi, ridistribuire torti e ragioni antiche. Il rischio è quello di rompere il fil rouge che precariamente mette in contatto le forze tra loro, facendole così risprofondare in una guerra aperta.

Il tentativo da parte della comunità internazionale di evitare tutto questo, e che possiamo descrivere in termini di crisis management, cela in realtà la paura dell’Occidente di irritare, da un lato l’Azerbaigian – paese in fortissima crescita, che soprattutto rappresenta uno strategico produttore di gas e petrolio (forse troppo prezioso per essere sacrificato per la causa nagorniana) -, e dall’altro la Russia, che ha ulteriormente rafforzato la sua alleanza a lungo termine con l’Armenia, e ha già avuto attriti con l’Europa a seguito della crisi ucraina e della Crimea (problemi anche questi che, almeno per il momento, sembrano essere stati offuscati dai nuovi temi dello scenario globale, come l’accordo sul nucleare iraniano e l’immigrazione, a cui USA ed Europa sembrano prestare maggiore attenzione).

Stretto tra l’incudine e il martello, l’Occidente – nonostante gli interessi economici e la posizione strategica della regione transcaucasica, che si trova nell’esatta intersezione dei principali corridoi nord-sud, ed est-ovest tra Europa e Asia – sembra aver scelto il ruolo di spettatore, preferendo restare a guardare, e lasciando che siano le due parti in guerra a vedersela per conto loro.

Così facendo, USA ed Europa, cedono ineluttabilmente (e scientemente) il ruolo di mediatori alla Russia e alla Turchia, le quali certamente possiedono maggiore influenza e controllo su quelle regioni rispetto ai Paesi occidentali.

La risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh è evidentemente molto più multiforme e articolata di quanto si creda. Ma fintanto che essa non verrà affrontata seriamente dalla comunità internazionale, allora sarà destinata a rimanere aperta per ancora molto tempo, contribuendo ad alimentare quel clima di tensione già vivo e ardente nella cosiddetta “polveriera caucasica”.

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