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Ministeriale Difesa, NATO 2030 e le nuove sfide, cooperazione con l’UE e il ruolo dell’Italia. Parla l’Ambasciatore Francesco M. Talò, Rappresentante Permanente dell’Italia alla NATO

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Il 17 e 18 febbraio si è tenuta la prima ministeriale Difesa dell’anno della NATO, per ovvie ragioni in modalità virtuale, alla quale ha partecipato anche il Segretario alla Difesa USA Lloyd Austin. Si è discusso di deterrenza e difesa, burden sharing e del processo NATO 2030 lanciato lo scorso anno. Altri temi trattati: le missioni internazionali in Afghanistan, Iraq e Kosovo e le relazioni con l’Unione Europea – insieme all’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’UE Josep Borrell e ai ministri di Finlandia e Svezia – nonché le nuove sfide alle quali l’Alleanza Atlantica dovrà far fronte, tra cui la pandemia, il cambiamento climatico e le tecnologie emergenti e dirompenti (EDT). Per saperne di più, Faro Atlantico, l’Osservatorio sulla difesa euro-atlantica del Centro Studi Geopolitica.info, ha avuto un incontro virtuale con l’Ambasciatore Francesco M. Talò, Rappresentante Permanente dell’Italia alla NATO.

Ambasciatore la ringraziamo per la sua disponibilità. Se mi permette, partirei dalla fine della ministeriale Difesa del 17 e 18 febbraio, quando – durante la conferenza stampa conclusiva – al Segretario Generale Jens Stoltenberg è stato chiesto un commento su Mario Draghi. Crede che il nuovo presidente del Consiglio possa essere una figura importante per rafforzare il legame transatlantico?

Il governo italiano si caratterizza per la sua vocazione europea ed atlantica, due aspetti che a mio avviso devono andare di pari passo. È una cosa molto importante e infatti è stata riconosciuta dallo stesso Segretario Generale Jens Stoltenberg che, come lei ha ricordato, durante la conferenza stampa finale a margine della Ministeriale si è soffermato anche su Mario Draghi, ricordando quanto il nuovo presidente del Consiglio italiano sia apprezzato nel mondo e come l’Alleanza guardi con interesse alla collaborazione con questo nuovo governo. Draghi potrà dare un contributo a tutti: ai trenta alleati e, più in generale, alla NATO, anche perché ha una grande esperienza che tutti apprezzano.

La ministeriale ha visto anche la prima partecipazione di Lloyd Austin in qualità di Segretario della Difesa statunitense. Che sensazioni ha avuto?

C’è sicuramente un’aria di rinnovato slancio nei rapporti transatlantici che tutti, da Stoltenberg al ministro Guerini passando per il Segretario Austin, hanno sottolineato. Il Segretario della Difesa ha riaffermato il messaggio del presidente Biden che gli Stati Uniti intendono rivitalizzare le relazioni con la NATO e ha sottolineato l’importanza cruciale dell’articolo 5 del Trattato di Washington. Il capo del Pentagono ha fatto riferimento all’Alleanza come il fondamento della sicurezza transatlantica e baluardo dei valori democratici, valori in cui noi ci riconosciamo.

La seconda giornata della ministeriale è stata dedicata alle missioni internazionali a guida NATO, in particolare Afghanistan, Iraq e Kosovo. La notizia del giorno è stata sicuramente la decisione di aumentare la presenza in Iraq. Quanto è importante questa decisione? E ancora, che ruolo giocano le Forze Armate italiane in queste zone?

Quando si parla di operazioni e missioni l’Italia ha un ruolo da protagonista. Non a caso, il ministro Guerini su questo tema è intervenuto subito dopo il Segretario della Difesa Austin e questo è un segnale dell’apprezzamento che si ha qui alla NATO per il ruolo dell’Italia e, in particolare, per la personalità del nostro ministro della Difesa, considerato una figura che può dare un grande contributo alle discussioni sulle operazioni dell’Alleanza, che vedono l’Italia tra i protagonisti. Infatti, dopo gli Stati Uniti, l’Italia – insieme alla Germania – è sempre tra i principali contributori nelle missioni della NATO, come anche per quelle a guida UE o ONU. La nostra presenza in molte aree di crisi, con l’esperienza e le speciali capacità delle nostre Forze Armate, ci rende molto apprezzati. Afghanistan e Iraq sono due paesi che hanno un grande impatto sulla nostra sicurezza, in primo luogo per il terrorismo, identificato come la minaccia più imminente per i paesi alleati, che si accompagna all’altra sfida rappresentata da una Russia sempre più assertiva. In Afghanistan c’è una presenza quasi ventennale della NATO, rispetto alla quale si cerca un modo per arrivare ad una soluzione politica, ad un processo di pace di cui il popolo afghano, in tutte le sue componenti, si possa appropriare in maniera sostanziale. In Iraq, invece, abbiamo una presenza in crescita. Lì noi – come Italia – siamo fortemente presenti sia nella missione a guida NATO sia nella Coalizione che si sta confrontando con successo contro Daesh, con un’importante contingente, secondo solo agli Stati Uniti, e con una grande attività di addestramento sia nella zona di Baghdad sia nel nord, nella regione curda. La novità più grande, decisa durante la ministeriale, è quella di ampliare gradualmente tale missione della NATO, sempre con finalità di addestramento e formazione. L’obiettivo è che l’Iraq diventi un paese stabile con delle forze di sicurezza in grado di essere autonome e superare la sfida del terrorismo che, come stiamo vedendo, non è stata ancora del tutto eliminata; la minaccia di Daesh è ancora reale. Durante la ministeriale si è registrato un consenso unanime nei confronti di questo importante progresso che è avvenuto a seguito, e questo è un elemento indispensabile, di una richiesta del governo iracheno. Il principio, infatti, è che tutte queste missioni avvengano sempre in un contesto non solo consensuale ma guidato dagli interessi del paese ospitante. Infatti, proprio nei giorni precedenti la ministeriale Stoltenberg e il Primo Ministro iracheno Mustafa Al Kadhimi hanno avuto dei contatti telefonici a riprova del fatto che tutto avviene attraverso continue consultazioni. L’Italia, ovviamente, è pronta a fare la sua parte. Anche in questa nuova fase della missione avremo sicuramente un ruolo di primo piano soprattutto perché quando si parla di addestramento le Forze Armate italiane hanno dimostrato una loro specifica capacità.

L’Afghanistan pur essendo un paese ancora travagliato, ha fatto registrare dei progressi proprio grazie alla presenza della NATO sul territorio. Questo è un elemento che tengo sempre a sottolineare perché la nostra presenza in quel contesto ha portato dei benefici concreti nella vita quotidiana di milioni di persone dopo anni terribili di un dominio terrorista che ha minacciato non solo la popolazione locale ma quella di tutto il mondo. Ad ogni modo, la situazione rimane precaria. L’anno scorso sono partiti per la prima volta dei negoziati intra-afghani e noi li sosteniamo. Come ha ricordato Stoltenberg però le condizioni sul terreno restano ancora molto preoccupanti e quindi non è stata ancora presa una decisione rispetto ad un possibile ritiro dei militari stranieri presenti nel paese. Comunque, l’impegno italiano nel territorio afghano rimane ed è molto importante. Non a caso a fine gennaio, il ministro Guerini ha fatto visita a Herat e Kabul a conferma di una grande attenzione italiana per quella zona. L’Italia, infatti, ha una responsabilità particolare perché da tanti anni, nell’ambito delle missioni della NATO Resolute Support è una c.d. nazione quadro (“framework nation”) e come tale ha la responsabilità per la parte occidentale del paese, strategicamente cruciale, con la città di Herat come capoluogo. L’Italia e la NATO sono sempre molto apprezzate.

Ecco, a proposito di Afghanistan, lei ha ricoperto il ruolo di Inviato Speciale per il Ministero degli Affari Esteri in quel territorio. Cos’è cambiato da allora?

Dieci anni fa sono stato in Afghanistan in un periodo in cui la NATO era presente con un numero di forze maggiore rispetto ad adesso – circa 120.000 unità in più – e anche allora l’Italia era presente con un contingente che ricopriva un ruolo cruciale, con oltre i 4.000 uomini. Il fatto che Resolute Support dispieghi meno uomini e con un ruolo più limitato rispetto alla missione precedente significa che c’è stato un cambiamento in positivo della situazione, che adesso le forze afghane sono in grado di assicurare una maggiore sicurezza con più autonomia e questo grazie al sostegno addestrativo e finanziario fornito dalla NATO. C’è stato un chiaro miglioramento nella qualità delle forze di sicurezza afghane che però ancora non basta. Ad ogni modo, quello che tutti noi speriamo è che si riesca a trovare una soluzione politica e di pace duratura che possa preservare quanto conseguito nel corso di questi anni nel paese. Relativamente al Kosovo invece, il ministro Guerini ha sottolineato il ruolo cruciale ricoperto dalle nostre Forze Armate e l’importanza della KFOR per la sicurezza e la stabilità dei Balcani, zona che è fondamentale anche per la sicurezza italiana. KFOR è una missione molto importante e di lunga durata, istituita nel 1999. Il Kosovo è di grande interesse per l’Italia, una zona dove abbiamo conseguito molti successi e nella quale abbiamo un ruolo e delle responsabilità

particolari, tra cui la guida della missione con il Generale dell’Esercito Franco Federici come Comandante, una guida che in realtà abbiamo avuto per gran parte degli anni di vita della KFOR. In generale, auspichiamo che possano arrivare buone notizie sul complesso dialogo tra Pristina e Belgrado mentre relativamente al contesto di sicurezza kosovaro non abbiamo assistito ad episodi particolarmente critici e questo è significativo del fatto che le forze italiane e, più in generale quelle della NATO, stanno operando con ottimi risultati.

Tengo a sottolineare che in Kosovo, anche grazie al lavoro della nostra Ambasciata, con il sostegno di KFOR, di recente abbiamo ottenuto nuovi risultati tangibili importanti. Penso al recente accordo per la tutela dell’area presso il monastero di Dečani, luogo di cultura e spiritualità serba, in una zona albanofona. Un esempio importante che sottolinea la grande tradizione delle nostre Forze Armate nella protezione del patrimonio culturale. Ricordo in particolare dei Carabinieri che hanno una loro esperienza nella preservazione del patrimonio culturale, non solo in Italia ma ormai da molto tempo nel mondo, anche grazie ad accordi con l’UNESCO. È un elemento che valorizziamo anche noi qui alla NATO perché quando si parla di operazioni, ma non solo, si deve parlare anche di sicurezza umana, un concetto molto ampio e complesso che richiama in primo luogo l’aspetto fondamentale del ruolo delle donne per la pace e la sicurezza ma include anche l’aspetto culturale e identitario.

Il processo NATO 2030, lanciato da Stoltenberg lo scorso anno, è stato uno dei temi principali trattati durante la ministeriale. Negli ultimi mesi è stato pubblicato il rapporto volto all’adattamento dell’Alleanza nel prossimo decennio: quello del gruppo di riflessione. Crede che questo documento possa tradursi in un’evoluzione del Concetto Strategico della NATO, invocata dallo stesso Segretario Generale? O meglio: su quali sfide dovrà focalizzare la propria attenzione il prossimo documento strategico dell’Alleanza?

Per parlare di NATO 2030 è necessario partire dall’autunno del 2019 quando ci fu un dibattito molto vivace scaturito anche dalla famosa intervista del presidente francese Emmanuel Macron al “The Economist” dove disse che la NATO si trovava in uno stato di “morte cerebrale”. Fu una provocazione che probabilmente è stata utile per stimolare un processo di rinnovamento. Infatti, i capi di Stato e di governo al vertice di Londra hanno chiesto al Segretario Generale Stoltenberg di dare il via ad un processo di riflessione. Successivamente, è stato costituito un gruppo di 10 esperti – tra i quali Marta Dassù. L’Italia, dunque, ha dato un proprio contributo attraverso una delle figure che ha una maggiore visione delle relazioni internazionali e della politica estera. Ciò che si richiede è proprio la visione, perché l’orizzonte è appunto decennale, tanto che poi Stoltenberg ha iniziato a parlare di NATO 2030.

Lo scorso dicembre gli esperti indipendenti del Gruppo di Riflessione hanno presentato il loro rapporto dal titolo “NATO 2030: United for a New Era”. Nella fase redazionale il Gruppo ha avuto anche ampie consultazioni con il Consiglio Atlantico. Il documento è molto interessante e stimolante con oltre un centinaio di proposte e costituisce una base solida per quello che diventerà il rapporto NATO 2030 che sarà presentato ai capi di Stato e di governo alleati al vertice che si terrà quest’anno. Tra l’altro sarà un vertice importante perché offrirà l’occasione per un primo confronto, in ambito NATO, con il nuovo presidente americano Joe Biden. Una delle proposte all’interno del rapporto è quella di fare un nuovo Concetto Strategico, un documento che si dovrà focalizzare sul nuovo ambiente di sicurezza internazionale, sulle sfide emergenti, che sono sia di carattere geostrategico che tematico: la Russia e il terrorismo sono quelle fondamentali e riconosciute da tempo ma accanto a queste ne vediamo di nuove provenienti anche dall’esterno dell’area euro-atlantica. A tal proposito, ciò di cui spesso parla Stoltenberg è l’approccio globale che deve sviluppare l’Alleanza. È importante però sottolineare che l’approccio globale non rinnega il carattere regionale dell’Alleanza, nata per proteggere l’area euro-atlantica. L’articolo 5, infatti, continua ad essere il perno della nostra difesa collettiva e della solidarietà tra paesi alleati. Occorre però allo stesso tempo essere consapevoli che alcune delle nuove sfide che sono emerse in questi anni hanno un carattere più variegato e possono arrivare anche dall’esterno del perimetro euro-atlantico, con un impatto sulla sicurezza dei suoi membri. Dal precedente Concetto Strategico, che è stato adottato a Lisbona nel 2010, la situazione è cambiata. Basti pensare, ad esempio, che negli ultimi anni siamo passati da tre domini operativi (terra, mare e aria) a cinque (cyberspazio e spazio extra-atmosferico) e non è una cosa da poco. Inoltre, la grande novità del decennio è sicuramente l’emergere della potenza cinese che può rappresentare un’opportunità o, come dice l’Unione Europea, può essere anche un rivale sistemico, ma comunque è una realtà della quale è importante tener conto. In poche parole, dobbiamo ampliare la nostra visione, avere una capacità di capire come affrontare le sfide di carattere globale. Nel farlo la NATO, e questo è un elemento importante, potrà avvalersi della propria estesa rete di partenariati. Poi ci sono altre sfide, anch’esse analizzate dal gruppo di riflessione, che sono sempre più rilevanti. Una è costituita dalla pandemia, o meglio, dalle pandemie: la pandemia è quella che stiamo vivendo oggi, le pandemie invece potrebbero diventare una caratteristica ricorrente rispetto alla quale dobbiamo attrezzarci. La NATO ha giocato un ruolo cruciale come del resto era già successo in passato per emergenze derivanti da calamità naturali. Le Forze Armate alleate hanno dato un grande contributo nell’affrontare questa crisi. Ad ogni modo, dobbiamo essere più preparati, bisogna ammettere che in un primo momento non c’era la giusta preparazione e questo lo ha ricordato anche il Ministro Guerini durante la ministeriale. Il nostro ministro della Difesa, e questo mi piace sottolinearlo, ha mostrato una grande visione perché già nella riunione ministeriale del febbraio 2020, un anno fa, ha sollevato per primo il tema della pandemia: il virus si stava già diffondendo senza che ce ne accorgessimo, e poi quando ha cominciato a colpire duro, in primo luogo l’Italia, ci siamo ritrovati impreparati. Non solo la NATO, ma anche l’Unione Europea e tanti altri paesi si sono trovati impreparati: errare è umano ma è meglio non perseverare, quindi prepariamoci perché potrebbe accadere di nuovo.

Vorrei sottolineare poi un elemento che è diventato un po’ il mantra di Stoltenberg: dobbiamo fare in modo che le sfide alla salute pubblica non si trasformino in sfide alla sicurezza, perché in condizioni drammatiche si può generare instabilità e l’instabilità può diventare una minaccia alla sicurezza. Questo aspetto fortunatamente siamo riusciti a gestirlo. La NATO ha mostrato capacità di resilienza, e questo è un concetto sul quale vorrei poi ritornare perché è fondamentale. L’altra sfida è quella data dai cambiamenti climatici. Qui a mio parere occorre ampliare l’ambito della riflessione e parlare dei risvolti di sicurezza delle questioni ambientali in senso lato. L’arrivo della nuova amministrazione americana ha cambiato le cose. Abbiamo visto il Segretario della Difesa manifestare chiaramente l’impegno dell’amministrazione Biden nell’affrontare questo tema anche sotto il profilo della sicurezza. È una cosa che la nostra Rappresentanza alla NATO aveva capito da tempo e lo rivendichiamo con orgoglio; come Italia sosteniamo l’importanza di approfondire la correlazione tra le questioni ambientali e quelle della sicurezza. Vorrei ricordare infatti il seminario che abbiamo organizzato nel settembre del 2020 insieme ai nostri colleghi britannici, nel quadro del partenariato tra Italia e Regno Unito verso la conferenza COP26, su rapporto tra ambiente e sicurezza, nella duplice declinazione dell’impatto del primo sulla seconda e viceversa. 

Il seminario che avete organizzato insieme alla rappresentanza britannica è stato introdotto proprio dal Segretario Generale Stoltenberg. Crede che sia un segnale importante che dimostra quanto la NATO si stia concentrando sempre di più sulla questione climatica e ambientale?

Assolutamente sì, è stato un segnale molto importante. Durante quella giornata – insieme a Stoltenberg e alla collega britannica – abbiamo visto nascere una tendenza che si sta consolidando: un impegno in questo settore deve vedere la NATO e gli alleati lavorare a stretto contatto con altre istituzioni a partire dall’Unione Europea, che in questo contesto gioca un ruolo importante e, infatti, l’abbiamo coinvolta nella nostra iniziativa. Inoltre, essendo un tema che coinvolge anche i paesi africani abbiamo invitato a partecipare l’Unione Africana. Importante poi è stata anche la partecipazione di esperti provenienti sia dal mondo accademico che da quello industriale, infatti, era presente la Responsabile per la sostenibilità di Leonardo, Renata Mele. Si tratta di una sfida per la quale continueremo a lavorare e rispetto alla quale l’Italia svolge un ruolo importante. È una sfida cruciale per la nostra sicurezza perché, per esempio, l’instabilità generata dalla desertificazione può avere un impatto sui paesi del c.d. Fianco Sud dell’Alleanza e, dunque, sulla nostra sicurezza; lo stesso può succedere per quanto riguarda il Nord con lo scioglimento della calotta polare e la conseguente apertura di nuove rotte marittime. 

Il mantenimento del vantaggio tecnologico è uno degli obiettivi fondamentali su cui la NATO basa la propria capacità di dissuadere e difendersi da potenziali minacce. A tal proposito, si è più volte sottolineato come le tecnologie emergenti e dirompenti possano rappresentare una sfida ma anche un’opportunità cruciale per l’Alleanza. Secondo lei qual è l’elemento fondamentale per poter mantenere questo vantaggio tecnologico e allo stesso tempo sfruttare le opportunità delle EDT (Emerging & Disruptive Technologies)?

Consapevolezza. Una consapevolezza che la NATO ha dimostrato di avere perché c’è una grande attenzione sul tema e c’è più di un filone di lavoro proprio dedicato a questo. Lo stesso gruppo di esperti ha sottolineato le grandi opportunità che possono offrire le EDT, che sicuramente saranno un tema fondamentale che troverà grande spazio in un possibile nuovo Concetto Strategico. È importante che queste sfide siano governate con una visione che sia di carattere positivo con l’UE, cioè che non si abbia un gioco a somma zero ma una situazione “win-win”. Inoltre, vorrei sottolineare la presenza di un comando, il NATO Allied Command Transformation (ACT), situato a Norfolk, e caratterizzato da un mandato volto all’adattamento dell’Alleanza. ACT ha vocazione e competenze specifiche per guardare lontano ed elaborare nuove dottrine che hanno il fine di migliorare l’efficacia dell’azione dell’Alleanza. Questo aspetto è cruciale perché l’accelerazione nel progresso tecnologico è straordinaria ma soprattutto questo progresso non è più determinato da attori industriali strettamente legati al mondo militare, come avveniva in passato quando il presidente Eisenhower parlava di “complesso militare-industriale”. Quando si parla di tecnologie è importante guardare ad un trinomio: istituzioni, settore privato ed accademia. Spesso sentiamo parlare di intelligenza artificiale e di come usarla con successo: questa è la domanda delle domande perché è un tipo di tecnologia che sarà sempre più pervasiva in ogni ambito della nostra vita e lo sarà anche in ambito militare. Il fatto che si tratti di una tecnologia che non è stata originata, per lo meno in maniera esclusiva, in ambito militare ci pone davanti una grande sfida ma anche una grande opportunità: dobbiamo imparare a muoverci in un contesto poliedrico nel quale non c’è più un confine netto tra mondo militare e civile, tra industria militare e industria civile, e nel quale entrano in gioco anche attori privati (o para-pubblici) come aziende e università.

Occorre poi riflettere sul fatto che le nuove tecnologie possono contribuire a fronteggiare sfide quali pandemie e clima. Lo abbiamo visto recentemente con i vaccini – che sono stati una grande vittoria del mondo occidentale – sviluppati in un contesto di collaborazione tra istituzioni, grandi imprese e

ricerca, trinomio, come già detto, fondamentale. Lo stesso vale per l’ambiente. La tecnologia è amica dell’ambiente, l’investimento tecnologico è la soluzione: più ambiente, più aria pulita, più investimenti e quindi più posti di lavoro, e più sicurezza, tutto si lega in un circuito virtuoso. C’è necessità di più ricerca e di più investimenti ma questo va accompagnato anche da riflessioni di carattere etico. Anche nell’ambito del comparto della difesa questa è una riflessione importante. Credo che, anche su questo, noi italiani con la nostra “tradizione etica” possiamo dare un grande contributo. Abbiamo delle grandi personalità in campo accademico, ricordo il Prof. Luciano Floridi – Direttore del Laboratorio di etica digitale dell’Università di Oxford – che come annunciato poche settimane fa darà il proprio contributo all’Università di Bologna per lo sviluppo di ricerche innovative sull’intelligenza artificiale. Vorrei anche ricordare Padre Paolo Benanti dell’Università Gregoriana, un altro grande esperto di etica e innovazione, che ha avuto un ruolo nella “Rome Call for Artificial Intelligence” in occasione della quale è stato invocato il mantenimento dell’uomo al centro di ogni

processo e che è stata presentata a Papa Francesco un anno fa. L’etica delle nuove tecnologie è un tema centrale ed è tutt’altro che paradossale parlarne in relazione alle applicazioni in campo militare. Questo vuol dire anche avere dei principi etici perché è quello che caratterizza la nostra società democratica.

Ambasciatore, lei prima ha citato la resilienza, un concetto del quale soprattutto in questo periodo sentiamo parlare spesso. Ci può spiegare perché se ne parla sia in ambito NATO sia in quello nazionale?

La resilienza è una caratteristica indispensabile per le nostre società, sia per il presente che, sempre di più, per il futuro. È un concetto difficile da definire, per le innumerevoli declinazioni che può avere. Certamente, la costruzione di una società resiliente richiede un coinvolgimento di tutte le sue componenti per conferire maggiore coesione e capacità di resistere a fronte di eventi di qualsiasi tipo che possono avere risvolti di sicurezza. Dobbiamo qui riferirci alla sicurezza come categoria in senso ampio, ben oltre la tradizionale difesa convenzionale dal nemico esterno – comunque cruciale. Occorre includere nell’equazione anche il c.d. fronte interno. La prima linea di difesa delle nostre società si costruisce infatti “a casa”. Dobbiamo quindi impegnarci a costruire società più forti e capaci di reagire ad eventi esterni di ogni natura. E questa è una sfida non da poco. Anche su questo fronte, l’Italia ha delle grandi capacità, basti pensare all’Arma dei Carabinieri, che potremmo definire un’”organizzazione di resilienza”, che con il suo apparato capillare ha costituito uno straordinario tessuto connettivo in grado di dare forza e coesione alla sicurezza nazionale e al nostro paese. Abbiamo anche una straordinaria Protezione civile ma lo stesso Servizio Sanitario Nazionale è un grande esempio di resilienza, lo stiamo vedendo in occasione della pandemia. È sicuramente una sfida trattare questo argomento in particolare qui alla NATO perché la materia è di competenza nazionale prima, e poi certamente europea perché l’Unione Europea è qualcosa di straordinario, di unico e di diverso dalla NATO. L’Alleanza Atlantica – ricordiamocelo – è un’organizzazione intergovernativa mentre l’UE è un’organizzazione sovranazionale che ha assunto importanti competenze in contesti che un tempo erano definiti autonomamente dal singolo Stato. La resilienza credo che sarà, ma lo è già, un tema sempre più rilevante per il futuro. 

Rimanendo in tema Unione Europea, sia i vertici di quest’ultima che Stoltenberg hanno spesso ribadito l’importanza della cooperazione tra NATO e l’Unione, anche con il supporto degli Stati Uniti. Quanto effettivamente è importante il partenariato tra le due Organizzazioni?

È molto importante ed è stato ribadito durante la ministeriale. Il fatto che ci sia stato un incontro allargato, cioè che ai 30 paesi della NATO si sono aggiunti l’Alto Rappresentante Borrell e i ministri di Finlandia e Svezia che sono due paesi dell’UE non membri della NATO con un rapporto di partenariato più stretto con noi, ne è una prova chiara. Tutti hanno sottolineato un aspetto: la complementarità, non ci può e non ci deve essere alcuna conflittualità e neanche competizione. L’UE è più “profonda”: ha ad esempio una capacità normativa, ha un bilancio importante che l’Alleanza non potrà mai avere. La NATO invece ha qualcosa di diverso che l’UE non ha: è più “ampia”. Prima di tutto ha una dimensione, gli Stati Uniti e basterebbe questo; poi ha altri alleati importantissimi. La capacità NATO di difesa e sicurezza è ineguagliabile, dunque, è illusorio pensare ad una sostituzione o ad una competizione, non ci sarebbe confronto. Basti pensare, per quanto ci sforziamo alla condivisione degli oneri, al peso degli Stati Uniti da soli che è superiore a quello di tutti gli

altri paesi messi insieme.

La NATO ha un ruolo primario per la difesa e sicurezza (l’80% delle spese per la difesa della NATO sono coperte da paesi non-UE; un miliardo di cittadini vivono in paesi della NATO mentre la popolazione dell’UE è di circa la metà) e l’UE, che ha altri strumenti che la NATO non possiede, ha un’altra apertura globale che l’Alleanza non può avere. Insieme però condividiamo valori e principi: 21 paesi della NATO sono anche stati membri dell’UE. Lavorare insieme è un obbligo, non è un’opzione. Possiamo farlo? Già lo facciamo, non è facile ma possiamo e dobbiamo essere più efficienti. Inoltre, è determinante un’amministrazione americana che spinga per questo tipo di cooperazione con spirito costruttivo. 

Ambasciatore, due considerazioni finali: quanto è importante il lavoro che svolgete per rappresentare al meglio l’Italia alla NATO e cosa significa, per un paese come il nostro, appartenere a quest’ultima?

Noi siamo importanti nella misura in cui l’Italia è importante, ciascuno di noi qui è una piccola ruota di un grande ingranaggio che è l’Italia. Rappresentiamo tutte le articolazioni della Repubblica italiana, abbiamo al nostro interno rappresentanti dei Ministeri degli Esteri e della Difesa ma non solo. Siamo una sola squadra, cerchiamo di far valere i nostri interessi e cerchiamo di dare un contributo costruttivo all’interno delle attività della NATO. Stiamo ottenendo risultati, talvolta portando avanti anche delle iniziative innovative, come nel caso del cambiamento climatico, e gestendo da protagonisti dei temi importanti come quelli delle operazioni di pace, con strumenti straordinari che vengono messi a disposizione dalle nostre Forze Armate, capaci di arricchire la nostra capacità di proiettarci all’estero. Una menzione particolare anche alla nostra componente diplomatica in tutto il mondo che svolge un ruolo che vede nella NATO, nell’UE e nell’ONU i cardini dell’azione italiana di politica estera. L’appartenenza alla NATO è uno dei principi cardine della politica estera italiana. Per l’Italia, tra i paesi fondatori dell’Alleanza, l’atlantismo è un elemento fondamentale ed è il modo in cui riusciamo a far valere i nostri valori. I valori dell’Occidente che sono la nostra stella polare e dei quali l’Italia, con la sua storia, è a sua volta un punto di riferimento storico e culturale. I valori che si rifanno alla nostra Costituzione e al Preambolo del Patto Atlantico.

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