A partire dalla primavera 2021, migliaia di migranti provenienti dal Medio Oriente si sono diretti verso le frontiere tra Bielorussia e Polonia, Lettonia, e Lituania, Paesi membri dell’Unione Europea (UE). Nel 2021 il Presidente bielorusso Lukashenko ha infatti concesso visti turistici a migliaia di migranti, attirandoli in Bielorussia con la promessa di un accesso sicuro entro i confini dell’Unione, creando in questo modo una nuova rotta migratoria verso l’Europa. Strumentalizzando i migranti, il regime di Minsk ha saputo colpire l’UE in un punto debole, ovvero la gestione dei flussi migratori diretti verso i propri confini.
Il deterioramento delle relazioni UE-Bielorussia e l’escalation della crisi migratoria
Le relazioni UE-Bielorussia hanno cominciato ad inasprirsi in seguito alle elezioni presidenziali bielorusse dell’agosto 2020, quando l’UE, rifiutandosi di riconoscere la validità dei risultati elettorali e Lukashenko come Presidente neo rieletto, ha imposto gradualmente pacchetti di sanzioni economiche alla Bielorussia per condannare l’autoritarismo del Presidente. Per far fronte a queste misure restrittive, che in poco tempo hanno danneggiato pesantemente l’economia bielorussa, Lukashenko ha dichiarato a giugno 2021 che il suo Paese avrebbe cessato di collaborare con l’UE nella lotta all’immigrazione clandestina.
Determinato a mettere pressione all’UE, Lukashenko non solo ha smesso di controllare i propri confini, ma ha anche creato artificialmente una nuova rotta migratoria verso l’Europa occidentale. Grazie ad accordi con compagnie aeree turche e irachene, a partire da giugno 2021, migliaia di migranti provenienti dal Medio Oriente, prevalentemente da Siria, Iraq, Yemen, e Afghanistan, hanno raggiunto la capitale bielorussa Minsk in aereo, per poi essere velocemente trasferiti dalle autorità bielorusse lungo i confini con i tre Paesi comunitari confinanti, e spinti ad attraversarli clandestinamente ed entrare all’interno dei territori dell’Unione.
All’inizio dell’autunno 2021, quando il numero di migranti stanziati ai confini è cominciato ad aumentare esponenzialmente, Polonia, Lettonia, e Lituania, tradizionalmente Paesi di emigrazione (e quindi impreparati ad accogliere ingenti flussi di migranti) e guidati da governi conservatori con politiche anti-migratorie, hanno reagito rendendo i propri confini pressoché impenetrabili e proclamando lo stato di emergenza nelle regioni adiacenti al confine bielorusso. Questa misura andava a sospende le garanzie previste dal diritto internazionale relativamente al diritto di asilo, così come la possibilità di libera informazione da parte di media e ONG. In questo modo si è formata una “no man’s land” tra Bielorussia e UE, ovvero un territorio di confine lungo il quale, nel corso dell’autunno 2021, sono stati bloccati circa 15-20mila migranti.
Proprio in quest’area, precisamente lungo il confine Kuznica-Bruzgi, quando l’8 novembre 2021 le autorità bielorusse hanno scortato circa mille migranti (la maggior parte curdi iracheni) verso il confine polacco, la crisi umanitaria alle frontiere orientali dell’UE è rapidamente degenerata. Nonostante le temperature sottozero, il primo ministro polacco Morawiecki, deciso a “difendere i confini polacchi ed europei”, ha contrattaccato accompagnando al dispiegamento di ulteriori guardie di frontiera l’utilizzo di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. Questo avvenimento, oltre che a segnare l’apice della crisi, ha messo anche in luce l’illegalità delle nuove normative adottate dai tre stati UE confinanti con la Bielorussia: queste, permettendo il “pushback” (allontanamento illegale) anche dei migranti ormai riusciti a varcare i loro confini, violavano il principio di non respingimento che, secondo il diritto internazionale e il regolamento di Dublino, garantirebbe ai migranti il diritto di chiedere asilo nel Paese di prima accoglienza.
L’“attacco ibrido” inserito in un quadro storico più ampio
Fin dall’inizio dell’autunno 2021, i funzionari dell’UE si sono rifiutati di chiamare l’arrivo di migliaia di migranti al confine bielorusso come una crisi migratoria, preferendo invece definirlo un “attacco ibrido”. Si trattava infatti di un tentativo di indebolire l’UE per poterla poi ricattare: la chiusura dei confini bielorussi sarebbe stata ripristinata al riconoscimento dell’Unione della validità delle elezioni bielorusse del 2020 e alla graduale sospensione delle sanzioni economiche.
Per capire la logica dietro all’adozione di questa strategia da parte del Presidente bielorusso è necessario contestualizzare questo “attacco” analizzando le politiche migratorie dell’UE e il fragile equilibrio da esse determinato. A partire dagli anni Novanta, ma più consistentemente in seguito alla crisi libica del 2013-2014, l’Unione Europea, incapace di definire una politica migratoria comunitaria fondata sui principi di accoglienza e solidarietà, ha cercato di porre fine alle crisi migratorie alle proprie frontiere esternalizzando la gestione dei flussi di migranti e richiedenti asilo a Paesi terzi. Per convincere questi ultimi a collaborare, l’Unione Europea si è servita di diversi accordi di riammissione. Secondo i termini di tali accordi, se il Paese terzo coinvolto avesse accettato di aumentare il controllo delle proprie frontiere esterne e di riammettere entro i propri confini un determinato numero di migranti già entrati nei territori dell’UE, quest’ultima avrebbe provveduto al pagamento di ingenti quantità di denaro e/o avrebbe facilitato la mobilità dei cittadini di questi Paesi verso e all’interno dei propri territori.
Tra questi accordi di riammissione, il più importante e discusso è stato quello utilizzato per porre fine al flusso di migranti, prevalentemente siriani in fuga dalla guerra civile, che dal 2015 tentava di raggiungere il vecchio continente lungo la rotta balcanica: l’Accordo UE-Turchia di marzo 2016. L’accordo, firmato il 18 marzo 2016, prevedeva che dal 20 marzo 2016 tutti i migranti irregolari in arrivo dalla Turchia sulle isole e coste greche venissero rispediti indietro, e che, per ogni siriano rispedito in Turchia, un altro venisse ricollocato in uno degli stati membri dell’UE. Inoltre, l’UE si impegnava a stanziare 6 miliardi di euro per aiutare la Turchia a offrire un’efficace assistenza umanitaria ai rifugiati (3 miliardi all’inizio dell’accordo e 3 miliardi successivamente alla riduzione del flusso) e ad accelerare la liberalizzazione dei visti e il processo di adesione della Turchia all’Unione Europea.
Nonostante questo accordo, riducendo velocemente il flusso lungo la rotta Balcanica, sia percepito all’interno degli Stati membri come un successo, l’UE, scegliendo di collaborare con Ankara nonostante la trasformazione autoritaria in corso in Turchia, ha stabilito un pericoloso precedente. Quest’ultimo, come nel caso di Lukashenko nel corso del 2021, potrà venire utilizzato da altri Paesi autoritari per fare leva sull’UE nel tentativo di raggiungere i propri obiettivi politici.
La risposta dell’UE
La risposta dell’UE alla presenza di migliaia di migranti alle sue frontiere orientali con la Bielorussia, un Paese tradizionalmente escluso da tutte le rotte migratorie dirette in Europa occidentale, si può analizzare a partire dalle differenze tra la situazione in Turchia nel 2016 e in Bielorussia nel 2021.
La prima differenza tra le due è la portata del flusso migratorio transitante entro i confini di questi due Paesi: se nell’arco del 2015 sono stati circa 1.5 milioni i rifugiati a passare attraverso la Turchia, sono stati solamente poco più di 20mila quelli ad aver attraversato la Bielorussia nel 2021. Per quanto riguarda la risposta comunitaria, se per fermare la rotta balcanica i vertici dell’Unione Europe hanno sempre risposto in maniera unitaria, nel caso dell’“attacco ibrido” hanno delegato per mesi la gestione della situazione al confine bielorusso agli Stati europei confinanti, ovvero Polonia, Lettonia, e Lituania. Quando poi, in seguito all’escalation della crisi migratoria e umanitaria dell’autunno 2021, una risposta comunitaria è diventata improrogabile, le divergenze di opinioni tra gli stati membri, ma anche tra le istituzioni europee stesse, sono rapidamente emerse. Già ad ottobre 2021 i ministri dell’Interno di 12 Paesi membri dell’Unione, tra cui Polonia, Lettonia e Lituania, avevano richiesto, in una lettera indirizzata alla Commissione europea, nuovi strumenti per proteggere le frontiere esterne dell’Unione di fronte ai flussi migratori, anche col finanziamento europeo di recinzioni. Per di più, alla richiesta della Polonia di aiuti comunitari per la costruzione del muro con la Bielorussia, il Presidente del Consiglio Europeo Michel e la Presidente della Commissione Europea von der Leyen avevano assunto posizioni contrastanti. Michel aveva aperto la possibilità di finanziamenti comunitari, mentre Von der Leyen, pur ammettendo di non avere nulla in contrario alla costruzione di nuove barriere fisiche, aveva negato la possibilità di finanziare recinzioni e muri con fondi comuni europei, per poi ribadire la necessità di adottare il quinto regime di sanzioni contro il regime di Minsk (entrato in vigore il 2 dicembre 2021). Nonostante la Commissione Europea abbia bloccato il finanziamento comunitario di barriere lungo le frontiere esterne dell’Unione è evidente come entrambe le istituzioni europee abbiano dato priorità anche in questo caso agli interessi politici e securitari sul fronte politico interno rispetto alla tutela dei diritti dei migranti coinvolti, come sottolineato anche dalla decisione della Commissione Europea di stanziare 700mila euro di aiuti umanitari per i migranti rimasti intrappolati ai confini bielorussi. Pertanto, malgrado in questo caso l’UE non abbia firmato un accordo di riammissione con la Bielorussia, né tanto meno sospeso le sanzioni economiche o riconosciuto Lukashenko come Presidente, la risposta alle provocazioni di Lukashenko ha confermato l’incapacità dell’Unione di rispondere alle crisi migratorie in maniera unitaria e senza esternalizzare la gestione del problema a Paesi terzi, dimostrandosi facilmente vittima dei giochi geopolitici dei governi autoritari oltre i propri confini.