Il Mediterraneo costituisce per l’Europa un prolungamento strategico ed economico, ma anche, e soprattutto, una frontiera umana e culturale. L’Europa, considerata come spazio aperto sia dal punto di vista umano che da quello politico-culturale e fondato su un fattore importante come la sicurezza, produce allo stesso tempo un effetto di chiusura verso la sponda meridionale, innalzando un muro che divide due mondi.
Dal 2017 il flusso di migranti verso le coste europee ha registrato un costante calo e il numero di immigrati è nettamente inferiore rispetto agli anni precedenti. Con la diminuzione degli sbarchi si è ridotta l’attenzione e l’interesse nei confronti del fenomeno, specie dopo lo scoppio della pandemia di coronavirus, che ormai da mesi ha catalizzato l’attenzione di tutti. Ciò nonostante, i flussi migratori non possono essere considerati un “problema” del passato, anzi nel primo semestre del 2020 abbiamo assistito ad un aumento dei numeri – seppur ancora limitato – rispetto agli ultimi anni: secondo il Ministero dell’Interno, dal 1° gennaio al 21 luglio 2020 i migranti sbarcati sulle coste italiane sono stati 9.885 rispetto ai 3.365 riferiti allo stesso periodo dell’anno passato.
Le migrazioni tra le due sponde del Mediterraneo rappresentano un fattore strutturale, pertanto sia i singoli Stati che l’Ue non possono permettersi di trascurare tale fenomeno, ma dovrebbero attivarsi per una soluzione sostenibile che abbia effetti non solo nel breve periodo.
La risposta dell’Unione Europea all’indomani della crisi seguita alle Primavere arabe nel 2011 è stata quella di una nuova strategia che fosse in grado di rilanciare la collaborazione con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, e che inaugurasse un nuovo dialogo su temi quali la sicurezza e l’immigrazione Sud-Nord. La condizionalità era l’elemento che stava alla base di tutti gli accordi di quel periodo, dove l’Ue offriva vantaggi in determinati settori in cambio di un controllo più severo sui movimenti dei migranti irregolari e di quelle fasce ritenute marginali. Quello a cui si è assistito è stato una sorta di “gestione dall’esterno” delle politiche di sicurezza e del controllo dei confini e delle rotte migratorie.
L’esternalizzazione delle frontiere può essere considerato un insieme di scelte giuridiche, culturali, ma anche militari ed economiche, attuate al di fuori del proprio territorio da soggetti statali, i singoli Paesi, o sovrastatali, come nel caso dell’Unione Europea, che abbiano un obiettivo specifico: nel caso del tema migratorio è quello di impedire o quantomeno ostacolare il più possibile l’ingresso dei migranti nel proprio territorio.
Per quanto riguarda il controllo e la gestione dell’immigrazione, i singoli Stati intervengono per rafforzare i propri confini, riproducendoli sotto nuove forme e delocalizzandoli oltre i tracciati ufficiali di demarcazione, cioè ridistribuendo nello spazio una serie di manifestazioni come per esempio gli obblighi di visto, i controlli in alto mare, la cooperazione transfrontaliera, le sanzioni alle ong, ecc. La scelta dell’Europa di adottare un atteggiamento volto a considerare il fenomeno migratorio principalmente in termini di sicurezza fa emergere i limiti che questa politica di controllo e di contenimento del fenomeno si porta dietro, soprattutto se prendiamo in considerazione la questione dei diritti umani.
Il processo di esternalizzazione delle frontiere non è una novità degli ultimi anni, ma è un fenomeno a quanto datato. Le questioni che però più ci riguardano prendono via dal 2015 con l’Agenda europea delle migrazioni, per poi attraversare un sentiero complesso che vede tra le principali tappe: il vertice de La Valletta (2015); l’intesa Turchia-Ue (2016); la Dichiarazione di Malta degli Stati membri del Consiglio Europeo (2017); gli accordi tra Italia e Libia e le varie iniziative sul codice di condotta da seguire per le Ong che svolgono attività di ricerca e soccorso.
Tra i principali attori coinvolti nel Mediterraneo, seppur attuando con obiettivi e metodi diversi, incontriamo: i singoli Stati, membri dell’Ue e non; le agenzie europee, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim); l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr); e le organizzazioni non governative (ong).
Il ruolo dell’Unhcr e dell’Oim diventa centrale nell’attuazione delle politiche volte ad impedire l’ingresso dei migranti nel territorio di uno Stato. Infatti, se il governo italiano e la stessa Ue vengono accusati di finanziare le autorità libiche, nonostante i molti dubbi che su queste ultime gravano, e con tali finanziamenti delegare ad esse il compimento di atti illegittimi, sia Roma che Bruxelles fanno continuo riferimento al ruolo svolto dai due organismi sovranazionali. Dal punto di vista degli Stati membri e dell’Europa, le due organizzazioni dovrebbero favorire l’innalzamento degli standard qualitativi dei centri di accoglienza dislocati in territorio libico e fornire assistenza a quei soggetti bloccati nel tentativo di attraversata e riportati indietro. Concezione errata e di risultato fallimentare se andiamo ad osservare l’impatto che gli interventi umanitari hanno sul trattamento a cui sono sottoposti i migranti.
Analizzando le varie misure adottate nel corso degli ultimi anni, pare chiaro che l’obiettivo dei Paesi europei sia quello di “filtrare fisicamente” l’ingresso dei migranti attraverso l’uso dei campi di accoglienza/detenzione in territorio africano. Attraverso accordi tra i Paesi della sponda Nord e quelli della sponda Sud si tenta di attuare una gestione, per quanto complessa, delle frontiere al sud della Libia e al rimpatrio dei migranti dalla Libia stessa verso quei Paesi ritenuti di provenienza, fra tutti il Ciad, il Sudan e il Niger. Dal 2014 la Libia è il principale Paese di transito per i migranti che partendo dall’Africa sub-sahariana tentano di arrivare in Europa. Le norme libiche in materia di migrazioni sono alquanto povere. L’ordinamento libico non riconosce nessuna distinzione tra migranti irregolari e richiedenti asilo: tutti sono considerati migranti illegali e per questo punibili con la reclusione.
L’esternalizzazione realizzata attraverso accordi con Stati terzi non esonera teoricamente gli Stati di destinazione dal rispetto degli obblighi del diritto internazionale. Ciò riguarda anche l’Italia. Ci si chiede allora se le violazioni dei diritti umani che i migranti subiscono a causa della gestione dall’esterno dei confini non sia imputabile anche ai Paesi di destinazione. Se così fosse sia l’Ue che i singoli Stati membri (Italia inclusa) potrebbero essere ritenuti responsabili in parte per le violazioni subite dai migranti all’interno dei centri di detenzione libici e per non aver fatto nulla fino ad oggi per cambiare tale situazione.