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NewsLa Northern Crescent sunnita

La Northern Crescent sunnita

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Del Medio Oriente non si può certo dire che sia mai stato area marginale; di certo sulle sue sabbie, a partire dalla destituzione di Mossadeq nel 1953 fino JCPOA del 2015, l’Europa ha conosciuto un declino politico che il pivot to Asia obamiano non ha rallentato. È del resto innegabile che gli USA non possano permettersi di ignorare una regione su cui i principali antagonisti investono a diversi livelli, con la Russia dispiegata in Siria, Libia e Sahel, la Cina dipendente dal petrolio e dalle tratte commerciali regionali e con l’idra del radicalismo islamista. 

La Russia persegue numerosi obiettivi: il controllo delle infrastrutture del nord est su Mar Nero e Mar d’Azov, vista la pressione esercitata nel Baltico dalla richiesta di adesione alla Nato da parte di Svezia e Finlandia; il libero transito attraverso Bosforo e Dardanelli grazie ai rapporti con la Turchia, che dovrebbero consentire proiezioni dal Mar Nero verso Est, dal Mar Rosso verso l’Oceano Indiano, verso lo Ionio e l’Adriatico; la penetrazione politico-militare in Africa per trasformare il continente in un argine all’atlantismo. Oltre che la presenza in chiave antieuropea del Gruppo Wagner in Sahel, è significativa la sua infiltrazione in Libia al fianco dell’esercito di Tobruk visto che proprio in Cirenaica Mosca potrebbe riaprire una base mediterranea avanzata. L’Algeria è funzionale all’irradiazione dell’influenza russa sulla totalità dei paesi nord africani con cui il Cremlino ha stretto legami economico-strategico–militari, oltre alla penetrazione verso l’area subsahariana. La presenza russa non può non ingenerare incognite anche per Roma, che deve affidarsi alle importazioni libico algerine di gas.

 L’obiettivo russo consiste nell’alleviare le pressioni subite nel nord Europa ricordando ai Paesi Nato del sud le loro vulnerabilità energetiche e militari, tenendo sempre presente che l’attenzione europea deve essere al momento attratta dalla Cina. Tutto questo al netto delle narrative russe che, pur puntando nell’area a favorire possibilità politiche più fattibili, non possono contare sul supporto di iniziative concrete che la guerra sta rendendo oltremodo più difficili. Se è vero che il ciclico isolazionismo statunitense ha caratterizzato le recenti relazioni internazionali, è però altrettanto vero che né Obama, né Trump né tanto meno Biden hanno acconsentito ad un reale abbandono di un’area che rimane nevralgica in termini di risorse materiali e simboliche. Dalla Tunisia all’Iraq, dall’Algeria allo Yemen le tensioni sociali sono aumentate con élite che resistono grazie al sostegno di potenze straniere. 

Da quest’area così complessa, estesa dall’Atlantico all’Oceano Indiano, proviene il 60% delle riserve mondiali di petrolio e il 45% di quelle di gas naturale, cosa che ha portato a considerare la centralità di paesi come Algeria, Qatar ed Egitto. La forza dei deep state egiziano, giordano e marocchino consiste nel mantenere il potere in territori che rivestono una posizione strategica nell’intero quadrante mediterraneo. Insomma, l’oblio in cui precipitare il MO rientra tra gli ossimori inaccettabili, tanto che con nord Africa e Sahel continua ad essere attraversato da conflitti multistrato in cui interagiscono realtà locali e dinamiche internazionali, dove le guerre non sono mai risolvibili internamente né sono mai limitate a un singolo paese, e dove gli attori spesso operano secondo modelli spesso contrastanti; gli interessi in gioco innescano diverse forme di gestione conflittuale, puntando talvolta  a stabilità di ampio respiro con il coinvolgimento delle istituzioni internazionali, talvolta a modalità di composizione dei contrasti relativamente brevi, oppure privilegiando gli stilemi dell’hard power

Nel 2022 il continente africano è stato caratterizzato da crescenti crisi securitarie, cosa che lascia presagire come Sahel occidentale, Lago Ciad e Repubblica Democratica del Congo potranno divenire punti d’interesse dei gruppi radicali africani. Di fatto il conflitto ucraino ha impattato sulle economie africane causando l’aumento dei prezzi delle materie prime e l’incremento dell’inflazione complessiva, in un quadro generale caratterizzato da una forte instabilità politica. In Egitto l’inflazione a fine 2022 è salita al 21,9% ed è dovuta all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dei beni di prima necessità, con un ulteriore impiego di risorse per calmierare il prezzo del pane; l’intento di estendere la coltivazione del grano entro la fine del 2024, sostanzia una strategia di medio termine necessaria a rafforzare la sicurezza alimentare ma non ad alleviare l’immediata e contingente vulnerabilità della popolazione. 

Viste le convergenze con la Russia nelle zone conflittuali del MO, la diplomazia egiziana ha dovuto comunque curare la salvaguardia delle partnership con USA e UE; l’intensificazione del confronto russo-occidentale, costringerà il Cairo ad un’inevitabile scelta binaria. Situazione per molti versi analoga in Tunisia, dove il deficit del commercio alimentare è lievitato a causa dell’incremento dei costi delle importazioni di cereali e zucchero, contestualmente ai tagli ed alla rivisitazione della struttura economica statale assistenzialista, una revisione al ribasso indispensabile per garantire ulteriori prestiti internazionali. La Tunisia, economicamente già da tempo in sofferenza, riceve quasi l’80% del suo grano dall’Ucraina e sovvenziona l’acquisto del carburante, per cui è stato considerato come prevedibile ed accettabile un prezzo iniziale al barile attestato intorno ai 75 dollari, tuttavia più realisticamente oscillante intorno ai 100, contingenza questa che ha costretto l’esecutivo ad aumentare i prezzi nel tentativo di frenare il deficit. I negoziati tesi ad assicurare l’erogazione di risorse dal FMI hanno tuttavia risentito dell’involuzione impressa dalla politica del Presidente Saïed, peraltro impegnato nel tentativo di mantenere un’equidistante posizione tra Occidente e Russia. Anche la Libia non è immune dagli effetti geostrategici del conflitto ucraino; le forze paramilitari russe della Wagner, pur bilanciate da consiglieri turchi e mercenari siriani appoggiati da Ankara ad ovest, hanno finora fornito a Mosca una triplice chance: un leverage sul fianco meridionale dell’Alleanza Atlantica; la capacità di condizionare l’estrazione petrolifera; la possibilità di proiettarsi a sud verso i paesi del Sahel, tutte utilities condizionate però dal ridispiegamento dei contingenti mercenari in Ucraina. 

La Turchia, che ambisce al ruolo di mediatore, nonostante il sostegno militare a Kiev, non intende aprire confronti con la Russia; in Libia tuttavia l’intermediazione potrebbe scemare laddove il Cremlino intendesse intensificare l’azione anti atlantica, o se le opposte fazioni libiche intendessero riprendere le attività belliche. Dal punto di vista ancirano, il tentativo strategico russo di controllare le coste del Mar Nero bloccherebbe l’Ucraina stabilendo una continuità tra Mosca e la regione separatista della Transnistria; del resto già prima dell’invasione la Russia aveva consolidato la sua presenza navale nel Mar Nero, dopo aver dispiegato in Crimea assetti A2/AD e sistemi missilistici. L’invasione russa ha intralciato i piani turchi di rafforzamento nel settore industriale della difesa con l’Ucraina, in un momento di crisi economica che vede Ankara esposta all’antagonismo russo sia dal punto di vista energetico che da quello strategico relativo alla possibilità di creare ostacoli in Siria. 

Tuttavia, se da un lato la Turchia ha definito l’invasione un atto di guerra tanto da applicare la Convenzione di Montreux, dall’altro ha tenuto un atteggiamento ondivago sulle sanzioni per non inimicarsi del tutto Mosca. Per Ankara rimane comunque necessario elaborare una strategia che contenga l’espansionismo russo sul Mar Nero alla luce, peraltro, della sua (sofferta?) appartenenza all’Alleanza Atlantica. In Turchia, l’inflazione annua al consumo ha toccato picchi storici attestandosi a dicembre al 64,27%, senza contare la drammatica situazione determinata dal recente sisma. Anche in Libia l’insicurezza alimentare sta colpendo duro, visto che le importazioni di grano dall’est Europa ammontano al 75%, e visto che sarà di conseguenza necessario pagare un sovrapprezzo a fornitori alternativi come Brasile e Argentina. Da non sottovalutare che le aspettative di un aumento della domanda di greggio sono state riequilibrate dal rallentamento della crescita economica globale, nonché dalle fluttuazioni produttive causate dagli interventi estemporanei delle fazioni in conflitto.  Se la presenza russa nella Libia meridionale induce l’Europa ad una comprensibile preoccupazione, anche una possibile iniziativa del Cremlino in Siria ingenera ansie sia in Turchia che in Israele, Paese su cui incombe l’Iran, con l’aggiunta della presenza dei Curdi di Siria per i quali qualsiasi compromesso geopolitico avverrebbe a loro spese. 

Gli attriti africani, tuttavia, hanno visto l’accentuarsi della competizione non solo tra i maggiori soggetti politici, ma anche tra gli attori di relativa media rilevanza. La diversificazione delle fonti energetiche, posta in atto da un’Europa che ambisce ad attenuare la dipendenza dalle forniture russe, sta portando ad indirizzarsi verso approvvigionamenti nord africani. Il Nord Africa rappresenta un punto di faglia delimitato a settentrione dal Mediterraneo, a sud dal Sahel, ad ovest dal Marocco, e ad est dall’Egitto; non è propriamente regione, ma melting pot geopolitico attraversato da conflitti interni dove i controlli sugli spazi transfrontalieri sono minimi, e dove i confini degli Stati ricalcano geometrie di epoca coloniale. Lo scacchiere settentrionale, privo di reali egemoni, attrae le potenze esogene; di fatto le sponde mediterranee dell’Africa delimitano un continuo divenire geopolitico, dove la primavera, ciclicamente, scuote le fondamenta degli Stati dimostrando una vitalità pronta a prorompere per effetto del mancato accoglimento delle istanze sociali. 

Di fatto, le braci della Primavera Araba ancora covano sotto la cenere di una politica regionale a cui la guerra russo ucraina offre, in funzione dell’alterna disponibilità di risorse energetiche fossili, la possibilità di puntellare economie asfittiche che, già colpite dalla pandemia, evidenziano il difficile mantenimento dello status di rentier state. In conseguenza del blocco commerciale sul Mar Nero, il rischio di impoverimento e carestia mediorientale si è acuito così tanto da far passare in secondo piano le altre cause di crisi, tra le quali i default finanziari precedenti a pandemia e conflitto. Quel che è immediatamente rilevabile è l’aumento del fenomeno migratorio clandestino non solo dalle coste nordafricane ma anche da quelle libanesi, dove chi fugge si è impoverito nell’arco di breve tempo; più che comprensibile il lievitare di una contestazione politica armata destinata a crescere. Sulla sponda meridionale del Mediterraneo si possono riconoscere diverse forme di potere; in Egitto, Giordania, Marocco le spinte sociali vengono contenute grazie al sostegno occidentale e con il controllo interno delle crisi di potere. Algeria, Tunisia e Libano sono attraversati da transizioni perduranti; Siria, Libia, Yemen, Iraq assistono al consolidamento di classi dirigenti locali che si affiancano a quelle nazionali. La pressione migratoria intanto gioca contro l’UE: mentre il Marocco ha sfruttato la capacità di controllare i suoi confini con Ceuta e Melilla per costringere Madrid a sostenere la sua posizione in merito al Sahara occidentale, è emersa la crisi tra Spagna e Algeria. Il flusso migratorio da Iraq Afghanistan e Siria verso la Grecia è si è convertito in una miliardaria merce di scambio per la Turchia. L’insicurezza alimentare affligge Egitto, Libano, Tunisia, Sudan e Yemen, Paesi colpiti più sensibilmente di Giordania, Marocco e Algeria. I tassi di inflazione in MO si attestano sul 6%, contro il 7,2% nordafricano; una situazione aggravata dalla massiccia e generalizzata perdita di posti di lavoro dovuta sia al Covid, sia alla debolezza del settore industriale, al declino dell’agricoltura e ad un’urbanizzazione che esalta le disuguaglianze territoriali, una situazione che agevola l’erosione della fiducia nelle istituzioni, rette da élite anagraficamente anziane e caratterizzate dalla mancanza di una transizione generazionale. 

Se la spesa per istruzione e sanità si è ridotta, si è incrementata invece quella per la difesa, senza contare sia le conseguenze dei problemi idrici che quelle indotte dal cambiamento climatico. Non c’è dubbio che tutti questi elementi possano provocare un’ulteriore ondata di instabilità entro i prossimi 5 anni, con una recrudescenza dei conflitti intraregionali. Da non sottovalutare le previsioni di Bloomberg, per cui il 2023 africano passerà alla storia come l’anno del debito insostenibile, con gli oneri dei prestiti a lungo termine raddoppiati e con un’inflazione galoppante. Come evidenziato a Davos dal Rapporto Oxfam in occasione del World Economic Forum, pandemia, caro energia e inflazione hanno contribuito a rendete i pochi abbienti ancora più ricchi ed i molti nullatenenti ancora più poveri; di fatto le aspettative sono basse, visto che l’analisi economica indica il 2023 quale anno della recessione globale, con l’economia segnata dall’andamento delle crisi geopolitiche e con la trasformazione del fenomeno della globalizzazione. La guerra ucraina, con l’innalzamento delle barriere commerciali USA-Cina, o con i contrasti USA – UE in merito al sostegno assicurato ciascuno alle proprie filiere industriali, ha aggravato una situazione preesistente che ha ulteriormente rimarcato come sull’economia globale il controllo statuale, ormai sempre più vincolato, sia sempre più difficile. 

Mentre la Russia si avventura verso un’improbabile via di fuga dall’isolamento internazionale, l’espansione dei suoi impegni economici in Africa ha assunto ulteriore rilevanza. Più che altrove, i governi del continente africano hanno evitato di assumere posizioni nette circa la violazione dell’integrità territoriale ucraina, anche perché l’Africa non può certo permettersi la libertà di censurare potenziali partner capaci di promuovere opportunità economiche in svariati settori, dalle materie prime, ai beni tecnologici ed alla digitalizzazione. Il Cremlino, tuttavia, deve affrontare diversi ostacoli: il PIL russo (1,4 trilioni di dollari) è equivalente a quello brasiliano o a quello spagnolo e si prevede che, contraendosi del 5,5%, non recupererà i valori anteguerra fino al 2030. Di fatto, la Russia in Africa investe poco e punta sul commercio che si attesta su un volume pari a circa 14 miliardi di dollari; le esportazioni russe riguardano principalmente cereali, prodotti estrattivi ed energia nucleare, ed il 70% di tutto il commercio si concentra su 4 Paesi: Egitto, Algeria, Marocco e Sudan. Rispetto alle promesse del vertice di Sochi del 2019 di raddoppiare il livello dell’import-export in 5 anni, questo è diminuito scendendo del 30%; il Cremlino vende armi saturando oltre la metà del mercato, con Egitto Algeria ed Angola che rappresentano il 94% del valore delle vendite. La Russia ha manifestato il suo interesse per gli investimenti nei combustibili fossili africani, anche se la mancata realizzazione di gran parte di questi progetti ha chiarito che il vero obiettivo del Cremlino consista nell’impedire che le risorse africane taglino le quote di mercato russo. Di fatto le reali motivazioni russe in Africa riguardano l’implementazione degli interessi geostrategici e sono volte ad assicurarsi un leverage mediterraneo grazie a strumenti non convenzionali ed asimmetrici quali la cooptazione delle élite, la disinformazione, l’interferenza nelle pratiche elettorali, il dispiegamento di paramilitari della società Wagner. Si può ritenere come, nell’area, la presenza russa non costituisca solo un interesse strategico, ma una necessità, date sia le dimensioni del conflitto in corso, sia la posizione geografica di Damasco affacciata sul Mediterraneo orientale. 

Mentre l’imminente crisi valutaria iraniana ha portato la Banca Mondiale a rivedere quest’anno al ribasso per il 2,2% la crescita di Teheran e per l’1,9% per il 2024, viste la concorrenza del petrolio russo deprezzato e l’elevata inflazione, anche il tasso di crescita egiziano dovrebbe diminuire al 4,5% quest’anno ed al 4,8% nel 2024, pur a fronte del pacchetto di sostegno finanziario da 3 miliardi di dollari concesso dal FMI, compreso un regime di cambio flessibile ed un ridimensionamento dei militari nelle imprese di Stato. La Banca Mondiale ha invece stimato al 2,3% la lievitazione del tasso di crescita algerino, sostenuto dai rialzi del mercato dei combustibili fossili e da una più sostenuta spesa pubblica, con entrate energetiche straordinarie pari 50 miliardi di dollari nel 2022, a fronte dei 34 dell’anno precedente. 

Vista la crescita economica del 3,75% nel 2022, Sonatrach, per il 2023, prevede un altro anno redditizio, mentre l’Oman investe nell’idrogeno con la sua economia proiettata verso una crescita del 3,9%. Non c’è dubbio, comunque, che il conflitto ucraino abbia impattato sulle economie dipendenti dal capitale straniero, con Algeria, Marocco e Tunisia costretti a ricercare maggiori investimenti in asset infrastrutturali. La Banca mondiale ha valutato in almeno 100 miliardi di dollari per i prossimi 5 anni il fabbisogno necessario per migliorare la connettività regionale transfrontaliera per trasporti ed energia, settore dove l’interesse di Bruxelles si è acuito in vista di una possibile integrazione euro-mediterranea, caratterizzata da investimenti nel near shoring e da un miglioramento della situazione logistica e della gestione delle catene del valore. Anche gli USA ritornano sulla scena, manifestando un rinnovato interesse non pienamente supportato, però, da un’efficace strategia, data l’attuale e sofferta influenza diplomatica peraltro non coincidente con gli interessi dei vari interlocutori; al momento il nord Africa ha palesato l’intenzione di voler mantenere un equilibrio strategico multipolare. 

La corsa al nucleare, oltre a Israele e Iran, ha cominciato ad annoverare anche altri concorrenti, con Egitto e Turchia sugli scudi: anche se la dotazione di armamenti atomici non costituisce traguardo prossimo per il Cairo, la realizzazione di un’infrastruttura nucleare come quella di el Dabaa rappresenta comunque un passo avanti. Considerazioni analoghe valgono per la Turchia laddove, in attesa delle prossime elezioni, riemerge il desiderio di politica di potenza, per ora solo verbale, dell’AKP. Insomma in MO, dal nucleare, oltre agli attori consueti, si muovono anche altri player che, in funzione delle instabilità, potrebbero essere spinti ad accelerare le loro iniziative. Se l’energia nucleare porta a considerare teatri tecnologicamente avanzati, non è possibile discostarsi dalla più tradizionale minaccia jihadista, per cui la sponda libica rimane luogo d’elezione specie nel Fezzan, con il rafforzamento di una rete terroristica clandestina connessa alla criminalità organizzata. Il fenomeno, tuttavia, non può essere circoscritto alla sola Libia, ma va esteso sia alla Tunisia, che ha esportato un numero significativo di foreign fighters, sia alla zona confinaria algerina, sia in Egitto nella penisola del Sinai. A questo quadro va aggiunta la situazione del Sahel, con Mali e Burkina Faso, punti nodali di uno sviluppo jihadista potenzialmente incombente sull’Algeria. 

Del resto va considerato che MO e Nord Africa sono interdipendenti, come dimostrato sia dalle rivolte arabe del 2011 sia dalle comuni strategie di contenimento adottate dai vari governi. Il fatto che le questioni interne statuali si ripercuotano al di là dei confini nazionali, porta a ritenere che anche i recenti sviluppi iraniani possano rappresentare sia un punto di svolta sociale, sia una sfida per i governi vicini o ostili a Teheran, che sembra indirizzata verso un’involuzione securitaria. Le ragioni per cui le proteste iraniane possono riverberarsi a livello regionale sono diverse e riguardano attriti intergenerazionali e tra classi sociali in grado di far emergere malesseri connessi a sistemi istituzionali oppressivi, caratterizzati da esigui risultati economici; sistemi privi di qualsiasi attenzione circa rivendicazioni identitarie basate su etnia, genere, religione o età anagrafica. Tutto questo induce a ritenere che il distacco tra società e attuale sistema politico sia ancora più profondo di quanto suggerito dalle proteste, e che soprattutto i dati demografici non siano regionalmente così diversi. La rivolta iraniana ha svelato le debolezze di un sistema politico in grado di scuotere la stabilità dei governi regionali per via del fallout politico-economico-sociale, a fronte di una politica estera improntata, specialmente nel Golfo, ad una globalizzante neutralità che assicuri stabilità al netto sia dell’imbarazzante Qatargate bruxellese, sia della perdurante necessità di deterrenza

Che l’Algeria sarebbe diventata elemento indispensabile per l’approvvigionamento energetico occidentale non lo avrebbero immaginato in molti; quale più grande esportatore di gas naturale africano, Algeri sta capitalizzando sia la rivalità tra blocco occidentale e Russia, sia la crisi energetica contingente che ha costretto i governi europei a cercare alternative per ovviare alle mancate esportazioni di gas e petrolio dall’est, un business da oltre 50 miliardi di incassi solo nel 2022. Secondo l’ultima edizione dell’Algeria Economic Update della Banca Mondiale, la ripresa algerina dovrebbe continuare per tutto il 2023 tanto da permettere al presidente Abdelmadjid Tebboune sia di chiedere l’ingresso nel gruppo Brics, sia di firmare, in chiave BRI ed in tema energetico ed infrastrutturale, accordi con la Cina secondo uno schema win-win. Con una crescita significativa delle spese militari, da 9 a 23 miliardi di dollari, l’Algeria è prossima a divenire uno dei paesi che impiega più fondi per la difesa, aspetto questo stigmatizzato anche dalla stampa marocchina per cui il passaggio del PIL per la difesa dal 5,3 al 12% porterebbe Algeri a ridosso di Paesi come Taiwan e la Polonia, costretti a spendere per le contingenze geopolitiche in cui versano. 

Da non trascurare il ritrovato dialogo con l’Iran, favorito dall’avvicinamento tra Marocco e Israele. Sebbene la dottrina strategica algerina rimanga fedele ai principi di non interferenza, le dinamiche che hanno interessato il Marocco, unitamente ai problemi di sicurezza riguardanti Sahel e Maghreb, hanno indotto l’Algeria a rafforzarsi militarmente, visto che Rabat ha già da qualche anno lanciato piani finanziari cospicui per la modernizzazione delle proprie Forze Armate, con l’intento di diventare la principale potenza militare regionale. Con una Libia perennemente sul punto di collassare, e con la Tunisia a rischio di un aggravamento della crisi politica, Algeri non può che tenersi pronta per qualsiasi evenienza, specie per quanto concerne lo scontro con Rabat circa la sovranità sul Sahara Occidentale, aspetto che ha condotto allo scontro diplomatico anche con Madrid, a fronte di un contestuale miglioramento delle relazioni con Parigi e Roma, acquirente privilegiato grazie anche all’indimenticata figura di Enrico Mattei ed alla sua opera pro algerina, e dopo aver superato le tensioni dovute all’estensione unilaterale tunisina della propria ZEE. La proattività diplomatica algerina si sta esprimendo anche in funzione degli interventi di mediazione riguardo alle numerose crisi regionali, a cominciare dalla Libia, per proseguire sulle dispute che hanno visto coinvolti Egitto, Etiopia e Sudan sulla Diga GERD, per finire alla questione interessante il Mali. 

Il Marocco, tuttavia, non è rimasto inerte, e ha cercato di instaurare rapporti diplomatici con potenze extraregionali, sia definendo una politica propriamente africana sia partecipando agli Accordi di Abramo con Israele e, soprattutto, incassando il riconoscimento americano della territorialità marocchina sull’intero territorio sahrawi. Se Algeri sostiene il Polisario, Rabat ha concesso il suo sostegno al movimento indipendentista MAK della Cabilia, regione in lotta autonomistica con Algeri, ed al Rachad, movimento integralista. Un’ipotesi di lavoro riguarda la possibilità che le scelte di Algeri siano dettate non solo da innegabili querelle diplomatiche, ma anche dalla valutazione delle situazioni contrattuali riguardanti il gas. 

Le deviazioni di fornitura da un Paese all’altro incidono sulla rilevanza del peso politico, ed oltretutto possono rendere un acquirente più disposto ad ulteriori e consistenti acquisti rispetto ad un altro, in modo da massimizzare i profitti; l’altro aspetto eminentemente politico è che l’Algeria in primis, alla stessa stregua russa, possa intendere di voler utilizzare il gas quale merce di scambio sia per ottenere concessioni sul regime dei visti verso l’Europa sia per deviare l’attenzione sul rispetto della politica dei diritti umani. Il gas algerino avvicina Roma anche alla Tunisia, visto che il gasdotto Transmed vi transita per raggiungere Mazara del Vallo. Dati i legami economici con l’Europa contemporanei a quelli con la Russia, anche l’Algeria sarà tra non molto costretta a prendere partito, un aspetto questo che rende la soluzione energetica proposta da Algeri da valutare attentamente nel medio termine. Le relazioni militari con la Russia e quelle commerciali con la Cina propongono comunque l’Algeria quale paese proiettato ad accrescere il proprio peso regionale anche in considerazione di una possibile cooptazione tra i Paesi BRICS. 

Economia e fonti energetiche giocano un ruolo primario anche in Libia dove l’ENI, principale produttore internazionale di idrocarburi con la NOC, ha intessuto un progetto strategico, Strutture A&E, volto ad aumentare la produzione di gas sia per il mercato interno che per l’esportazione verso l’Europa. Rilevante tuttavia la considerazione relativa alle possibili chiusure degli impianti imposte da gruppi di diversa ispirazione della Libia orientale e meridionale, che rappresentano uno strumento di pressione perché Dbeibah accetti la transizione con Bashagha; all’insegna del realismo, va tuttavia ricordato come Farhat Omar Bengdara, con nomina concordata tra Dbeibah ed un interessatissimo Haftar, sia assurto alla presidenza della NOC. Politicamente la Libia rimane un partner instabile, data la situazione bicefala determinata dalla contesa per il potere tra i misuratini Dbeibah e Bashagha, ambedue appoggiati da fazioni islamiste e privi di legittimità democratica, con Bashagha che punta ad una coalizione di ampio respiro, e con l’oggettiva difficoltà di giungere ad elezioni ormai da tempo rinviate; il fatto che anche gli USA stiano nuovamente indirizzando le loro attenzioni nell’area, per salvaguardare istituzioni economiche e finanziarie e per contenere la presenza russa, non fa che confermare l’accresciuta rilevanza di un’area contesa da molti. Mentre Dbeibah adotta una politica di stampo populista – emulato da Agila Saleh – ed in opposizione alla Camera dei Rappresentanti di Tobruk, Bashagha rafforza i punti di frizione per non perdere uno spazio politico peraltro non garantito dall’appoggio altalenante del feldmaresciallo Haftar, privo di consenso a Tripoli. Personalismo e clientelismo che dominano il quadro politico libico, e che annullano qualsiasi parvenza di istituzionalismo, non fanno che allargare le fratture determinate dalle prese di posizione internazionali. Protagonista esterna la Turchia che ha rafforzato la propria politica estera con una discreta aggressività nel mettere a punto una strategia di medio e lungo termine. Pur confermando il proprio interesse nei confronti della prediletta Tripolitania, Ankara ha cominciato ad intrattenere relazioni anche con Tobruk, insieme con Egitto, EAU e Arabia Saudita. La Libia fa parte di un piano turco più ampio, che vede Ankara quale ambiziosa chiave di volta di equilibri globali. 

Il Marocco, nel frattempo, nell’ambito degli incontri del Negev, stringe relazioni con i rappresentanti di Israele, Egitto, Stati Uniti, Bahrein, EAU e Giordania, nel quadro del rafforzamento dei rapporti tra Israele e paesi arabi alleati degli USA, ed apre la strada verso ipotesi di alleanze che da un lato affondano le loro radici nel passato, con i trattati di pace israelo egiziani ed israelo giordani, e dall’altro si proiettano nel futuro, con EAU, Bahrein e Sudan, mercè l’ordito diplomatico saudita in chiave di contenimento iraniano. Nonostante un decennio di turbolenze sociali, e grazie alla mancanza di coesione all’interno dei partiti all’opposizione, Re Mohammed VI è riuscito a continuare a detenere il potere neutralizzando le dinamiche politiche disgregatrici; le elezioni del 2021 non hanno portato alla temuta spallata del PJD. Di fatto, anche in Marocco, persistono gli elementi utili ad una possibile futura faglia: mancanza di opportunità economiche, garanzia insufficiente di concessione di beni pubblici da parte statale, restrizioni sui diritti collettivi. Dal punto di vista della politica estera e dei rapporti con Algeri, la situazione è precipitata a seguito sia degli incidenti avvenuti nell’area di Guerguerat, che hanno messo fine al cessate il fuoco delle NU del 1991, sia dell’inclusione marocchina negli Accordi di Abramo; i due avvenimenti hanno ravvivato le tensioni tra Rabat e sahrawi, e hanno riacceso con Algeri la contesa sul Sahara Occidentale che costituisce la pietra angolare della politica estera marocchina, così come l’Algeria rimane il più importante sostenitore dell’autodeterminazione del popolo sahrawi attraverso il Fronte Polisario. 

Un’escalation militare potrebbe condurre ad una libicizzazione dell’area capace di innescare ulteriori interessi esogeni in aree viciniori (Sahara-Sahel) e con forti effetti di instabilità in tutta l’Africa Occidentale; il tutto a beneficio delle potenze regionali, usuali frequentatrici delle zone grigie dei conflitti, ed appoggiate da forze esterne con apparati d’intelligence di Paesi come Russia e Turchia, interessati più a fomentare un contesto già in ebollizione che a fornire un sostegno ideologico alle varie cause. Da ciò si evince che il quadro delle alleanze è trasversale: di fatto è stato il via libera americano sulla questione sahrawi ad aprire le porte degli Accordi di Abramo. Il protrarsi della guerra ucraina accentuerà il tema della vulnerabilità alimentare ed energetica del Paese, benché l’80% delle forniture dei cereali provengano da Francia e Canada. Il conflitto si è riflesso anche sul prezzo dei fertilizzanti, risorsa di cui il Marocco, che possiede il 75% delle riserve planetarie di fosfato, è uno dei principali produttori. Nonostante la labilità delle relazioni economiche con l’est Europa, l’economia marocchina sarà quella più colpita dalla guerra in corso; secondo la Banca Mondiale, siccità, aumento dei prezzi dei beni alimentari e dell’energia, impatto della pandemia possono infliggere al Paese ferite socio economiche di difficile assorbimento. Da notare che, proprio nel momento in cui si stanno accertando responsabilità marocchine nel Marocco-gate a Bruxelles, si stanno ripetendo gli appelli per la scarcerazione di Nasser Zefzavi, leader delle proteste iniziate nel 2016 nel Rif. 

L’Egitto sta tentando di affrontare una crisi multisettoriale che potrebbe intaccare il potere del Presidente Abdel Fattah al-Sisi condizionando le sorti di altri Paesi dell’area MENA. L’Egitto vive di sovvenzioni da parte dei Paesi del Golfo, da parte del Fondo Monetario e dalla Banca africana di sviluppo; fondi tuttavia in gran parte spesi per progetti poco attinenti alle necessità sociali. Mentre aumenta la quota degli introiti a bilancio per i prestiti, la valuta egiziana ha continuato a svalutarsi, portando ad un aumento dei prezzi delle importazioni, con l’inflazione in salita. Se il governo non risanerà il debito stabilizzando la spinta inflattiva, l’Egitto potrebbe essere colpito dal default. A 12 anni dalla Primavera araba la regione è ancora attraversata dallo stesso fil rouge del 2011: crisi economica, fame, rivoluzione. Tra le strategie di transizione energetica annoveriamo l’idrogeno verde, per cui Il Cairo, forte della sua collocazione strategica sul Mediterraneo, si presenta sia come produttore/esportatore naturale, sia come candidato ideale per la firma di protocolli di intesa e di accordi con partner internazionali e regionali. Di interesse quel che l’Egitto sta valutando circa la possibilità di emettere obbligazioni denominate in yuan destinate al mercato cinese, cosa che permetterebbe di attingere a nuove risorse sul mercato obbligazionario di Pechino, visto che il Cairo ha bisogno di ingenti capitali sia per far fronte alla crisi innescata dal conflitto russo ucraino, sia per fronteggiare il debito denominato in dollari, per effetto della decisione della Federal Reserve di alzare i tassi. Malgrado l’improbabilità che il dollaro possa veder scemare la sua rilevanza, considerare lo yuan come una valuta alternativa al biglietto verde rappresenta un motivo di preoccupazione per gli USA. 

Ulteriore misura economica emergenziale ante accordo con il FMI, consiste nella previsione di vendite azionarie ad investitori strategici, in un rinnovato tentativo di rilancio dei piani di privatizzazione. I giacimenti di gas di Zohr e Nour, con gli impianti di Idku e Damietta, in questo contesto, dovrebbero incentivare la produzione nazionale, rafforzando il ruolo egiziano di hub energetico e di esportatore per il Mediterraneo orientale, unitamente ai ricavi connessi al Canale di Suez. Forte inflazione, crisi alimentare e svalutazione rimangono tuttavia le voci passive del bilancio egiziano, non supportato dal limitato intervento di investimenti privati, e condizionato dalla presenza di attività finanziarie gestite dall’agevolato establishment militare, che solo ora comincia ad essere oggetto degli stessi vincoli destinati al privato, specialmente per quanto concerne la segnalazione del debito ed i fondi extra bilancio. L’opposizione militare è significativa, e tutto lascia pensare che il governo sfrutterà ogni possibilità per ritardare l’attuazione delle disposizioni concordate con il FMI. Gli shock valutari sono frequenti, ed il debito viene trasferito alle classi medio basse con tagli alla spesa pubblica. 

Ultima sponda: la Tunisia. La presa di potere da parte del Presidente e le sue successive politiche hanno ampliato la spaccatura tra le fazioni pro e contro Saïed; i principali partner tunisini, USA e UE, fanno pressioni sul governo minacciando tagli agli aiuti bilaterali. I provvedimenti assunti concentrando nelle mani presidenziali l’autorità di governo porta a ritenere sempre più prossima una deriva autoritaria contro cui si stanno slanciando le opposizioni, poco attratte da una forma di democrazia di base antitetica al nazionalismo panarabo, contraria agli islamisti di Ennahda, ed all’estrema sinistra. 

Nel frattempo, la Tunisia è in crisi socio-economica, mancando margini e spazi per manovre macroeconomiche. Con un rating sovrano depotenziato, la Tunisia non ha accesso ai mercati finanziari globali e nemmeno può contrattare prestiti con il FMI. L’elevato astensionismo alle ultime consultazioni elettorali, dovuto alle sollecitazioni delle opposizioni, è stato comunque sostenuto anche dai fattori socio-economici e dalla congiuntura nazionale, aggravata dagli strascichi della pandemia, dall’insicurezza alimentare determinata dal conflitto ucraino, dalla crescita dell’inflazione (9,8%), dalla disoccupazione (oltre il 15% e con un dato giovanile intorno al 40%). Non a caso sono ripresi intensi flussi migratori orientati anche verso i Balcani. La politica estera presidenziale ha inoltre ripristinato un pragmatismo opposto alla neutralità positiva sulla questione sahrawi che aveva consentito buoni rapporti con Rabat; non a caso Saïed, in occasione del Ticad 8, ha ricevuto Brahim Ghali, Presidente dell’autoproclamata Repubblica Araba Democratica Sahrawi, riservandogli l’accoglienza propria di un Capo di Stato, un gesto finalizzato a tutelare gli interessi rappresentati da Algeri, indispensabile sia per l’approvvigionamento di gas, sia per il sostegno finanziario offerto per un debito pubblico, il tunisino, al 90% del PIL. Sotto quest’ottica appare più comprensibile, per quanto paradossale, l’aiuto in generi alimentari fornito dalla Libia. In questo contesto di instabilità, Saïed, nonostante la conferma di un ritorno ad un sistema presidenziale criticato dalla comunità internazionale, può trovare sostegno proprio da attori come Unione Europea e Stati Uniti che hanno forti interessi nella regione. Diventa cruciale, quindi, l’ottenimento del prestito di 4 miliardi di dollari che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha promesso a Tunisi solo però in cambio dell’attuazione di politiche di austerità e di sviluppo del sistema economico. Saïed potrebbe cercare il sostegno di Washington e Bruxelles come garanzia per ottenere questa cifra, in cambio di un mantenimento della stabilità nazionale e, di riflesso, di quella regionale.

Volendo procedere per astrazioni, può essere utile ricorrere alle concettualizzazioni proposte prima da Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante il mandato presidenziale di Jimmy Carter, e da Bernard Lewis, docente britannico presso la Princeton University. Mentre Lewis incoraggiò l’Amministrazione Carter a creare una serie destabilizzante di stati fondamentalisti lungo il confine meridionale sovietico, Brzezinski, dal 1978, affrontò il tema dell’Arco della Crisi, identificando una zona che, dal Nord Africa, attraversa il MO fino all’Asia Centrale e ai confini dell’India; un’area che potrebbe essere riempita da elementi ostili ai nostri valori e solidali con i nostri nemici

Le idee presero forma nel sostegno ai mujaheddin afghani con la collaborazione saudita-pakistana, secondo modalità che, tra Balcani, MO e Asia Centrale, avevano già determinato aspre contese nell’800. La sponda settentrionale africana costituisce dunque parte di un unico arco di instabilità, dove l’integralismo è latente, e dove il rapporto Maghreb – Mashreq è simbiotico ed inscindibile, e permette a qualsiasi brezza di alimentare le fiamme della rivoluzione: ieri dalla Tunisia oggi dall’Iran. Volendo procedere per immagini, da est verso ovest, la mezzaluna sciita va a scontrarsi con la falce sunnita africana. Politicamente, i punti di contatto sono comuni e molteplici, e si fondano su economie deboli, alla costante ricerca di fondi, con società affette da profondi malesseri. Le difficoltà non spengono gli afflati egemonici, ancorché regionali, e non deve stupire la spinta di Stati essi stessi latori di interessi perseguiti da potenze esogene che adottano l’arte asimmetrica dell’infiltrazione economica. Rinascono populismi (Tunisia) che si accompagnano a derive autoritarie (Algeria) e ad una decisa corsa per gli armamenti da acquisire mercé la cessione di ricchezze fossili proprie di puri rentier State. Come conciliare questa politica con la montante differenziazione dell’impiego ecologico e della capitalizzazione delle risorse è ancora tutto da vedere. Politicamente ci sono Stati che cercano di mantenere un più alto profilo istituzionale, come il Marocco, ed altri, come la Libia, che possono diventare un cuneo atto ad infrangere la debole stabilità mediterranea.

 L’ipotesi di una libicizzazione o, se si preferisce, di una balcanizzazione nord africana dovuta a frammentazione politica causata da spinte interne a livello economico e sociale, non può essere esclusa, fermo restando che risulta comunque necessario attendersi le immancabili e più forti risposte da parte dei regimi che, su risorse naturali e sulle FA (Egitto – Algeria), hanno già fondato o stanno fondando il loro potere. Cosa rimane della Primavera Araba del 2011? La brace, un fuoco ancora acceso pronto a divampare nuovamente, visto che le istanze che lo hanno innescato sono rimaste, con sensibili aggravamenti, le stesse: povertà, disoccupazione, forte caduta di interesse sociale per la politica accompagnata da astensionismi elettorali da record, quando si riescono a tenere regolari consultazioni, e da un marcato controllo del dissenso. La politica, in questo senso, non solo è polarizzata, ma ricade nelle più pericolose forme di personalizzazione.             

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