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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaMedio Oriente: è veramente scontro confessionale?

Medio Oriente: è veramente scontro confessionale?

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Dopo l’11 settembre 2001 l’islam è entrato prepotentemente nel dibattito pubblico internazionale, oggetto di ogni tipo d’indagine: si è familiarizzato con la dicotomia sunniti/sciiti e questa è stata spesso presentata come un più largo scontro all’interno della “umma” (la comunità islamica nel suo complesso).

I vari conflitti degli ultimi anni nel “Grande Medio Oriente” hanno fatto tornare in primo piano l’interpretazione secondo cui all’interno del mondo islamico si stia consumando una guerra dai connotati settari per la supremazia religiosa.

Lo scisma

La divisione tra sunniti e sciiti origina alla morte del profeta Maometto, all’alba dell’islam. Per gli sciiti (da “shi’at’ Ali”, partito o fazione di Ali), la guida della comunità spettava ad un appartenente alla famiglia del profeta: per tale ruolo era stato individuato il cugino di Muhammad, Ali, futuro quarto califfo ma primo riconosciuto dalla fazione sciita. Per i sunniti (da “sunna”, tradizione), la guida della umma non doveva necessariamente essere espressione del lignaggio di Maometto ma poteva venir scelta dagli stessi fedeli all’interno della prima comunità di seguaci del profeta.

Benché sunniti e sciiti vengano spesso accostati quasi fossero due confessioni che si equivalgono numericamente, la realtà è molto differente. Stando ai numeri del Pew Research Center (compresi i vari sottogruppi e le micro-sette interne alle due confessioni), i sunniti sono nettamente maggioranza e costituiscono circa l’85% dei musulmani. Gli sciiti circa il 10-15%.

Il confronto regionale: la Siria

Il confronto regionale, plastificato dal “faccia a faccia” tra Iran e Arabia Saudita, negli ultimi anni si è esplicato in varie forme e in diversi contesti ma è diventato cruda realtà nella Siria baatista: paese di fondamentale importanza perché unico a maggioranza sunnita all’interno della cosiddetta “mezzaluna sciita”, quell’area di influenza iraniana che va dal Golfo Persico al Mediterraneo passando per Iraq e appunto Siria.

Sull’onda lunga delle “primavere arabe”, il fronte sunnita ha cercato di cavalcare la protesta siriana, tramutatasi quindi in vera e propria guerra per procura. Conflitto diventato di esiziale importanza: per l’Iran si tratta di salvaguardare l’alleato alauita in un paese geograficamente strategico, mentre per il fronte sunnita, Arabia in testa, l’obiettivo era e resta quello di rompere questa mezzaluna o “corridoio” sciita, cercando quindi di arginare l’influenza persiana nella regione.

Per il raggiungimento dei rispettivi fini, l’Arabia Saudita ha fornito aiuti militari e finanziari a vari gruppi armati anti-Assad. Altrettanto ha fatto l’Iran, sia ricorrendo al tradizionale alleato libanese Hezbollah (minacciato a sua volta nel biennio 2014-15 da gruppi jihadisti lungo il confine siro-libanese), sia attraverso l’organizzazione di alcuni gruppi sciiti (come i Fatemiyoun afghani).

In Siria le rispettive affiliazioni settarie e identitarie hanno ulteriormente politicizzato le comunità locali: eppure non è l’affiliazione religiosa che muove la politica estera di medie potenze come Iran, Arabia Saudita o della sempre più ambigua Turchia. La “coalizione” sunnita non agisce per contrapposizione confessionale, ma perché teme il potere di influenza della Repubblica Islamica.

Le mosse di Teheran, che cerca di rafforzare il legame con attori come Hezbollah o gli huthi in Yemen, in grado di fornirgli profondità strategica, vengono interpretate dai paesi sunniti del golfo come operazioni di “proiezione di potenza”, cioè come la volontà iraniana di impegnarsi attivamente per puntellare i paesi o le realtà su cui esercita livelli relativi di egemonia: inevitabilmente questa “postura” spinge gli attori contendenti ad agire sotto il profilo militare, politico e diplomatico con il fine ultimo di proteggere i cittadini e soprattutto i confini, elemento cardine per la sopravvivenza di uno stato moderno per come questo si è imposto in seguito alla pace di Vestfalia. Potendo contare sulla tradizionale alleanza con Washington e con la comunanza d’intenti con Israele, Riyad ha finito per assumere un ruolo di “guida” dei paesi arabi anti-iraniani, dando plasticità ad una sorta di “guerra fredda mediorientale”.

Di fronte agli avvenimenti che hanno scosso la regione negli ultimi anni risulta difficile sostenere l’interpretazione che vede nello scontro confessionale il sostrato ideologico alla base dell’attuale competizione tra monarchie sunnite e Iran e sciiti in genere. Certamente l’ambito settario ha coinvolto le popolazioni locali, in particolare con la nascita di un’organizzazione terroristica come Daesh che ha provato a darsi anche fondamento territoriale.

Appare tuttavia forzato interpretare le scelte dei due “fronti” come dettate da dispute spirituali: la politica estera e i fini strategici e geopolitici di paesi come Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Turchia, Qatar, non si basano su questioni religiose (se non sul piano puramente propagandistico), quanto sulla necessità di preservare e se possibile ampliare la propria potenza nella regione; e forse, benché minato negli ultimi decenni da una lunga serie di conflitti e da instabilità politiche e sociali su vasta scala, il Medio Oriente continua ad essere un teatro di crisi in cui resiste un precario ma reale equilibrio di potenza; i vari attori in campo si controbilanciano e non disdegnano il ricorso diretto e indiretto alle armi anche agendo al di fuori del principio dello “ius ad bellum”. Ecco quindi che in assenza di una “guerra costitutiva” permangono guerre minori o quelle che vengono sempre più spesso definite “guerre per procura”.

Se gli orientamenti confessionali non dirigono direttamente le scelte di medie potenze regionali, è altresì vero che l’appartenenza religiosa rimane elemento cardine delle società e delle culture mediorientali: essa può causare le crisi all’interno delle quali le stesse potenze si inseriscono, come è accaduto con le sollevazioni di matrice principalmente sunnita delle cosiddette “primavere arabe”, che molte ripercussioni hanno avuto in paesi come Libia e Siria o sul versante opposto con la rivolta della minoranza sciita zaidita in Yemen.

 

 

 

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