Fin dal 1963, anno della prima missione medica internazionalista in Algeria, Cuba ha messo al centro della propria strategia geopolitica la medical diplomacy. L’invio di personale medico verso Paesi che ne richiedono l’intervento è infatti il prodotto di una strategia ampia attuata da Fidel Castro e rappresenta ancora oggi una delle chiavi di volta della politica estera cubana. Dal 1961 fino al 2008, 270.743 cubani hanno partecipato a missioni sanitarie in 154 Paesi che hanno sottoscritto accordi di collaborazione medica con Cuba in Africa, Asia, America Latina e Caraibi. L’ultimo anno caratterizzato dalla pandemia ha messo sotto i riflettori la diplomazia medica cubana poiché diversi Paesi ne hanno usufruito, costretti dall’incipiente avanzata della pandemia. Cuba per la prima volta ha inviato personale sanitario verso alcuni Paesi europei (Italia, Andorra e territori francesi di Oltremare) che prima della comparsa del Covid-19 mai avrebbero pensato di usufruirne.
I medici cubani avevano infatti avuto un ruolo di primo piano negli anni scorsi nel trattare l’epidemia di Ebola in Africa occidentale, maturando esperienza nella gestione delle malattie infettive. Questo breve elaborato si propone di dare una visuale d’insieme sulla medical diplomacy cubana, soffermandosi sulle cause e gli effetti geopolitici di questa, evidenziandone poi le criticità. In seguito, ci si concentrerà sui recenti sviluppi dovuti alla pandemia e su quali possono essere gli effetti sulla posizione strategica di Cuba nell’America Latina e nei Caraibi.
Medical Diplomacy come strumento geopolitico: internazionalismo, influenza e propaganda
Fin dai primi anni dopo la rivoluzione del 1959 il castrismo ha messo al centro dei piani di sviluppo dell’isola caraibica l’istruzione gratuita e ha posto una forte enfasi sulla ricerca, in particolare in campo medico, il che ha permesso di raggiungere traguardi importanti nell’ambito di indici come la mortalità infantile, l’aspettativa di vita, il numero di medici pro capite e l’accessibilità dell’istruzione. La scelta di provvedere alle deficienze nel campo dell’assistenza sanitaria di altri Paesi, oltre ad avere in superficie una ragione ideologica, in linea con la dottrina marxista-leninista con cui è governata l’isola, è anche giustificata dalla volontà di rafforzare la posizione geopolitica del Paese caraibico nell’area in due dimensioni principali: quella politica e quella economica. Da una parte, principalmente nei primi anni dopo la rivoluzione, Cuba ha usato le delegazioni di medici come strumento per ripagare l’appoggio ricevuto durante la rivoluzione da altri Paesi. Nel tempo poi lo strumento è divenuto più stabile ed ha acquisito la funzione di rafforzare i rapporti diplomatici con Paesi considerati affini, diventando un indiscutibile mezzo di soft diplomacy dalla indubbia efficacia. Quest’ultimo punto è confermato dalla forte cooperazione fra Venezuela e Cuba, che vede un forte dispiegamento di medici cubani nel Paese sudamericano con l’obiettivo di rafforzare la cooperazione interstatale sull’asse bolivariano nell’ambito dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA). Cuba si trova ad agire in un’area geografica che in parte le è politicamente ostile, in cui il Paese più importante, gli USA, fin dai primi anni dopo la rivoluzione, ha osteggiato il castrismo e il suo iperattivismo sul piano estero. In questo contesto Cuba utilizza la diplomazia medica come uno strumento di soft diplomacyper guadagnarsi simpatie presso i governi dei Paesi riceventi, il cosiddetto “capitale simbolico”, immateriale. A differenza di altri strumenti diplomatici, l’aiuto medico genera intrinsecamente e inevitabilmente un senso di gratitudine da parte dell’opinione pubblica del Paese ricevente, ed allo stesso tempo proietta all’estero un’immagine di Cuba come Paese virtuoso e all’avanguardia, alimentandone il mito, la narrativa, la propaganda. La diplomazia medica cubana ricopre anche un ruolo di primo piano per quanto riguarda la pianificazione economica. Il regime cubano deve fare i conti con un embargo economico da parte degli USA che dura, ufficialmente, dal 1962, anno del proclama 3447; la diplomazia medica è infatti un modo -specie dopo la fine della guerra fredda- per sopperire alla mancanza di prodotti industriali da esportazione ad alto valore aggiunto che caratterizza l’isola caraibica. Cuba, infatti, dopo il crollo del blocco socialista ha visto scemare gli accordi preferenziali per le esportazioni che aveva posto in essere con i Paesi dell’Europa dell’Est e l’URSS. Nonostante gli accordi per l’assistenza medica siano accordi bilaterali confidenziali fra Cuba ed i Paesi riceventi, sono trapelate informazioni riguardo alle somme pagate dai Paesi riceventi che vanno dai 2784$ per medico in Namibia fino ai 5000$ per medico in Angola. Questi pagamenti permettono quindi al governo di Cuba di incrementare le proprie riserve di valuta pregiata che altrimenti sarebbero poco consistenti a causa dell’embargo e della scarsità di beni da esportazione prodotti da Cuba. Discorso diverso invece va fatto per quanto riguarda il Venezuela. Come si specificava in precedenza, fin dal 1999, anno dell’elezione di Hugo Chavez a presidente del Venezuela, la collaborazione fra i due Paesi Latinoamericani è stata molto stretta, anche in campo sanitario; Nel 2008 circa 13.000 medici e 16.000 collaboratori sanitari cubani operavano In Venezuela, a testimonianza dell’imponenza del programma. Duplice la ragione che giustificava questo dispiegamento di forze. Dal punto di vista politico e strategico, i due Paesi mettevano in evidenza l’intenzione di rafforzare l’asse bolivariano nel continente; al punto di vista economico Cuba, otteneva di essere pagata con il petrolio venezuelano a cambio dei servizi svolti dal suo personale sanitario ed il Venezuela, dal canto suo, cercava di potenziare il livello di prestazioni mediche basilari per più ampie porzioni di popolazione, non sempre garantite nel loro diritto alla salute per via di un sistema sanitario talvolta deficitario.
Critiche alla medical diplomacy: la situazione dal punto di vista dei diritti umani
Molte sono le critiche ricevute da Cuba per quanto riguarda l’uso massiccio della diplomazia medica e si articolano su due filoni principali. Da una parte, il regime castrista è stato duramente attaccato in sede internazionale per le condizioni a cui sono sottoposti i medici ed il personale sanitario all’estero. Dall’altra è stato criticato sul fronte politico, poiché l’invio delle brigate mediche nasconderebbe, di fatto, un business umanitario con una profonda connotazione politica; l’Avana avrebbe infatti cercato di trarre vantaggi sia economici che politici diretti, arrivando perfino ad utilizzare le brigate mediche come strumenti di pressione elettorale in Venezuela a favore di Maduro in occasione di consultazioni elettorali, come riportato, tra gli altri, dal New York Times. Queste accuse confermerebbero –senza che ciò sembri sorprendente- anche la natura di strumento diplomatico e di influenza dell’impiego all’estero dei medici cubani: evidentemente, qualsiasi strategia di proiezione verso l’esterno è intrinsecamente volta a guadagnare una certa posizione e massimizzare il proprio posizionamento in un Paese o un’area geopolitica, e la medical diplomacy non costituisce un’eccezione. Per gravi che risultino, le accuse di uso delle brigate mediche come strumento per influenzare la politica interna dei Paesi riceventi (nello specifico, durante elezioni in Venezuela) non devono in verità rappresentare motivo di sorpresa, in un’area del mondo, quale quella latinoamericana, in cui non mancano certo i precedenti di tentativi da parte di attori statuali esteri di influenzare l’andamento della politica interna di altri Stati.
Molto più complessa, e per certi versi delicata, è la l’accusa che viene mossa a Cuba per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani nell’ambito delle missioni mediche all’estero. L’argomento meriterebbe grande attenzione, ed una trattazione approfondita. In questa sede ci si limiterà a sottolineare come l’argomento dei diritti umani sia stato sollevato a livello internazionale sia nell’ambito delle Nazioni Unite sia dell’OAS. Le principali accuse che vengono rivolte a Cuba sono quelle riguardanti le condizioni di lavoro e le “regole d’ingaggio” cui sono sottoposti i medici ed il personale sanitario nelle missioni all’estero. Il Relatore speciale sulle forme contemporanee di schiavitù dell’ONU ha infatti espresso preoccupazione soprattutto per quanto concerne l’orario di lavoro estremamente prolungato a cui sono sottoposti i medici e le pressioni che vengono fatte a tutto il personale sanitario. “Queste condizioni si potrebbero configurare come lavoro forzoso e quindi come una moderna forma di schiavitù”. Ancora più dure sono le accuse portate in sede OAS da Carlos Trujillo, Ambasciatore permanente degli USA presso l’OAS, che in un discorso del dicembre 2019 affermava che la diplomazia medica cubana sarebbe configurabile come traffico di persone. Le missioni mediche cubane hanno inoltre ricevuto pesanti accuse a causa della retribuzione bassa dei medici cubani all’estero, delle forme di forte coercizione a cui sono sottoposti, delle sanzioni penali in cui incorrono se abbandonano la missione, del divieto a chiedere asilo politico e del fatto che gli viene fornito un passaporto che gli permette di entrare solo nel Paese di destinazione. Non è proposito di questo elaborato entrare nel merito di ognuna di queste criticità. Vale la pena sottolineare, per quanto riguarda il salario dei medici cubani all’estero, che il problema non risiede tanto nella somma in quanto tale (consistentemente più alta di quella percepita dai medici che lavorano a Cuba), quanto nel fatto che i componenti delle brigate mediche (che secondo parte della letteratura godono di diversi privilegi negati ai loro colleghi nella Isla) non percepiscono in realtà se non una minima parte di quanto il Paese ricevente versa nelle casse dell’Avana. Cosa che, per l’appunto, secondo i critici configurerebbe una forma indiretta di sfruttamento del lavoro che rasenta gli estremi della schiavitù. Circa il passaporto speciale che viene emesso per le brigate mediche va sottolineato come l’intero tema passaporti sia generalmente problematico a Cuba; ciò che preoccupa di più le organizzazioni di difesa dei diritti umani è il particolare regime di fatto di questi passaporti speciali, che -secondo le denunce fatte da alcuni medici stessi- vengono ritirati all’arrivo nel Paese di destinazione. Cosa che limiterebbe pesantemente la possibilità di chiedere l’asilo politico, oltre a comprimere fortemente la libertà di movimento del personale medico nel Paese. Aldilà delle accuse più o meno circostanziate da parte delle ONG e di alcuni stessi medici, e aldilà della considerazione sulla naturale sovrapposizione tra medical diplomacy cubana come strumento di influenza geopolitica, ideologia castrista e propaganda, non si può non riconoscere che, in alcune aree di destinazione contraddistinte da drammatica insufficienza dei sistemi sanitari (si pensi ai molti Paesi del terzo mondo che dal 1963 in poi hanno ricevuto le brigate mediche cubane) il personale sanitario proveniente dalla Isla ha oggettivamente svolto attività tutt’altro che trascurabili a supporto del diritto umano alla salute di fasce di popolazione fuori dal raggio di protezione di sistemi sanitaria fortemente deficitari, nella migliore delle ipotesi. Realtà, questa, innegabile, nonostante rappresenti una contraddizione a fronte delle molteplici denunce internazionali per le condizioni di vita e lavoro dei medici cubani all’estero.