Le recenti tornate elettorali in America Latina hanno premiato esponenti progressisti, tanto da far parlare di una nuova “marea rosa”. I leader di oggi si inseriscono però in un contesto, regionale e globale, molto differente rispetto a quello dei primi anni Duemila, e le ragioni delle loro affermazioni potrebbero non essere esclusivamente legate a un riposizionamento politico dell’area. Tra le molte sfide a cui sono chiamati i nuovi presidenti, c’è anche quella sul futuro dell’integrazione regionale.
Vecchia e nuova “marea rosa”
L’elezione di Gustavo Petro a presidente della Colombia ha messo in evidenza una tendenza inequivocabile: la sinistra è tornata al potere nei principali paesi latinoamericani, eccezion fatta per il Brasile dove, però, il favorito per le elezioni del prossimo ottobre è l’ex presidente Lula da Silva.
Molti osservatori hanno parlato di una nuova “marea rosa”, richiamando la situazione di inizio anni Duemila, quando la maggior parte dei paesi della regione si trovava con governi di sinistra al potere. Dal 2018, infatti, con l’elezione in Messico di Andrés Manuel López Obrador, si sono registrati una serie di successi per la sinistra nei principali paesi latinoamericani: dalla Bolivia, passando per l’Argentina, fino ad arrivare ai più recenti Perù, Cile e Colombia.
L’elemento comune a tutte le più recenti elezioni latinoamericane è stato il malcontento sociale ed economico, accentuato dalla pandemia COVID-19, che ha messo a dura prova le fragili economie della regione. Il dato rilevante in tal senso è quello delle proteste: in tre degli Stati più popolati – Cile, Colombia e Perù – le elezioni sono state precedute da forti malcontenti popolari abilmente sfruttati durante la campagna elettorale. Il caso cileno è sicuramente quello più emblematico: il paese, infatti, ha vissuto un crescendo di tensioni a partire dall’ottobre del 2019, quando centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in segno di protesta contro la gestione del governo Piñera.
Il dissenso manifestato nella regione, seppur con importanti differenze nazionali, è frutto di una situazione di stagnazione economica. Il PIL dell’America Latina, stando ai dati riportati dal Fondo Monetario Internazionale, crescerà nel 2022 di appena il 2,4%, un dato in netto calo rispetto all’anno precedente e destinato ad abbassarsi ulteriormente una volta finito l’effetto ripresa post-pandemia. Come segnala la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL), il tasso di povertà estrema è passato dal 10,7% del 2019 al 13,8 del 2021, cioè un aumento di circa 15 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta.
L’altro elemento comune riguarda la crisi della politica tradizionale. Tutti i nuovi presidenti sono stati premiati perché ritenuti “estranei” alla vita politica tradizionale dei rispettivi paesi. Questo è un fattore estremamente rilevante poiché evidenzia una tendenza che sta coinvolgendo tutto l’Occidente e che riguarda la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche. A questo proposito, sono molto significativi i dati pubblicati da Latinobarómetro: il livello di fiducia nella democrazia in America Latina non raggiunge il 50% della popolazione e nel periodo di tempo che va dal 2010 al 2018 si è abbassato dal 63% al 48%, stabilizzandosi nel periodo della pandemia al 49%. Inoltre, più di un terzo della popolazione non esprime alcuna preferenza di regime, dato che suggerisce una forte disaffezione nei confronti della politica e delle istituzioni democratiche intese come sistema di governo in grado di far fronte ai problemi sociali e/o economici. Infine, circa la metà dei latinoamericani appoggerebbe un regime non democratico come soluzione alla propria condizione economica.
Tuttavia, i protagonisti di questa seconda “marea rosa” sono estremamente eterogenei, così come sono numerose – e rilevanti – le differenze che emergono tra i primi anni Duemila e la situazione attuale. Prima di tutto, è possibile individuare tre tipi diversi di sinistra presenti nel contesto politico dell’America Latina: quella autoritaria che governa Cuba, Venezuela e Nicaragua; quella populista presente in Messico, Argentina e soprattutto Perù; infine, la sinistra riformista di Gabriel Boric in Cile. Per quel che riguarda Gustavo Petro, la sua storia personale (è stato un guerrigliero del M-19) e i proclami fatti in campagna elettorale, lo avvicinano alla seconda tipologia, mentre alcune delle sue prime scelte lo accostano maggiormente al riformismo di Gabriel Boric. A riprova di queste differenze, non sono mancate le accuse reciproche tra i mandatari latinoamericani, come nel caso di Gabriel Boric che si è espresso contro la repressione degli oppositori a Cuba e Nicaragua e quello del presidente venezuelano Maduro, che ha etichettato come cobarde una parte della sinistra regionale. Ma anche lo stesso Petro, in passato, ha accusato il suo omologo venezuelano di essere un dittatore.
Inoltre, il periodo storico in cui questa seconda marea rosa ha preso forma è nettamente diverso. La prima ondata, infatti, nacque in un contesto internazionale di forte espansione delle cosiddette commodities (materie prime), il che diede un grande impulso ai programmi sociali dei presidenti dell’epoca. L’esempio principale è rappresentato dal Venezuela di Hugo Chavez il quale, grazie agli ingenti proventi dell’esportazione di petrolio, riuscì a mettere in atto una serie di importanti riforme sociali (rivelatesi poi insostenibili per l’economia locale) come istruzione e sanità gratuiti.
Ad oggi, però, il contesto internazionale, complice anche la pandemia e la guerra in Ucraina, risulta essere estremamente più volatile e instabile. Inoltre, la crescente inflazione e l’aumento dei costi dei fattori produttivi rendono più complicato per i paesi della regione trarre vantaggio dall’aumento del prezzo delle materie prime. Questi stessi elementi sollevano poi molti dubbi sul futuro dell’integrazione regionale. Il mutato quadro internazionale difficilmente permetterà la riproduzione dei pomposi progetti di inizio anni Duemila, obbligando a un ripensamento degli strumenti e delle architetture comuni.
Riposizionamento o semplice alternanza?
Un altro aspetto deve essere preso in considerazione nell’analisi dei recenti risultati elettorali. C’è da chiedersi infatti, se i successi dei presidenti progressisti siano effettivamente frutto di un riposizionamento a sinistra della regione. Se stringiamo lo sguardo sul Sud America, osserviamo una chiara tendenza: escludendo il Venezuela, il caso particolare della Bolivia e il Paraguay, gli altri paesi hanno deciso nelle recenti tornate elettorali di non riconfermare i presidenti uscenti o, in caso di nuove candidature, di non votare per i candidati espressione della loro area di appartenenza. In Perù – nonostante i vari avvicendamenti alla presidenza nell’ultimo quinquennio – si è affermato il socialista Castillo dopo la vittoria nel 2016 del conservatore Kuczynski. Lo stesso è avvenuto negli ultimi tre anni in Argentina – Fernández al posto di Macri – in Cile – con Boric che ha sostituito il presidente di destra Piñera – e in Colombia, con la prima storica vittoria della sinistra.
In attesa di comprendere se a questa lista si aggiungerà anche il possibile avvicendamento tra Bolsonaro e Lula, occorre segnalare che la stessa tendenza – ma in direzione opposta – si è concretizzata nei due paesi precedentemente governati da un presidente progressista: l’Uruguay e l’Ecuador. In Uruguay, l’affermazione del conservatore Lacalle Pou nel 2019 è arrivata dopo quindici anni in cui il paese è stato guidato dal Frente Amplio di Tabaré Vázquez e José Mujica; mentre in Ecuador nel 2021 è giunto a Palacio de Carondelet il liberal conservatore Guillermo Lasso, succedendo a dieci anni di correismo e alla parentesi di Lenín Moreno che – al netto di un cambio di atteggiamento durante il proprio governo – fu il candidato presidente del movimento di centrosinistra Alianza PAIS nel 2017.
Dunque, lo spostamento a sinistra della regione potrebbe essere effettivamente dovuto a una nuova consapevolezza dei cittadini, a una maggiore attenzione ai diritti economici, sociali e culturali, alla volontà di ridistribuire la ricchezza, alla sempre maggiore rilevanza che ricoprono le questioni ambientali o, addirittura, a valutazioni ideologiche, ma è altresì possibile che queste ragioni non siano sufficienti a spiegare la tendenza in atto. La sconfitta dei presidenti uscenti negli ultimi tre anni potrebbe essere l’effetto di un malcontento più ampio, di una necessità di cambiamento che i paesi della regione richiedono da tempo e che prescinde dall’appartenenza politica. La pandemia è stata un acceleratore di questo processo, con i presidenti in carica che sono stati considerati i principali responsabili delle pesantissime conseguenze economiche a cui la regione ha dovuto (e deve ancora) far fronte. In questo caso, il desiderio di una cesura con il passato deve essere tenuto in considerazione almeno quanto qualsiasi valutazione politico-ideologica.
L’impatto sull’integrazione regionale
Per completare la panoramica sul nuovo contesto politico e geopolitico che si sta delineando in America Latina, è necessario anche un focus sul ruolo che hanno avuto e sul possibile futuro dei progetti di integrazione regionale. Dall’inizio del XXI secolo la regione ha visto l’alternarsi di forze politiche, ora progressiste ora conservatrici, che hanno periodicamente tentato di ristrutturare il sistema delle alleanze regionali. Nel primo decennio del Duemila, i presidenti eletti durante la prima “marea rosa” cercarono di imprimere un forte impronta politica e ideologica al processo di integrazione regionale.
Fu così che nel 2008 prese vita l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR). A differenza di altre esperienze – precedenti e successive – l’aspetto commerciale non rappresentava il fulcro del progetto. I fondatori preferirono assegnare maggiore importanza al dialogo politico, consistente nella volontà di porsi come foro indipendente e autonomo rispetto agli Stati Uniti, in aperta contrapposizione all’Organizzazione degli Stati Americani (OEA). Grande enfasi venne riservata anche ai progetti infrastrutturali in campo energetico, che avrebbero consentito di collegare i grandi produttori di petrolio e gas con i paesi dipendenti dalle forniture estere. Anche l’integrazione finanziaria è stata, soprattutto nei primi anni, al centro degli obiettivi dell’UNASUR, attraverso l’ambizioso – e mai realizzato – progetto del Banco del Sur.
Le aspirazioni dell’UNASUR vennero però frustrate dal nuovo ciclo politico, la cosiddetta ola conservadora del secondo decennio degli anni Duemila. Le affermazioni, tra le altre, di Piñera in Cile, di Macri in Argentina, di Kuczynski in Perù – poi sostituito da Vizcarra – e successivamente di Duque in Colombia e Bolsonaro in Brasile, portarono a un nuovo approccio nei confronti dell’integrazione regionale. I presidenti di estrazione conservatrice decisero progressivamente di abbandonare l’UNASUR e dettero vita a una nuova piattaforma: il Foro per il Progresso dell’America del Sud (PROSUR).
Il PROSUR si poneva l’obiettivo di creare uno spazio di dialogo regionale dove affrontare, con un approccio differente, alcune delle tematiche a suo tempo sollevate dall’UNASUR, tra le quali energia, salute, difesa, sicurezza e lotta alla criminalità. Il PROSUR si presentava come un organismo più vicino alle istanze statunitensi e a quelle dell’OEA. In particolare, nel contesto del PROSUR sono state finanziate opere infrastrutturali – pari a 6,3 miliardi durante il turno di presidenza colombiano – ed elaborati diversi piani d’azione comuni che potrebbero, però, non vedere mai la luce, visti i recenti risultati elettorali.
L’alternarsi di ondate progressiste e conservatrici ha influenzato fortemente l’approccio all’integrazione regionale, ma in questo nuovo ciclo ci sono altri aspetti da considerare. Uno sguardo al dato economico può aiutare a comprendere perché l’approfondimento di iniziative e fori di dialogo regionali non sia all’ordine del giorno. Dopo il picco del 2008 (18,2% sul totale del commercio della regione), la quota del commercio intraregionale si è bruscamente ridotta (12,1% nel 2021). Nel contesto attuale la dipendenza dagli scambi interni è sempre meno rilevante, appannaggio di attori esterni come Stati Uniti, Unione Europea e soprattutto Cina. Tuttavia, la ridotta interdipendenza economica non annulla le sfide comuni che i paesi latinoamericani sono chiamati ad affrontare, dalla necessità di ottenere finanziamenti per la costruzione di nuove infrastrutture alla collaborazione in campo sanitario, solo per fare due esempi.
In un’epoca di crisi delle principali esperienze di integrazione regionale e in cui persistono forti elementi di discordia, anche all’interno di contesti più solidi e istituzionalmente strutturati come il MERCOSUR (l’ultimo sorto a seguito della volontà uruguaiana di negoziare unilateralmente un accordo commerciale con la Cina), i vecchi schemi non sono più sufficienti. Il passaggio a sinistra di molti dei governi della regione ha nuovamente sollevato in certi ambienti la discussione sulla possibilità di rilanciare l’UNASUR, e in questo senso l’eventuale elezione di Lula alla presidenza brasiliana potrebbe giocare un ruolo fondamentale.
Tuttavia, la sfida per il nuovo corso è chiara: i presidenti dovranno essere in grado di promuovere iniziative che trascendano mere e temporanee affinità ideologiche tra i governi, destinate a interrompersi con l’avvicendarsi della leadership. Sarebbe quindi importante configurare i fori regionali assegnando loro un’architettura istituzionale e un certo margine di manovra sovranazionale. Il processo non è sicuramente semplice, ma per evitare che gli spazi di integrazione regionale finiscano – ancora una volta – per essere considerati come mere passerelle di presidenti ideologicamente affini, un salto di qualità è ormai necessario.