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Il Mare nelle relazioni internazionali attraverso i secoli. Parte seconda

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Il blocco di sei giorni del Canale di Suez, nello scorso marzo, provocato dall’incagliamento improvviso di una gigantesca portacontainer ha reso evidenti le fragilità del commercio marittimo globale e ha messo in luce la necessità di costruire una gerarchia di potenza tra i protagonisti della Global Society sulla base delle loro capacità effettive di controllo e gestione di stretti, canali navigabili e zone marittime cruciali, dalla cui efficienza di funzionamento dipende l’andamento dell’economia mondiale. Gli strumenti e i sistemi di rappresentazione che nel tempo sono stati usati per controllare o governare un elemento fondamentale delle relazioni geopolitiche quale è il mare, nonostante la sua connaturale inafferrabilità, sono oggetto di questo studio. Uno studio che si muove tra la storia del diritto internazionale, la storia delle relazioni internazionali e della scienza geopolitica.

Prima parte

Da “res nullius” a “res communes”: cos’è il mare?

L’infinità del mare richiede che venga compresa, concettualizzata e normata in maniera omogenea e uniformemente riconosciuta dai protagonisti della Global Society, perché si garantisca il suo controllo e la sua gestione nei rapporti tra gli stessi. Ma cos’è allora il mare? Il mare oltre a costituire un elemento essenziale delle relazioni geopolitiche, è un’entità naturale, fisica e giuridica. Dare una veste giuridica ad un elemento naturale vuol dire attribuirgli una disciplina, porre le regole di accesso e utilizzo dello stesso. Una necessità che sorge contestualmente alle grandi scoperte geografiche perché ildominium del mare e l’esclusività delle sue rotte rappresentano il presupposto per il possesso del Nuovo Mondo: chi riesce a controllare gli Oceani può dominare i territori prospicienti la sponda.

Prime concettualizzazioni

La concettualizzazione del ‘mare’ e dei rapporti che in esso vi insistono permette che scienze geografiche, giuridiche e politiche si intreccino, e la battaglia tra potenze coloniali si traduca in una battaglia testuale sui metodi e sulle rappresentazioni del dominio di queste immense aree marittime. E, almeno per un primo tempo, la veste giuridica viene ricercata tra gli istituti ereditati dal diritto romano e ci si muove nella costante ricerca di un equilibrio tra proprietà privata e sovranità/giurisdizione pubblica. Il diritto romano, precisano glossatori e commentatori, paradossalmente non presenta una normativa specifica delle questioni marittime; perciò, non resta che adattare nozioni generali, quali: res nullius (cose che non appartengono a nessuno), res publicae (cose appartenenti allo Stato), e res communes (cose appartenenti a tutti). L’inclusione del mare nell’una o nell’altra categoria diviene dirimente per la questione del dominium. Si escludono le ultime due categorie perché trattandosi di cose già appartenenti a qualcuno, non sono suscettibili di appropriazione. Diversamente, la qualificazione del mare come res nullius consente di vedere nella navigazione o nel suo attraversamento una sorta di ‘inventio’ (ritrovamento) e, dunque, il presupposto per l’impossessamento, secondo il principio che ciò che non è di nessuno, sarà del primo che se ne impossessa. E qual modo migliore per renderlo visibile e riconoscibile, se non “afferrando realmente e corporalmente le acque”! Questa la soluzione adottata dalle Corone Cattoliche di Spagna e Portogallo, nei secoli XV e XVI , al pari di quanto si è posto in essere per l’impossessamento delle terre appena rinvenute. 

Mare e ius gentium

Ma il tentativo di assorbimento dello spazio tanto liquido quanto terraneo, dell’Oceano e delle isole scoperte o da scoprire, all’interno di un’unica formalità, di medesime modalità di apprensione materiale e di identiche simbologie discorsive appare insufficiente. Soprattutto da quando, come già rilevato, l’ingresso della Corona Inglese tra le potenze talassocratiche rimette in discussione il quadro valoriale giuridico romano-cattolico. E si introduce la questione della colonizzazione marittima: alla spada del diritto e alla tradizione dogmatica romano-canonica si affianca il compasso perché troppi aspetti sfuggono al giurista. Per il diritto, si sottolinea, il mare esiste come territorio, definito spazialmente e munito di confini, soltanto entro cento miglia dalla costa, in modo da potersi definire vicino e sottoponibile alle proiezioni giurisdizionali di colui che ha il controllo del territorio costiero. In altre parole, si recupera semplicemente, ancora una volta, la tradizione romano-canonica che aveva fissato in duae dietae (pari a 40 miglia) la categoria spazio temporale di vicinanza terrestre ove è possibile estendere per analogia la forza disciplinante della giurisdizione e della potestas pubblica. Ma oltre le cento miglia il mare scompare dell’orizzonte del giurista. E se scompare, allora è inafferrabile e sfuggente ad ogni forma di concettualizzazione. 

Oltre il diritto

Ecco quindi che intervengono i geografi individuando prima le rayas e poi le amity lines. Linee, appunto, di demarcazione degli spazi marittimi entro cui può irradiarsi la potestas sovrana. Oltre vi è la “libertà”. “L’aria e il mare si sottraggono per natura a qualsiasi forma di occupazione”, precisa a riguardo U. Grozio. Ancora “il mare, per le sue proprietà elementari, non può essere occupato come la terra, troppo immenso perché sia posseduto da qualcuno. E anche perché la natura non solo permette ma ordina che esso sia comune e non sottoposto ad alcun regime di sovranità (salvo l’eccezione dei mari costieri). Il mare, dunque, non è una res nullius, bensì una res communes omnium, ovvero proprietà comune di tutti. Nasce così la nozione di “mare libero”: libero dal diritto e dall’efficacia dei trattati internazionali, quale vero e proprio permanente teatro di guerra in cui sfogare liberamente le pulsioni belliche e coloniali dell’Occidente. Lo comprovano il già citato Accordo di Cateau-Cabresis, e i successivi Trattati di pace franco-spagnolo di Vervins del 1598 e quello anglo-spagnolo del 1604.

Libertà, prede, pirati e ius bellum

In quanto il “mare resta nello stato di natura”, puntualizza ancora Grozio, “in mare vige il diritto di ciascuno a punire i trasgressori della legge naturale, legittima la guerra privata e l’esercizio del diritto di preda”. E in alto mare i nemici dell’umanità per eccellenza sono i ‘pirati’, nei cui confronti la guerra è una guerra comune a tutti i popoli, aggiunge A. Gentili. La libertà dei mari consente che essa sia sempre giusta e legittima, senza alcuna formalizzazione, senza che necessiti della presenza di soggetti pubblici. Essa può essere attuata e dichiarata anche da soggetti privati. Tutto ciò in netta contrapposizione a quanto avviene sulla Terra Ferma. Così come viene ritenuta giusta anche se attivata contro chi nega la libertà di commercio

Libertà di commercio, diritto di difesa privata e nuovo DI

Celebre è il caso della nave portoghese Santa Catarina catturata da una flotta della Compagnia unificata delle Indie Orientali olandesi nei pressi di Singapore nel febbraio 1603 che vede protagonista anche Grozio, chiamato a perorarne la causa davanti all’Ammiragliato di Amsterdam. Un caso non giustificabile come diritto di preda, quale potestà riconosciuta allo Stato belligerante di impadronirsi di beni appartenenti a uno Stato nemico, in quanto non sussiste alcuna contesa bellica tra le parti e il responsabile del sequestro è un soggetto privato. Per questo costituisce l’occasione per una nuova e ulteriore riflessione sulla definizione normativa del mare. Le relazioni inter-gentes, tra Vecchio e Nuovo Mondo, tra Europa ed aree coloniali, tra entità statali e privati in mare, si pongono nuovamente nella sequela del ‘diritto naturale’, ma abbandonando gli ultimi strascichi della teologia medievale, del positivismo luterano o di ogni dottrina confessionale. Lo dimostra il contenuto del De Iure Praedae Commentarius che dalla vicenda prende le mosse e permette a Grozio di attuare un primo tentativo fondativo di un sistema giuridico completo e nuovo, quale poi diverrà il diritto internazionale (DI). Ora, è un diritto in corso di laicizzazione, derivante dalla volontà di tutti i popoli o almeno da una parte di essi, creato dalle genti attraverso l’uso continuo e la testimonianza di esperti o attraverso la stipulazione di trattati espressi o taciti. Cui si affiancano norme o principi ricavati deduttivamente con la ragione e accompagnati da un consenso generale e continuo. Un diritto che prevede la totale libertà di commercio e di spostamento di tutte le genti tra le zone del planisfero, che esclude forme di privilegio o di sfruttamento esclusivo delle rotte commerciali, che annovera un diritto di difesa di sé o dei propri beni tanto dei soggetti pubblici quanto del soggetto privato; quest’ultimo infatti in quanto creatura razionale può di per sé individuare e conoscere le norme che reggono le reciproche relazioni globali.

Dal caso dell’Alabama agli istituti di diritto internazionale

Contestualmente al riconoscimento dell’esistenza di entità statali autonome e sovrane, tra il ‘600 e il ‘700, si sviluppa un’ intensa rete di relazioni politico-diplomatici tra essi, entro un sistema egualitario e plurale, consolidatosi sulla base del checks and balance. E che vede una decadenza dell’antica potenza Spagnola, a favore del potere talassocratico di Francia e Inghilterra. La ‘strategia marittima’ costituisce lo strumento principale con cui Londra e Parigi si confrontano. Quanto alla normazione dell’entità marina, non si individuano radicali cambiamenti rispetto al pensiero di Grozio. E anche il diritto inter-gentes, per quanto incomincia ad essere definito “internazional law”, a partire dagli studi di J. Bentham, non è altro che una componente del diritto pubblico interno. Solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo che si assiste al processo di specializzazione e professionalizzazione del DI e allo svilupparsi di un’attenzione diversa nei confronti del mare. Tranne alcuni sparuti teorici, come J. Austin, che negano al DI una valenza di norma giuridica. Molta parte della dottrina vede possibile anche una positivizzazione della branca giuridica internazionalistica. E vi rinviene i presupposti nella necessità di garantire certezza ai rapporti tra la Vecchia Europa e nuove entità, destinate a diventare soggetti della comunità internazionale, come l’Impero Ottomano e la Cina. È in questo momento che si chiude il primo lodo arbitrale internazionale, costituito per risoluzione del caso dell’Alabama, di una vicenda che ha contrapposto Londra a Washington. La risoluzione pacifica della diatriba ha permesso che si sviluppi un consenso generale dell’opinione pubblica a favore di forme arbitrali a livello mondiale e, dunque, una consapevolezza maggiore dell’esistenza di norme altre e diverse rispetto a quelle nazionali. Norme non superiori ma capaci di integrare e orientare verso un comune fine gli egoismi nazionali. Così poi le si definirà presso l’Istituto di diritto Internazionale di Gand (dell’ italiano P. S. Mancini e del belga G. Rolin-Jaequemyns) e presso l’Association for the Reform and Codification of International Law di Bruxelles. Due Istituti che nascono quasi in contemporanea, i cui confronti e dibattiti condurranno alla formazione della cultura umanitaria, della tutela dei civili in guerra, dei diritti dell’uomo, oltreché ai primi tentativi di codificazione del ‘diritto del mare’.

Maria Rosaria Intermite

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