Le parole di ieri di Sergey Lavrov rilanciano un tema che diversi osservatori hanno messo in luce nelle settimane precedenti: la guerra della Russia in Ucraina sarebbe il banco di prova della preservazione del “momento unipolare” statunitense, o meglio il tentativo, da parte della Federazione russa, di mettere in discussione il sistema unipolare incentrato sugli Usa. Il ministro degli esteri russo ha infatti sottolineato come la finalizzazione dell’operazione militare in Ucraina “costringerà l’Occidente a smettere di spingere per un cosiddetto ordine mondiale unipolare dominato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati”.
Si tratta di una dichiarazione che si affianca a quella di Putin tenuta in occasione della parata del 9 maggio: il presidente russo in quell’occasione non ha mai fatto esplicito riferimento né all’Ucraina come entità sovrana né al suo presidente Zelensky, rimarcando così – nella prospettiva del Cremlino – la subalternità ucraina agli Stati Uniti, che sono stati il vero destinatario del messaggio di Mosca.
È certo che si tratta di una fase nuova della narrazione dell‘operazione speciale in Ucraina: in un primo momento, infatti, essa è stata portata avanti anzitutto per “difendere i concittadini russi” presenti in Donbass e per tutelarli dalle aggressioni delle milizie ucraine nel sud est del paese, secondo il Cremlino: così si era espresso Putin all’avvio dell’avanzata verso il territorio ucraino, rimarcando i rapporti tra i due paesi e la contiguità identitaria e linguistica con parte della popolazione del Donbass. Nella prima parte del conflitto, infatti, le dichiarazioni del presidente russo ribadivano la necessità di “denazificare” il paese: rivolgeva dunque la propria attenzione nei confronti del presidente ucraino e delle componenti radicali interne all’apparato militare, nella probabile – sebbene mai esplicitata apertamente – ipotesi tattica di destituire l’attuale governo. Si trattava, dunque, di obiettivi politici chiari ed esplicitati, che si ponevano accanto a quelli strategici di occupare il Donbass, vedere riconosciuta la Crimea e occupare la porzione di territorio che si affaccia sul Mar d’Azov (di qui la rilevanza di Mariupol) e arrivare presumibilmente fino a Odessa o, addirittura, fino alle terre della Transnistria.
Ad oggi, complice anche l’andamento dell’operazione bellica, la narrazione russa sul conflitto sembra essere mutata: non più come obiettivo prioritario la denazificazione del paese e la difesa dei cittadini russofoni, ma il riequilibrio delle potenze mondiali a favore di un multipolarismo che sembra ricalcare la logica geopolitica dell’eurasiatismo che trova nelle tesi sulle panregioni di Karl Haushofer un riferimento immediato. È interessante notare questa trasformazione della prospettiva russa, non più rivolta prioritariamente contro le componenti radicali ucraine, soprattutto alla luce di due circostanze di medio e breve periodo che non possono essere dimenticate.
Da una parte, infatti, la Russia ha intrapreso l’operazione in Ucraina in un frangente storico particolare: la concentrazione enorme – mediatica e di risorse – degli Stati Uniti e dei paesi occidentali accanto ad essi, nei confronti della pandemia e, parallelamente, la fuoriuscita dal contesto afgano dell’agosto scorso, hanno certamente rappresentato un elemento di palesata debolezza da parte della superpotenza americana. Con ogni probabilità tale condizione contingente ha contribuito a ritenere da parte russa che fosse il momento ideale per attaccare l’Ucraina, convinti che la risposta americana sarebbe stata soltanto indiretta – come d’altronde i vertici di Washington hanno a più riprese ribadito in queste settimane.
Dall’altra parte, la condizione del sistema internazionale è da tempo in una profonda condizione di crisi e incertezza endemica, richiedendo la messa in campo di enormi risorse per far fronte al cosiddetto “momento unipolare” e alla configurazione della globalizzazione: dalla guerra globale al terrore, dall’impegno bellico in Afghanistan e poi in Iraq fino alla crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007-8, dalla Primavera araba con l’esplicito appoggio degli Usa ai movimenti ribelli per arrivare alla conseguente crisi migratoria nel Mediterraneo e alla rinascita del Califfato fino, infine, dalla crisi pandemica, il ruolo di “garante” dell’ordine globale degli Stati Uniti è stato messo a dura prova.
Tutte queste crisi particolari hanno, in altre parole, contribuito a una crisi generale del sistema geopolitico mondiale, che ha configurato nei fatti una geografia dell’incertezza che sembra sempre più essere un tratto distintivo della globalizzazione unipolare per come si è stabilita dagli anni Novanta.
Riprova ne è il successo avuto da Trump nel 2016, che attestava un mutato senso comune dell’opinione pubblica americana rispetto all’uso di risorse pubbliche per l’impegno in politica estera, laddove il candidato repubblicano aveva basato la sua campagna essenzialmente su temi di politica domestica: già allora si poneva politicamente il tema di quanto fosse realmente sostenibile l’unipolarismo a guida Usa per l’ordine mondiale.
Le parole di Putin prima e di Lavrov poi sembrano voler attestare un nuovo momento della politica internazionale, inserendosi in un duplice dibattito: quello interno al contesto statunitense, di certo non cessato con la presidenza Biden, e quello interno all’intero contesto occidentale.
Se molti analisti hanno visto infatti nel compattamento della Nato un rafforzamento dell’alleanza atlantica, le ultime dichiarazioni di Macron, a favore di una tregua tra le parti e per la non umiliazione della Russia, per un verso, e quelle di Draghi, che ha ribadito dopo l’incontro con Biden la necessità di costruire la pace attraverso negoziati con la Russia, per un altro, possono essere interpretate come il tentativo da parte dei paesi europei di affrancarsi – sebbene parzialmente – dal ruolo guida statunitense, agendo con manovre bilaterali capaci di attestarli come attori indipendenti e autonomi nello scenario ucraino e più in generale nel teatro globale.
Se lette in tal senso, le parole dei due presidenti potrebbero puntare a riequilibrare i rapporti di forza in campo europeo (sfruttando la momentanea debolezza del cancelliere Scholz), ma anche mondiale, configurando uno scenario di potenziale e profondo cambiamento epocale, evocato anche dai vertici russi, che nella crisi ucraina potrebbe trovare ridefinizione generale della mappa geopolitica mondiale.