C’è un aspetto di cui pochi parlano in questa quarantena, che però ci dà conto dell’importanza della disciplina che pratico, la geografia. Al di là delle riflessioni sulla globalizzazione, sulle questioni geopolitiche mondiali, sui cambiamenti negli assetti di potere e della geografia politica mondiale; al di là anche della geografia economica e dei riflessi che il Covid-19 avrà sull’impianto industriale, produttivo e di scambi commerciali in Italia, in Europa e nel mondo; al di là, poi, della geografia regionale italiana, che vede differenze importanti nel contrasto al contagio e nell’assunzione di politiche restrittive o contenitive.
Luoghi che mancano – Al di là di tutto questo, quello che sembra emergere in maniera evidente è un altro aspetto, che inerisce a un campo differente, se si vuole di carattere più «sentimentale» ma che ha a che fare prepotentemente con la geografia: si tratta della «mancanza dei luoghi». Per chi frequenta i social network, per chi ha avuto modo di scorrere le pagine della propria università che davano sfogo ai richiami alla libertà dei propri studenti, per chi ha potuto scorrere qualche riflessione – anche se talvolta ripetitive – delle pagine “Poivorrei”, oltre alla mancanza della socialità, delle persone, del contatto umano, in una classifica ideale si posiziona la mancanza dei luoghi: dell’aula, della piazza, del posto al mare dove abbiamo passato l’ultima vacanza, della propria città d’origine, delle strade.
Memoria dei luoghi – Quello che stiamo vivendo oggi sarebbe un fenomeno da approfondire non solo dal punto di vista geografico, ma anche da quello psicologico. Si tratta di una mancanza naturale, che ci rimanda alla crucialità dei luoghi quali snodi essenziali della socialità umana, dell’interazione ineludibile tra uomo e ambiente, della sedimentazione storica che passa attraverso i luoghi e si imprime su di essi. I luoghi conservano una loro memoria storica, una stratificazione che è il frutto dell’attività umana nel corso del tempo, ma essi hanno anche una connotazione storica per ognuno di noi.
Questa mancanza, che più o meno riguarda ciascuno di noi, ha dunque a che fare sia con la memoria dei luoghi sia con la memoria individuale, poiché l’attività umana – qualunque essa sia – si estrinseca in uno spazio, in un luogo, in una porzione di Terra che vede agire gli esseri umani.
Luoghi e libertà – Potremmo dire di più: il luogo ci manca perché a mancarci è la nostra libertà, corrispondendo il luogo all’azione umana spazializzata, essendo depositario e veicolo di una memoria storica collettiva e individuale. Questo si è reso evidente in queste settimane di lockdown – che potremmo chiamare più propriamente di arresti domiciliari – in cui, in virtù di un’emergenza epidemiologica, a causa di uno stato d’eccezione, i diritti basilari sono stati interrotti, come molti costituzionalisti hanno ben messo in luce.
In tale quadro di profonda – per molti esagerata e sconcertante – sospensione delle libertà individuali, abbiamo compreso, più o meno immediatamente, più o meno coscientemente, quanto ai luoghi si associ un concetto fondamentale della nostra esistenza, che è stato oggetto di studio di filosofi, giuristi, scienziati politici, sociologi e via dicendo: quello di libertà. Non è un dato così scontato: è in altre parole nello spazio fisico che si estrinseca la libertà. Afferma Giuseppe Dematteis che «non è lo spazio fisico che segrega, è il diritto di disporne che prende forma spaziale».
Il luogo chiuso da quattro mura, la casa, il rifugio di ognuno di noi, può talvolta coincidere con una sensazione di libertà, sempre che alla base vi sia una scelta individuale e consapevole, per l’appunto libera. Lo stesso può avvenire in un eremo, in un convento o monastero: in tutti questi casi, però, così come in quello degli Hikikomori in Giappone, vi è una precisa volontà individuale che determina, pur nella chiusura spaziale, uno stato di libertà.
Stati di insicurezza e dipendenze – Per la maggior parte di noi, invece, i luoghi corrispondono alla libertà: è il movimento nello spazio terrestre che identifica la nostra azione e dà corpo alla nostra identità. È ancora Dematteis che spiega bene – in un libro del 1985, Le metafore della Terra – la distinzione, che egli all’epoca riteneva «ideale» ma che oggi si è pienamente concretizzata, tra una geografia «di ciò che muta», che nasce dal movimento, dalla libertà e dalla complessità, e una «normale», che prende forma in un apparato rigido e controllato: «la prima presuppone una certa fiducia in sé, negli altri e nella realtà. La seconda è la risposta a uno stato d’insicurezza che spinge alla dipendenza».
La libertà che – volenti o nolenti – ci è stata negata negli ultimi due mesi è derivata proprio da quello stato di insicurezza, che il geografo torinese considerava come una semplice «astrazione» ma che si è realizzata davvero sulla scorta della paura della pandemia e che, nei fatti, ha portato molti di noi a una condizione di dipendenza.
Riconquistare la libertà – Domani comprenderemo ancor meglio quello che abbiamo vissuto solo «sentimentalmente» in questi mesi: quella mancanza dei luoghi che tutti abbiamo vissuto era, in fondo, un anelito di quella libertà che ci è stata negata nelle ultime settimane. Domani la ritroveremo, anche se molto limitatamente: sarà la libertà di muoverci, di scoprire spazi, di occuparli, di vivere luoghi, i centri mutevoli della nostra attività quotidiana e che assumono un senso compiuto proprio in virtù della sensazione di libertà che ci danno, nel movimento libero e talvolta caotico che è proprio dell’uomo.
Alessandro Ricci,
Università degli Studi di Roma Tor Vergata e Geopolitica.info