Il mercato del credito europeo ha da sempre una dimensione prettamente nazionale. I confini dei paesi membri combaciano con i limiti di attività delle rispettive istituzioni bancarie. Nel mentre, il processo di integrazione economica continua, sulla scia della condivisione del debito: in questo contesto è opportuno tornare a parlare di unione bancaria?
Unione in corso
Prima della grande recessione, un forte vento soffiava a favore dell’integrazione del settore finanziario e delle attività bancarie europee, vento che lentamente divenne brezza, poi sinistra bonaccia ai primi squilli della crisi economica. Per uscire dalla crisi e scongiurare il crollo del progetto di unione economica e monetaria (UEM), i vertici economici dell’Eurozona si convinsero che l’integrazione e la regolamentazione delle attività bancarie, sotto l’ombrello dell’UE, avrebbero rafforzato la tenuta del sistema agli shock esterni.
Venne così stilato il progetto della Banking Union.
Il bisogno di stabilizzare il mercato del credito divenne di primaria importanza per la tenuta del progetto UEM dal 2011, a causa di un particolare effetto collaterale della crisi: il cosiddetto Doom Loop – o circolo vizioso – causato dalla necessità degli Stati di cercare liquidità sul mercato per finanziarsi. Le obbligazioni offerte vennero in larga parte acquistate dalle rispettive banche nazionali, in quanto poco attraenti al di fuori dello Stato che le emanava, specie per quelli più a rischio default (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Ciò fu possibile per via della normativa europea sui requisiti di capitale delle banche:se una banca è esposta verso i titoli del suo stesso paese, non è necessario che accantoni capitale a garanzia di quei titoli. Il doom loop si era creato: le banche si ritrovarono in pancia enormi fette di debito sovrano, il quale, all’aumentare dei tassi di interesse dei titoli, abbassava il valore di mercato delle banche detentrici, costrette all’immobilismo. La crisi finanziaria ruppe gli argini tra settore privato e pubblico. Si iniziò a parlare di spread e di crollo del sistema interbancario, arrivando nel 2012 al “whatever it takes”.
Pilastri e stato di avanzamento
In questo contesto mosse i primi passi il progetto di unione bancaria, che è possibile descrivere come una struttura a tre pilastri. Il primo è rappresentato dal Single Supervisory Mechanism (SSM), un sistema di vigilanza centralizzato volto alla prevenzione delle crisi. In questo quadro, gli Stati riversano parte dei propri compiti di supervisione delle attività delle banche più importanti (dette “sistemiche”) in favore della Banca Centrale Europea (ECB), mantenendo il controllo dei gruppi bancari minori e locali. Il Single Resolution Mechanism (SRM) è il secondo pilastro, pensato per armonizzare le procedure di risoluzione (salvataggio) delle banche in crisi negli Stati membri. Terzo, lo Schema comune di Garanzia dei Depositi, (DGS – Deposit Guarantee Scheme), ideato come protezione delle generalità dei depositanti in caso di fallimento dell’istituto di credito.
Questo ambizioso progetto ha subìto numerosi aggiornamenti in corso d’opera, a causa di frizioni giuridiche, politiche ed economiche destinate a consolidarsi nel tempo in posizioni di principio.
Se il primo pilastro è entrato nel pieno delle sue funzioni nel 2014, il terzo è ancora un cantiere aperto: sono state implementate norme a garanzia dei depositi fino ad €100.000, ma manca ancora un meccanismo di riassicurazione condiviso dei suddetti depositi. Mentre il secondo è in una fase intermedia di implementazione: l’SRM dovrà essere accompagnato da un fondo (Single Resolution Fund), il cui compito sarà quello di prestatore di ultima istanza, come ulteriore garanzia che il peso del salvataggio di un istituto bancario non gravi sul settore pubblico. Il fondo dovrebbe entrare nella sua fase operativa nel 2024 e dotarsi di capitali a copertura di almeno l’1% dell’importo dei depositi garantiti per i membri della Banking Union (intorno ai 70 miliardi di Euro).
Perché la Banking Union, ora più che mai?
La dimensione nazionale delle attività bancarie è indice di una mancata omogeneità a livello comunitario, che si ripercuote nella percezione di rischio e nell’immagine dei singoli stati membri. Il rischio rappresentato dal sistema bancario di un paese, a sua volta, si riflette sull’afflusso di capitali, fondamentali per garantire un meccanismo di credito ben oliato e investimenti costanti. I paesi percepiti come più “rischiosi” sono anche quelli in cui investire (sulla carta) è meno sicuro, e che meno beneficiano degli stimoli erogati dalla BCE. Ecco perché il completamento dell’unione bancaria, in questa fase di ripartenza, potrebbe rappresentare un tassello importante per una ripresa economica simmetrica nell’eurozona.
In ambito Recovery Fund, svanita l’euforia iniziale (non solo italiana), i comparti economico-finanziari dei vari paesi stanno lentamente spostando la loro attenzione verso chi quei fondi dovrà trasformarli in progetti reali. Saranno le banche a raccogliere le idee dal basso e verificarne l’aderenza ai principi sanciti dai vari PNRR, perciò è necessario un sistema che possa fare da ponte tra il mondo imprenditoriale e lo Stato, amministratore delle risorse. Di fatto, la struttura sembra pronta alla sfida: la filiera del credito è già di per se capillare, più che adatta a veicolare i fondi a destinazione negli angoli più remoti degli Stati membri. In più, è prassi frequente che le banche agiscano da primo e principale interlocutore strategico per la pianificazione e il sostegno alle PMI, specialmente nelle aree rurali. Allo stesso tempo il loro nuovo ruolo è di coordinare questa pluralità di attori, allineandone le proposte ai dettami sanciti nei rispettivi parlamenti, secondo i tempi stabiliti da Bruxelles.
In Italia i veri registi di questa mappatura saranno i big del credito come Intesa ed Unicredit che, stando ad un articolo apparso su Repubblica il 28 aprile 2021, avranno il compito di “coinvolgere nei rivoli del PNRR le circa 300 mila imprese interessate” – delle quali 250 mila sono PMI. La mission è duplice: co-finanziare i progetti delle aziende leader nei settori dove questa leadership è presente (energia, telecomunicazioni) – e a questo proposito si rincorrono voci di una possibile pioggia di fondi, provenienti dal sistema bancario, del valore di un altro Recovery Fund (150-200 miliardi) – mentre nelle aree dove è assente, creare le filiere lungo le quali i progetti si svilupperanno, e monitorarne gli avanzamenti in linea con le scadenze europee.
Conclusione
Una delle tante prerogative per creare un ambiente favorevole alla crescita è un sistema bancario in salute, che possa garantire l’afflusso di denaro alle imprese richiedenti, e il rispetto dei tempi di realizzazione dei progetti. Onde evitare di assistere ad una ripresa composta da Stati che balzano in avanti ed altri che arrancano a fatica, la necessità è di garantire una leale concorrenza tra i sistemi bancari, causa di molte delle asimmetrie tra i paesi membri, per via della sua enorme influenza sui mercati e sulla ricezione degli stimoli emanati dalle autorità centrali.
Inoltre, l’internazionalizzazione dei mercati esige una risposta comune in materia di governance delle crisi e di garanzie per i correntisti. Negli scenari peggiori il rischio è che gli oneri dei salvataggi ricadano sui singoli paesi nei quali gli istituti compromessi hanno sede, con possibili conseguenze sui contribuenti, oltre al rischio sistemico per l’intero mercato unico. In fondo, il destino di un’Europa unita passa sia per la creazione di un contesto in cui i paesi membri possano muoversi in condizioni paritarie, che per l’accettazione di misure condivise in caso si verificasse il peggio, evitando l’arrocco nei rispettivi confini.
La crescita è anche una questione di agilità negli investimenti, in buona parte data dalla cooperazione tra istituti di credito e imprese. Al contempo, il Recovery non è altro che un contratto, scandito in fasi, con tempistiche e modalità che dovranno riportare periodicamente dei progressi tangibili, pena l’esclusione: banche differenti in sistemi nazionali più o meno ordinati potrebbero far rispettare diversamente le tempistiche uniche dettate da Bruxelles, con conseguenze ormai note.
Che sia la realizzazione della Banking Union il volano per una crescita economica stabile e coesa da tempo rincorsa?
Enea Belardinelli