Una lettura sistemica dei recenti e recentissimi eventi che hanno coinvolto diversi attori statuali del mondo musulmano che si affaccia sulle sponde del Mar Mediterraneo sembrano suggerire l’inizio di una nuova fase nel processo di trasformazione istituzionale e socio-culturale avviato dalla primavera araba del 2011. le proteste contro la virata islamista del governo di turco di Erdogan, il colpo di mano dei militari egiziani lo scorso 3 luglio, come anche il riflusso della spinta insurrezionale nella Siria di Bashar al Assad, un evidente indebolimento del movimento dei fratelli musulmani e delle sue diramazioni partitiche nazionali assurge a comune denominatore dei cambiamenti in divenire.
Come già avvenuto in passato, il mutamento degli equilibri di forza regionali si ripercuote sullo scenario strategico libico, accelerando ancor più i confronti interni al Paese. A quasi tre anni dalla fine di una drammatica guerra civile e dodici mesi dopo la storica tornata elettorale per la formazione del General National Congress, la persistenza di alcuni rilevanti fattori critici endogeni ed esogeni continua di fatti a congelare il processo di state-building della nuova Libia post-Gheddafi. Il principale elemento di rottura con il passato è rappresentato dal consolidamento delle finora sparute fazioni filo-gheddafiane attive in taluni centri urbani in reazione al tentativo governativo di completare il processo di epurazione e rigenerazione della classe dirigente e ancor più burocratica del Paese. Il riferimento corre in primo luogo ai provvedimenti legislativi entrati in vigore 5 giugno.
Nella data un numero imprecisato quanto significativo di esponenti politici e amministratori locali in varia misura operativi nella gestione della cosa pubblica libica prima del 2011 era stato interdetto dagli uffici pubblici e costretto a rassegnare le dimissioni. Benché ne abbiano pagato le conseguenze figure di rilievo come il Presidente del GNC Mohammed Magarief, ma anche parlamentari e ministri dell’esecutivo in carica, la decisione ha avuto tra i suoi effetti quello di ricompattare ciò che rimane del fronte uscito sconfitto dal confronto bellico. Ne costituisce l’ideale leader naturale Saif al Islam, figlio secondogenito del defunto dittatore. Attualmente prigioniero a Zintan, distante poche decine di chilometri dalla capitale Tripoli, l’uomo che guidò l’esercito lealista nella battaglia contro i ribelli cirenaici è oggi molto più di un detenuto eccellente in attesa condanna: rispettato e protetto, la sua influenza dentro e fuori la città è accresciuta sensibilmente anche grazie a una cauta propaganda sotterranea sul web. Si oppongono apertamente alla ribalta gheddafiana gli ambienti militari e politici di Misurata, roccaforte dell’islam salafita in Libia e ‘città-martire’ della vittoriosa rivolta contro il Colonnello. Se tuttavia l’elevato potenziale di dinamicità e aggressività dimostrato dalle milizie tutt’ora presenti in loco costituisce un freno ai progetti di restaurazione della Jamahiriyya, l’ascendente sul vasto clan dei Warfallah e la disponibilità di risorse economiche e belliche di cui godono potrebbero essere tali da consegnare ai gheddafiani una netta superiorità strategica sui diretti avversari.
Va però allo stesso tempo ricordato che il ripiegamento degli insorti in Siria si sta traducendo in un stimolo al rimpatrio per migliaia di volontari libici ivi impegnati, un patrimonio umano di soldati scelti altamente addestrati e equipaggiati che, con ogni probabilità, andrebbe a rinforzare le fila del fronte di Misurata. Al di là di previsioni e supposizioni, gli esiti dello scontro che sembra profilarsi saranno decisi dalle capacità catalizzatrici dei contendenti su un’opinione pubblica insoddisfatta dai risultati finora ottenuti dai vertici istituzionali. Rivoltando il paradigma, lo stesso vigore ritrovato dai lealisti di Gheddafi appare il frutto di una logorante impotenza governativa a fronte di alcune problematiche di ordine storico e contingente che affliggono il Paese.
Si guardi in tal prospettiva all’insofferenza della Cirenaica verso una politica che ha trascurato le rivendicazioni economiche e rappresentative della più ricca tra le regioni libiche, detentrice di alcuni tra i più ingenti giacimenti di idrocarburi del continente, sede di industrie e, dato affatto trascurabile, prima promotrice dei moti che condussero al collasso il regime del Rais. Più stabile della vicina Tripolitania e forte di un esercito (ex brigata Fulmine o Saetta del generale Yunis) di 20.000 uomini accampato alle porte di Bengasi, nonché di altri migliaia di miliziani attivi tra la compatta Tobruk di Yasin Obeidi, la protezione delle raffinerie ed i confini , la Cirenaica sta oggi dando prova di capacità gestionali e politiche lungimiranti quali ad esempio la decisione di chiudere le proprie frontiere al fine di isolare gli spill over negativi degli scontri in corso nel confinante Egitto.
Sebbene il suo peso possa rivelarsi decisivo, la vasta e ricca porzione orientale della Libia resterà probabilmente ai margini del confronto tra forze di vecchi e nuovi contendenti, perseguendo così in seguito i propri obiettivi federalisti da un posizione di ancor più marcato vantaggio relativo. Una seconda, duplice, problematica attiene al mancato inquadramento delle citate milizie in una stabile cornice istituzionale.
Da un lato la presenza delle bande armate impedisce la prosecuzione del processo pacificazione nazionale, fornendo alle fazioni tribali e religiose uno strumento di pressione e minaccia sulle istituzioni e sulla popolazione; occupazione di uffici pubblici, scontri armati negli aeroporti o attentati quali il recente assalto al convoglio diplomatico del console francese Jean Dufriche sono solo alcune tra le conseguenze che vi si connettono. Dall’altro la lentezza con cui i guerriglieri accettano di entrare nell’esercito regolare e nelle forze dell’ordine priva la Libia dei mezzi coercitivi con cui affermare la sovranità governativa sul suo stesso territorio.
Ciò appare particolarmente evidente nelle aree più periferiche dello Stato e, più generalmente, nello sterminato basso ventre libico, dove la porosità delle frontiere ha trasformato aree inaccessibili del deserto nelle basi logistiche di mercenari, jihadisti maghrebini e guerriglieri tuareg. In alcuni casi gli effetti dell’assenza di un controllo capillare del territorio appaiono visibili persino nelle prossimità di Tripoli: è il caso delle bande di narcotrafficanti e contrabbandieri d’armi vicino agli algerini che hanno preso il controllo di un piccolo centro abitato alle porte della città di Zdabia Zuwara, impadronendosi per giunta di un consistente arsenale missilistico di epoca gheddafiana. La somma delle criticità esposte appare dunque foriera di un nuovo momento conflittuale che potrebbe manifestarsi in tutta la sua forza proprio nel corso del caldo ramadan in cui la Libia e la complessità dei Paesi musulmani si sono immersi a partire dal 9 luglio.
Se il riflesso dei cambiamenti nella macroregione del Grande Medio Oriente ha operato da forte stimolo per le attuali dinamiche conflittuali, meno rilevanti appaiono le capacità di condizionamento strategico delle politiche estere europee. Non costituisce un’eccezione l’Italia, benché evidenti vincoli economici, politici e finanche storici leghino tutt’ora i due Paesi mediterranei.
Roma rappresenta il primo partner per l’export energetico di Tripoli (22% contro il 14% di Francia e Germania), voce preponderante nella formazione del Pil, nonché fonte della quasi totalità degli introiti governativi. Al pari è italiano circa l’8,5% dell’import nazionale, una percentuale ben più alta di qualsiasi altro Stato dell’Unione Europea attivo nel mercato libico. Dalle piccole realtà del manifatturiero, all’industria alimentare o dei servizi, fino alle grandi multinazionali quali l’Eni, un quota significativa dell’imprenditoria nostrana coltiva interessi commerciali tra la capitale, Bengasi e Misurata. Parimenti importanti appaiono i vincoli sociali e umanitari, con particolare riferimento alla tragica ripresa del flusso migratori di quei cittadini africani e asiatici che su imbarcazioni di fortuna raggiungono la Sicilia dalle coste tripolitane. Non può infine essere trascurato il peso del coinvolgimento italiano nelle vicende interne della Libia novecentesca e contemporanea come potenza coloniale, avversaria e successivamente alleata del regime gheddafiano, ma anche sponsor del rinnovamento post-bellico a partire dal 2011.
Pur a fronte delle connessioni citate, i provvedimenti adottati per fronteggiare i palesi segnali della difficoltosa tenuta istituzionale della Libia appaiono finora marginali. Sollecitato dal Presidente Obama nel corso dell’ultimo G8 a Lough Erne, il Premier Letta ha comunque elaborato a riguardo un piano d’interventi esposto e discusso con il suo omologo libico Ali Zidan durante il vertice bilaterale del 5 luglio scorso. Un programma d’addestramento per 5.000 unità delle forze armate e della polizia di frontiera locali, la fornitura di aerei e attrezzature e un’ancor più stretta cooperazione per il rispetto dei diritti umani dei migranti sono i principali impegni assunti pubblicamente da Roma al termine dell’incontro. Complessivamente un pacchetto di promesse di per sé troppo contenuto per incidere sul processo di normalizzazione socio-politica della vasta repubblica nord africana. La vitale centralità della Libia per la sicurezza interna italiana suggerirebbe piuttosto una concentrazione sulla stessa di ben più ingenti sforzi diplomatici ed economici. Benché i limiti imposti dalla recessione al bilancio nazionale obblighino a un contenimento delle spese strategiche, l’Italia potrebbe liberare le risorse necessarie per riaffermare un veritiero ruolo preminente nel quadrante mediterraneo rimodellando le dimensioni della sua presenza militare in contesti statali secondari per l’interesse nazionale.
Si guardi ad esempio agli insopportabili costi umani e finanziari dell’ormai decennale esperienza afgana. In un frangente storico magmatico e incerto che vede gli Stati del Maghreb e del Mashrek attraversati da proteste di piazza, colpi di stato e guerre civili, la riproposizione di uno scenario di anarchia in Libia potrebbe avere ricadute inimmaginabili per l’Italia sotto il profilo della sostenibilità energetica, della gestione dei flussi migratori e del contrasto al terrorismo transnazionale di matrice islamica. Ancor più in seguito alla sollecitazione di Washington, la Farnesina e Palazzo Chigi sono dunque chiamati a un’operazione di sensibilizzazione della comunità europea e internazionale sui pericoli della destabilizzazione istituzionale libica e sull’inefficacia di una risposta politica che fosse limitata al solo impegno italiano. Diversamente appare auspicabile lo stanziamento di un fondo collettivo per la ricostruzione del Paese e, sul lungo periodo, il finanziamento di un ‘piano Marshall’ per la complessità degli Stati rivieraschi del Mediterraneo meridionale. Un investimento draconiano, ma reso indispensabile dalla sostanziale coincidenza tra gli interessi libici e italiani che, sotto diverse prospettive, incontrano i più generali interessi dell’intero quadrante mediterraneo e dell’Europa.