Secondo quanto riferito nella giornata di ieri dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini in audizione presso le Commissioni Difesa di Senato e Camera, l’Italia avrebbe proposto la propria candidatura per la guida della missione NATO in Iraq. Recentemente, i ministri della Difesa dell’Alleanza hanno stabilito che la consistenza del contingente alleato sul suolo iracheno verrà radicalmente incrementata. La proposta italiana non sarebbe stata avanzata in via ufficiale, bensì inoltrata in via informale, tramite gli opportuni canali diplomatici. Quali opportunità per Roma e per Washington?
La dichiarazione di Stoltenberg
Nella ministeriale NATO tenutasi tra il 17 e il 18 febbraio, il Segretario Generale Stoltenberg ha annunciato che la presenza militare dell’Alleanza in Iraq verrà notevolmente ampliata, passando dagli attuali 500 a circa 4.000 uomini. Mentre la missione del contingente schierato rimarrà invariata – sostenere le forze irachene nella lotta al terrorismo, addestrando l’esercito e le forze dell’ordine e fornendo consulenza alle principali istituzioni di sicurezza nazionali – l’area su cui essa insiste, oggi limitata alla sola città di Baghdad, verrà allargata ad altre regioni dello stato.
Nel suo discorso, il Segretario Generale ha fatto cenno ad alcuni particolari che, se ad una prima lettura possono sembrare poco rilevanti, sono in realtà di primaria importanza. Innanzitutto, ha sottolineato che la missione che la NATO conduce in Iraq è stata ufficialmente richiesta dal governo iracheno. Questo dettaglio non è affatto scontato, se si tiene conto di due elementi: il primo, più modesto, è il fatto che nella vicina Siria le forze americane conducono attività di addestramento in favore delle milizie curdo-siriane inquadrate nelle Syrian Democratic Forces senza nessuna richiesta formale da parte del governo di Assad; il secondo, molto più rilevante, è il forte livello di tensione che sussiste oggi tra il governo di Baghdad e quello americano, con il primo che, a seguito dell’attacco statunitense che ha portato all’uccisione sul suolo iracheno del maggior generale iraniano Qasem Soleimani, capo della forza Quds, ha ufficialmente chiesto al secondo di ritirare le truppe schierate sul suo territorio. Stoltenberg ha poi sottolineato che la missione della NATO verrà condotta “nel totale rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Iraq”. Entrambe le parole hanno un significato alquanto importante. Il termine sovranità rimanda ancora una volta ai fatti avvenuti nel gennaio del 2020, quando fu ucciso il generale iraniano. Sottolineando questo concetto, Stoltenberg vuole probabilmente far capire al governo iracheno che episodi come quelli avvenuti lo scorso anno non verranno reiterati. D’altronde, quanto fatto capire dal Segretario Generale sembra trovare conferma nei fatti più recenti. A seguito di alcuni attacchi condotti a mezzo di razzi da parte di milizie filo-iraniane schierate in Iraq contro truppe USA acquartierate nella città di Erbil, gli americani hanno risposto al fuoco evitando di colpire obiettivi posti sul territorio iracheno, preferendo lanciare un attacco contro le milizie filo-iraniane in Siria, proprio per evitare ulteriore dissidi con Baghdad. Anche il termine “integrità” è ricco di significati. Con questo termine, infatti, Stoltenberg lascia intendere che qualsiasi iniziativa da parte di attori curdi o filo-curdi in favore di un’ipotetica indipendenza del Kurdistan non verrà in alcun modo sostenuta.
La presenza degli alleati in Iraq
Secondo le fonti citate da Askanews, la richiesta di Roma potrebbe essere facilmente accolta, data la consistenza numerica del contingente italiano già schierato in Iraq e gli impegni profusi dal nostro paese a sostegno delle iniziative che l’Alleanza ha messo in atto nel corso degli ultimi anni, non solo in Medio Oriente. L’Italia, infatti, è il secondo contributore delle missioni internazionali NATO per numero di uomini schierati, secondo solo agli Stati Uniti. Le nostre forze infatti partecipano allo sforzo della NATO in Afghanistan (800 unità), in Kosovo (600 unità), in Lettonia (200 unità) e nel Mar Mediterraneo (280 unità). Partecipano poi a una missione di sorveglianza dello spazio aereo dell’Alleanza, cui contribuiamo con 135 unità e 12 mezzi aerei. Tra l’altro, l’Italia non è nuova all’assunzione di importanti incarichi di comando multinazionali, visto che ad oggi detiene il comando dell’operazione UNIFIL, in Libano, e dell’operazione KFOR, in Kosovo.
La nostra presenza in Iraq è iniziata nel lontano 2003, con il lancio dell’operazione Antica Babilonia. L’Italia ha inviato un contingente con lo scopo di fornire agli alleati americani il proprio contributo alla ripresa dell’Iraq dopo la sconfitta di Saddam Hussein. Le forze italiane sono state stanziate nel sud del Paese, a Nassiriya, luogo rimasto tristemente noto per via dell’attentato terroristico subito dalle nostre truppe alla base Maestrale. Dopo tre anni, durante i quali i militari italiani hanno condotto operazioni di combattimento a tratti anche molto violente, come l’episodio rimasto celebre come “battaglia dei ponti”, Roma ha deciso di procedere col ritiro del contingente, cinque anni prima del ritiro delle truppe americane, avvenuto nel 2011. L’Italia rimetteva i piedi in Iraq nel 2014, quando l’amministrazione Obama, a seguito dell’insurrezione jihadista dello Stato Islamico, dava vita all’International Military Intervention Against Isil, un’iniziativa intrapresa con lo scopo di contrastare lo Stato Islamico in Iraq e in Siria e che vedeva fin da subito la presenza di numerosi contingenti stranieri in suo supporto, tra cui quello italiano, inquadrato nell’ambito dell’operazione Prima Parthica. L’intervento italiano vede oggi la presenza di 1.110 unità, 270 mezzi terrestri e 12 mezzi aerei, presenti in Iraq per addestrare le Forze di Sicurezza curde ed irachene, nella sede di Erbil (Kurdistan) e di Baghdad. A Erbil, personale dell’Esercito svolge corsi di addestramento in favore delle forze peshmerga, mentre a Baghdad e Kirkuk sono presenti uomini delle Forze Speciali che addestrano i militari iracheni e le Forze Speciali delle Forze di sicurezza curde.
La NATO è presente in Iraq dal 2004, anno in cui è stata lanciata la missione denominata NATO Training Mission in Iraq (NTM-I). La NTM-I si poneva come obiettivo quello di provvedere alla formazione dei quadri, all’addestramento e al supporto tecnico delle forze di sicurezza irachene. La missione è terminata nel 2014, anno in cui l’ISIS ha assunto il controllo di grandi aree del paese. Solo nel 2018 la NATO, su richiesta ufficiale del governo iracheno, è tornata in Iraq: con la missione denominata NATO Mission IRAQ (NMI), ancora in corso, l’Alleanza si proponeva, e tuttora si propone, di supportare le attività di addestramento della coalizione americana in Iraq, inquadrata nell’operazione Inherent Resolve. Attualmente il contingente schierato consta di 500 uomini ed è comandato dal Generale dell’aeronautica danese, Pugholm Olsen. Contributori della missione – oltre alle truppe NATO – sono Australia, Svezia e Finlandia.
Gli Stati Uniti sono presenti in Iraq dal 2003 quando, sotto l’amministrazione Bush Jr., Washington ha invaso l’Iraq con l’aiuto di Regno Unito, Australia e Polonia contro l’Iraq. L’operazione, denominata Iraqi Freedom, ha avuto fine nel 2011, quando il Presidente Barack Obama, attirando su di sé pesanti di critiche in patria e all’estero, ha deciso di ritirare le truppe dal paese, per concentrarsi sull’Afghanistan. Gli USA sono poi tornati in forze in Iraq nel 2014, con l’operazione Inherent Resolve, creata per contrastare le attività dello Stato Islamico, all’epoca pericolosamente diffuso in Siria e soprattutto in Iraq. La strategia americana è cambiata radicalmente con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca. Il nuovo presidente ha rotto l’accordo sul nucleare iraniano, il JCPOA, e ha intrapreso nei confronti dell’Iran una “politica di massima pressione”, che ha contribuito a trasformare l’Iraq in una sorta di campo di battaglia tra Washington e Teheran, come testimoniato dai fatti avvenuti nel 2020, primo tra i quali l’uccisione del generale Soleimani, e ha esacerbato i rapporti tra Stati Uniti e governo iracheno, che ora richiede con forza il ritiro del contingente americano. Attualmente gli Stati Uniti schierano in Iraq circa 2.500 uomini.
Quali prospettiva per gli Stati Uniti e per l’Italia
Biden si trova a dover gestire un dossier complesso. Da una parte, il teatro iracheno non riveste più l’importanza di una volta, ora che l’attenzione è tutta nei confronti della Cina; dall’altra, il nuovo presidente democratico non può abbandonare il Medio Oriente fino a quando non avrà raggiunto una situazione di equilibrio che consentirà agli Stati Uniti il contenimento dell’azione delle principali potenze della regione, Iran e Turchia, e che impedirà il sorgere di nuove tensioni che potrebbero un domani coinvolgere nuovamente Washington in una crisi locale. Il nuovo inquilino della Casa Bianca cambierà strategia rispetto a quella del suo predecessore: la politica intrapresa da Trump verrà probabilmente abbandonata, in favore di una politica più accomodante – come d’altronde dimostrato nelle scorse settimane, quando gli USA hanno scelto di rispondere agli attacchi condotti contro le loro truppe colpendo obiettivi in Siria, invece che in Iraq – all’interno della quale gli alleati potranno giocare un ruolo fondamentale.
Il contributo offerto dalla NATO in Iraq assume dunque una duplice funzione: da una parte, permette a Biden di ridurre sensibilmente la presenza americana in Medio Oriente, potendo contare sulle truppe rese disponibili dagli alleati. Dall’altra, permette agli Stati Uniti di soddisfare le richieste di ritiro espresse dal governo di Baghdad, che ormai da un anno preme affinché Washington abbandoni il suolo iracheno.
Relativamente all’Italia, un’eventuale leadership della missione offrirebbe notevoli opportunità al nostro Paese, che trarrebbe grandi benefici dal rafforzamento delle relazioni con Baghdad. Non è un caso che il contingente italiano inquadrato nell’operazione Prima Parthica rappresenti il più corposo dispiegamento di truppe italiane all’estero – tra l’altro, fino al marzo del 2019, l’Italia schierava in Iraq anche la Task Force Presidium, un contingente composto da circa 500 uomini che operavano per garantire la sicurezza dei dipendenti civili dell’italiana Trevi che lavoravano ai lavori di ristrutturazione della diga di Mosul –, e il secondo della coalizione a guida statunitense. L’Italia intrattiene con Baghdad rapporti militari consolidati nel campo del training e della formazione. Inoltre, in Iraq il nostro paese deve tutelare interessi soprattutto energetici: Baghdad è il primo fornitore di petrolio di Roma, che nel 2019 ha fornito il 19,3% della quantità complessiva di greggio importato. L’italiana Eni è presente in Iraq dal 2009. L’attività di produzione dell’azienda italiana è fornita dal giacimento Zubair, di cui Eni detiene il 41,56% e il cui sviluppo, guidato dagli italiani, dovrebbe nei prossimi anni portare ad un forte aumento della produzione, che passerebbe dagli attuali 475.000 a circa 700.000 barili al giorno. Oltre a Eni, in Iraq sono attive altre due importanti società italiane, la Bonatti e la Renco, entrambe attive nel settore petrolifero: operano infatti come manutentori delle otto turbogas che alimentano gli impianti di Zubair. Da non scordare poi il ruolo della Trevi, che ha da poco concluso i lavori sulla diga di Mosul.
L’assunzione del comando della missione a guida NATO potrebbe inoltre contribuire a rafforzare ulteriormente la posizione italiana in seno all’Alleanza, al cui sforzo il nostro paese non ha mai mancato di contribuire. Questo, oltre che dare ulteriore lustro alle capacità ormai solidamente maturate dalle nostre forze nel campo dell’assistenza e dell’addestramento delle forze locali, ci permetterebbe di rispondere con più forza alle critiche indirizzateci dagli alleati in merito al mancato raggiungimento del fatidico 2% che la NATO chiede ai suoi partecipanti.
Matteo Mazziotti di Celso,
Geopolitica.info