Fu la partecipazione del Corpo di Spedizione Sardo alla guerra in Crimea nel 1855-1856 ad aprire al Piemonte le porte della questione d’oriente, ma furono le necessità della “geopolitica della seta” a far maturare a Torino l’interesse per il Caucaso e la Persia.
Già nel 1857, un anno dopo la guerra di Crimea e nel pieno del great game che vedeva l’Impero Russo contrapposto all’Impero Britannico per il controllo del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, la Persia aveva stretto un trattato con il Regno di Sardegna a Parigi. Lo Stato Sublime di Persia (questo il nome ufficiale dell’impero persiano sotto la dinastia Qajar) aveva necessità di uscire dall’isolamento diplomatico cui Londra e San Pietroburgo l’avevano costretto dopo la fallita invasione dell’Afghanistan dell’anno precedente ed è per questo che Teheran aveva cercato l’appoggio nella capitale francese anche del piccolo Regno sabaudo.
La guerra anglo-persiana scoppiata il 1 novembre 1856 e terminata il 4 aprile 1857 dopo una serie di travolgenti vittorie della divisione anglo-indiana di Sir James Outram, costò allo Shah la perdita definitiva di Herat – ribellatasi dopo essersi posta sotto la protezione del Raj britannico d’India ed in alleanza con l’Emirato di Kabul – ed in sostanza della possibilità di portare avanti una politica estera assertiva che permettesse a Teheran di mantenersi quale “terza forza” rispetto a Britannici e Russi. La crisi dell’Impero Persiano iniziata nel 1813 con il Trattato del Golestan e proseguita con l’umiliazione sancita dal Trattato di Turkmanchay (con il quale i khanati di Erevan, Nakhitchevan, Talysh, le regioni di Ordubad e Mughan, oltre a tutte le terre perse in virtù del precedente trattato di Golestan passavano sotto la sovranità russa) si inaspriva così a seguito delle gravi sconfitte subite contro gli Inglesi. Ai Persiani non restava che percorrere la via diplomatica per mantenere la propria autonomia visto che ogni opzione militare si era rivelata fallimentare.
La crisi che aveva colpito l’industria serica europea ed asiatica nel 1860, a causa di un’epidemia mortale per i bachi da seta, non aveva lasciato immune il Piemonte che proprio nella produzione di seta era una delle eccellenze del Vecchio Continente. L’idea di Cavour fu quindi quella di esportare in Persia il riso del Vercellese per importare bachi da seta e rivitalizzarne l’industria nel Regno di Sardegna. A fare da “apripista” per conto del governo di Torino fu il regio console a Costantinopoli Marcello Cerruti, diplomatico di razza coinvolto qualche anno prima in uno scandalo legato al traffico d’armi tra Piemonte e circoli rivoluzionari ungheresi in funzione anti-austriaca, che ricevette istruzioni sia da Cavour che dal suo successore Ricasoli per allacciare nuovi contatti tra la Persia ed il giovane Regno d’Italia.
Nel 1862 il nuovo presidente del Consiglio italiano Urbano Rattazzi convinse il Parlamento ad autorizzare l’invio di una missione diplomatica, commerciale e geografica in Persia a capo della quale fu posto Cerruti come inviato di S.M. Vittorio Emanuele II presso lo Shah. Se la Persia aveva, fino a quel momento, mantenuto la propria indipendenza era stato solo perché essa fungeva da “cuscinetto” lungo le direttrici d’espansione russe che puntavano direttamente sul Raj britannico d’India. La presenza di ingenti forze russe nel Caucaso per completare la conquista della regione era vista dalla diplomazia britannica con apprensione poiché avrebbe potuto essere il preludio d’una invasione della Persia e poi dei possedimenti indiani della Regina Vittoria.
La Persia, proprio come l’Impero Ottomano, viveva la particolare situazione di disporre dell’indipendenza fintanto che i due giganti vicini non avessero trovato un accordo e la politica dello Shah non poteva non dipendere dallo stato delle relazioni tra Londra e San Pietroburgo.
Una situazione che non poteva che destare l’interesse di Pietro Melegari, Segretario Generale del Ministero degli Esteri italiano, il quale era convinto del fatto che – in linea con il proverbio “tra i due litiganti il terzo gode” – Torino, non avendo interessi vitali da difendere in Persia, avrebbe potuto trarre ingenti vantaggi, specie in ambito commerciale, a discapito dei Russi e degli Inglesi.
In più nelle intenzioni di Melegari era fondamentale capire se lo Shah avesse avuto intenzione di riconquistare l’Afghanistan, l’Herat ed il Peloucistan (sottratte ai suoi domini dai Britannici) o di rinfocolare la crisi politico-diplomatica con Impero Ottomano e Russia relativa al contenzioso in atto sul possesso delle valli di Tigri ed Eufrate.
Alla missione fu aggregata anche una “sezione militare” ufficialmente con compiti di scorta ma adibita segretamente ad effettuare una ricognizione sull’occupazione russa del Caucaso e delle relazioni tra la Persia e l’Inghilterra, la Francia e la Russia. La sezione militare della Legazione straordinaria italiana in Persia era composta da due veterani della guerra di Crimea, il Conte Stanislao Nicola Grimaldi del Poggetto, capitano di cavalleria, e l’esule ed irredentista goriziano Alessandro Clemencich, capitano di Stato Maggiore, dipendenti direttamente da Cerruti. I due ufficiali italiani erano stati preceduti nel 1852 dal tenente colonnello del Corpo Reale di Stato Maggiore Enrico Giustiniani che, su incarico del Governo sabaudo, era stato aggregato alle forze russe d’occupazione nel Caucaso per studiarne tattiche e strategie; così come a Teheran erano presenti numerosi militari italiani, veterani degli eserciti preunitari, giunti in Persia nel periodo risorgimentale ed incaricati dell’addestramento dell’esercito dello Shah Nasser al-Din Qajar, ricordando su tutti il colonnello napoletano Luigi Pesce (pioniere della fotografia in Persia, i cui scatti sono esposti oggi anche al Metropolitan Museum di New York) ed il generale toscano Enrico Andreini, radiato dall’Esercito granducale.
A Clemencich il Ministro degli Esteri Giacomo Durando ed il Capo dell’Ufficio Superiore del Corpo di Stato Maggiore Giuseppe Ricci chiesero di sviluppare i seguenti punti nella sua relazione: stato delle forze russe nel Caucaso; condizioni dei belligeranti; spirito delle popolazioni caucasiche e transcaucasiche; disponibilità delle forze russe successiva alla sottomissione della Circassia; future direttrici della politica d’espansione russa in Asia Centrale. Il Clemencich conosceva le lingue ed i dialetti delle popolazioni del Caucaso e gli fu abbastanza facile, nel corso della spedizione, raccogliere le informazioni richieste dal Governo italiano.
Come si può ben vedere, quel che Clemencich aveva incarico di conoscere era fondamentale per lo sviluppo d’una linea di politica estera non solo previdente, ma anche in grado di evitare attriti tra l’Italia e le altre due potenze presenti nella regione con ben altri scopi e soprattutto ben altre risorse.
Nel libro “La Missione militare italiana nel Caucaso (1861-1866)” sono pubblicati sia il rapporto del tenente colonnello Giustiniani, sia quello del capitano Clemencich. In particolare il secondo è interessante poiché oltre a soffermarsi sui metodi della guerriglia tartara anti-russa, descrive meticolosamente anche le “colonie militari” teorizzate e create dall’esercito zarista nei territori occupati quale prima forma di insediamento stanziale russo. La funzione della “sezione militare” della missione italiana andava dunque ben al di là del semplice compito di “sciabolare i predoni” – come scherzosamente scrisse Clemencich – ma rispondeva alle esigenze della nascente intelligence nazionale.
Il neonato Regno d’Italia – che per giunta non era ancora stato riconosciuto dall’Impero Russo – non era dunque una potenza interessata solo alla politica prettamente europeo-continentale ma aveva ambizioni molto più ampie che, specie in un periodo complesso come quello antecedente alla terza guerra d’indipendenza, potevano tranquillamente non essere all’ordine del giorno. Eppure gli Italiani avevano interesse a comprendere il “grande gioco” (quando non a parteciparvi direttamente) anglo-russo in atto nel Caucaso per il controllo di quella che la geopolitica classica definisce “Rimland”.
Sbagliato è quindi considerare il Regno d’Italia degli anni 1861-1866 una nazione dedita esclusivamente alla risoluzione delle questioni veneta e romana; anzi, la presenza di una corposa missione politico-commerciale (e militare) in Persia evidenzia come il “revisionismo” sardo-piemontese avesse fatto, con la proclamazione del Regno d’Italia, un salto di qualità extra-europeo come la successiva missione diplomatica in Giappone ed i primi tentativi di penetrazione in Africa Orientale dimostreranno.
Così la spedizione in Persia, il transito dal Caucaso ed il successivo viaggio del capitano Clemencich a San Pietroburgo furono aspetti, magari poco conosciuti, ma comunque importanti di una impostazione di politica estera volta a far conoscere e riconoscere l’esistenza di un nuovo Stato alla comunità internazionale, a ricercare possibili alleati contro l’Impero d’Austria e ad accreditarsi nel novero delle grandi potenze.
Se è vero che la spedizione persiano-caucastica fu pensata da Cavour come ulteriore elemento della sua “trama anti-austriaca” volta a far esplodere la polveriera orientale tra le mani di Vienna, nella fase successiva divenne lo strumento attraverso il quale estendere la capacità di proiezione internazionale del Regno d’Italia.
Il legame tra la politica di Torino prima e Firenze poi in seno al “Concerto d’Oriente” ed i viaggi in Persia e nel Caucaso risulta palese, anzi, questi ne sono parte integrante e ne sviluppano un filone interessante e dai risvolti “kiplingiani”.
Così nel turbolento mosaico asiatico dove lo Zar di Russia e la Regina d’Inghilterra muovevano le loro pedine, magistralmente raccontato da Peter Hopkirk in “Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale”, tra le ombre delle azioni segrete, si nascondono anche i tre accesi colori della bandiera italiana.
Per concludere, dall’analisi della postura del Regno di Sardegna e del Regno d’Italia (suo successore de facto e de iure) nel “torneo d’ombre” anglo-russo in Oriente emerge ancora una volta l’elemento caratterizzante ed originale del revisionismo piemontese individuato da Lorenzo Termine e Gabriele Natalizia in “Gli insoddisfatti. Le potenze revisioniste nella teoria realista delle relazioni internazionali” in quanto ancora una volta tutte le azioni portate avanti dal decisore politico e dall’attore militare e diplomatico sul campo sono state al di sotto della soglia del conflitto aperto ed ha portato il Paese ad essere soggetto ed insieme oggetto delle trasformazioni del sistema internazionale nato a Vienna nel 1814-1815 e messo in discussione proprio dal processo di unificazione italiano.
La presenza della Legazione straordinaria italiana in Persia e nel Caucaso ha contribuito – anche se non causa di risultati tangibili in breve termine – a rafforzare la presenza del Regno d’Italia nel sistema internazionale basato sulla partecipazione al “Concerto d’Europa” ed al “Concerto d’Oriente” ed è stato senza dubbio uno dei fattori della “virata” di Torino verso il revisionismo incrementale dopo la fase rivoluzionaria avviata con la prima guerra d’indipendenza del 1848 e terminata solo con la presa di Roma nel 1870.