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RubricheLa Via per IsfahanL’Iran nell'occhio del ciclone

L’Iran nell’occhio del ciclone

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Dall’8 maggio 2018 quando l’amministrazione Trump ha annunciato  l’uscita dal JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) stipulato nel 2015 si è progressivamente giunti ad una crisi politica ormai irrecuperabile tra Teheran e Washington, due potenze che a loro modo si considerano degli imperi.

I falchi americani John Bolton e Mike Pompeo, appoggiati da Israele e Arabia Saudita, spingono ad un intervento manu militari degli USA contro Teheran, nel tentativo di arginarne il “revival sciita”, ma le forze politiche più filo-iraniane si oppongono, considerando la Persia un partner strategico fondamentale.

Certamente il crescente ruolo geopolitico della più grande potenza sciita al mondo è considerata un’aberrazione agli occhi dell’Isola Continente dato che il Medio Oriente, come spazio geografico e geopolitico, è una pura invenzione del marittimista americano Mahan (1900) i cui stati sono frutto più di un “capriccio anglo-americano” piuttosto che di un processo storico di lunga data. Per questo l’Iran nella visione del Deep State americano risulta essere un’anomalia proprio perché ha una storia ultra-millenaria (più di 2500 anni) con un mythomoteur consolidato (risvegliato dalla dinastia Safavide nel 1501 quando convertirono l’Antica Persia allo sciismo duodecimano) che persegue obiettivi geopolitici, indipendentemente dal regima al potere, consoni alla propria statura storica di potenza eurasiatica, la cui posizione geografica e le dimensioni ne fanno un attore centrale negli equilibri geopolitici della regione.

La naturale propensione a sentirsi accerchiati da potenziali nemici spinge la Persia a ricoprire un ruolo attivo nel Medio Oriente onde consolidare sé stessa ed evitare una nuova spartizione simile a quella anglo-russa del 1907, impattando di conseguenza direttamente contro “l’ombrello americano” nel Golfo. Il velayat-e faqih, ovvero il principio secondo il quale la massima autorità religiosa prevale su quella politica, e le ambizioni di esportare la rivoluzione islamica in tutta l’area dopo il 1979 hanno scatenato una crisi tout court all’interno della macchina burocratica americana ancora irrisolta al giorno d’oggi, viste le rapsodiche correnti all’interno sia dell’amministrazione Trump sia del Congresso americano circa le azioni da intraprendere nei confronti dell’Iran.

La difficoltà di trovare un modus vivendi con la Repubblica Islamica è sempre stata una costante dal 1979 nonostante una forte, seppur piccola, corrente politica legata alla CIA, ma soprattutto a Brzezinski, vede con favore il regime degli ayatollah al potere proprio perché la stabilità garantita dallo sciismo duodecimano fa di Teheran un garanzia nella regione a cui si potrebbe delegare la debacle afghana, in cui l’Iran ha già ricoperto un ruolo fondamentale durante l’invasione sovietica degli anni’80, quando forni un importante appoggio logistico ai “mujaheddin americani” in funzione anti-sovietica. Tale ruolo si potrebbe ripresentare oggi permettendo agli USA di contare su un rule maker regionale di prima categoria. Un eventuale asse Teheran-Washington, secondo sempre la visione geopolitica di questa corrente “filo-iraniana”, farebbe dell’Iran anche un potenziale attore geopolitico in funzione anti-russa sia dal punto di vista strategico che economico: strategico perché la vasta influenza iraniana nel Grande Medio Oriente, per motivi culturali, storici e linguistici in paesi come il Tagikistan, garantirebbe a Washington una penetrazione nel cuore dell’Eurasia (considerato da sempre pax russa e ultimamente pax russo-cinese), economico perché le grandi riserve di idrocarburi ne farebbero un partner commerciale alternativo soprattutto per l’Unione Europea , svincolandola parzialmente dal monopolio russo sull’export di gas. In base a questo schema l’accordo sul nucleare iraniano è stato considerato un atout proprio per conseguire tali scopi da tale fazione del Deep State americano. La posta in gioco con il JCPOA non era evitare che l’Impero persiano diventasse una potenza nucleare in grado di minacciare la sicurezza mondiale, come più volte ribadito dalla battage occidentale, ma dare una collocazione geopolitica al paese riconoscendone il ruolo di genius loci nella regione, non solo dagli USA ma da tutte le grandi potenze mondiale come Cina e Russia, “congelando” il presunto programma nucleare iraniano.

La corrente maggioritaria invece, legata alla potentissima lobby israeliana-sionista dell’AIPAC nonché saudita, conosciuta meglio come “la linea dei falchi americani”, principale sostenitrice dell’amministrazione Trump, considera il regime degli ayatollah il nemico da sconfiggere. Dalla caduta del regime di Pahlavi il pensiero di un Iran potente anti-israeliano e anti-saudita si è trasformato in un vero e proprio assillo specie se la revanche islamica iraniana rafforzasse la redenzione palestinese guidata da Hamas o peggio ancora la forza di Hezbollah in Libano, considerato da Tel Aviv la longa manus persiana ai suoi confini. I falchi americani temono inoltre che l’aumento del peso geopolitico del paese persiano gli permetterebbe di far leva sulle minoranze sciite molto consistenti nella penisola arabica, destabilizzando le monarchie sunnite come l’Arabia Saudita. I falchi hanno quindi sempre avuto come principale obiettivo ostracizzare l’Iran, impedendo l’ascesa di una forza pericolosa per il cosiddetto “cordone sanitario sunnita” e Israele.

Dopo l’11 settembre l’inserimento da parte dell’amministrazione Bush dell’Iran nel 2002  nell’asse del male ,nonostante il presidente Khatami avesse intrapreso una politica estera di avvicinamento all’Occidente, la guerra in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003) sono state perseguite con lo scopo di creare caos in due paesi confinanti con l’Iran mettendo i suoi limes sotto pressione nel tentativo di indurre le minoranze etniche afghane, curde, arabe e del Balucistan a ribellarsi contro Teheran, seguendo la logica del divide et impera. L’obiettivo era rompere l’asse sciita (Herat-Teheran-Damasco-Beirut), tanto temuto dai falchi, isolando il suo principale artefice ed eventualmente costringerlo a negoziare con Washington.

Tuttavia, gli errori gravi commessi dagli USA sia in Afghanistan sia in Iraq le cui guerre non hanno portato alla democratizzazione dei due paesi ma ad una settarizzazione del conflitto aprendo le “porte” ai pasdaran nel Siraq.

L’accordo sul nucleare in questo caso ha suscitato l’ira di Netanyahu siccome il JCPOA si traduceva in una legittimazione sul piano internazionale della Repubblica Islamica e di conseguenza del suo operato nella regione acuendone ancora di più il prestigio politico tra gli alleati come Hezbollah. Il leitmotiv di tale preoccupazione è il possibile avanzamento da parte delle milizie sciite nella regione di pretese politiche nei confronti di Israele e Arabia Saudita avvalendosi del ruolo politico riconosciuto all’Iran dall’accordo. Inoltre, per i falchi, il JCPOA riconosce pienamente all’Iran la facoltà di potenziare il proprio sistema missilistico, temutissimo dagli attori regionali specialmente se finisse in mano al regime di Assad o agli Huthi dello Yemen. Ecco perché il filone conservatrice ha spinto Trump ad uscire dal paventato accordo 5+1 senza prospettare nessuna possibilità per un nuovo negoziato almeno al momento.

Il problema è l’impasse creatosi negli ultimi mesi nella macchina burocratica americana dopo il ripristino delle sanzioni. Gli incidenti alle petroliere e all’abbattimento dei droni spia sopra lo stretto di Hormuz hanno fatto scattare una pericolosissima Trappola di Tucidide tra l’Iran e gli USA ( si legga anche Israele e Arabia Saudita) in cui l’onore, l’interesse e la paura rischiano di prevalere sulla diplomazia e, constatato il punto di non ritorno raggiunto, l’unica soluzione all’orizzonte sembrerebbe essere una “tempesta americana” pronta ad abbattersi sull’Iran, dalle conseguenze incalcolabili, con il rischio di trasformarsi in una Terza Guerra Mondiale ormai alle porte.

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