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NotizieL’informazione come arma strategica: la guerra di Putin nell’Infosfera

L’informazione come arma strategica: la guerra di Putin nell’Infosfera

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E se il mondo avesse ricominciato a girare intorno ad orbite più normali? In realtà non è così, siamo ancora in piena “caoslandia”, tuttavia, almeno a Mosca, sembrano ben decisi ad interpretare il proprio ruolo come se le lancette della storia fossero tornate indietro agli anni dell’URSS.

A sostenere tale impressione, concorre l’ampio dibattito intorno agli effetti della propaganda russa in occidente. Parole come guerra psicologica, ingerenza, dezinformatsiya e misure attive, ripescano nella memoria di quanti di noi sono nati nel XX Secolo, immagini pre 1989.

Fino al 1991, l’apparato sovietico demandato alla guerra psicologica vedeva una pluralità di attori in campo (KGB, GRU, Ministero degli Esteri, TASS, Novosti e Radio Mosca), tutti facenti vertice al Politbjuro che, con le sue direttive, approvava e indirizzava le operazioni di spionaggio, controspionaggio e ingerenza.

In seno al CC del PCUS, vi erano due dipartimenti, quello internazionale e quello dell’informazione internazionale. Il primo era responsabile dei fronti internazionali pro URSS, il secondo dirigeva invece gli organi ufficiali di comunicazione e propaganda. Entrambi attingevano al Servizio A del 1° Direttorato del KGB, una vera e propria fabbrica di falsi (documenti ben costruiti o originali artatamente alterati), da disseminare in occidente. Il KGB si occupava anche del reclutamento di quanti potevano agire in qualità di agenti d’influenza: giornalisti, politici, commentatori, opinion maker o professori universitari. Alcuni addirittura lo erano divenuti a loro insaputa.

Oggi l’impianto dei servizi russi è mutato, per volere di Putin esiste una pluralità di agenzie tra loro in competizione. Le funzioni ex KGB sono state suddivise tra FSB, che si occupa di “interno” e quindi di controspionaggio e SIGINT e SVR che si occupa di estero. Quest’ultimo, tradizionalmente suddiviso in direttorati, oltre allo spionaggio (Humint e Osint), ha anche il controllo tramite il  Direttorato A, sulla pianificazione delle “misure attive” e quindi sull’Information Warfare. Vi è infine il GRU (il servizio di intelligence militare), rimasto sostanzialmente integro nelle competenze di era sovietica.

DISINFORMAZIONE E MISINFORMAZIONE: LA STRATEGIA DI SPUTNIK SECONDO GLI ANALISTI ATLANTICI

Fra gli elementi più attivi della grancassa mediatica demandata alla propaganda, secondo diversi studi maturati in ambito “atlantico”, vi è il  portale Sputnik, mediafarm attiva in tutto il mondo e parte integrante di un network di portali gemelli in diverse lingue.

Il portale Sputnik è collegato all’agenzia di stampa Rossiya Segodnyaa, a sua volta controllata dal governo. La mission di Sputnik è quella d’influenzare l’opinione pubblica dei paesi cui si rivolge, supportando reputazione e  propaganda russa nel mondo. Sputnik si muove agilmente sul confine tra due parole, disinformazione e misinformazione, spesso troppo sbrigativamente ricondotte alla categoria delle fake-news.

A tale proposito, Oana Lungescu, portavoce della NATO, sulla medesima linea di similari dichiarazioni venute dall’intelligence USA e dal Ministero della Difesa britannico, ha dichiarato in un’intervista al programma radiofonico BBC Trending che Sputnik “[fa] parte della macchina di propaganda del Cremlino, che sta cercando di utilizzare le informazioni per esigenze politiche e militari […], non per convincere le persone, ma per confonderle, [e quindi] non per fornire un punto di vista alternativo, ma per dividere le opinioni pubbliche e in ultima analisi, minarne la capacità di capire cosa sta succedendo e quindi di prendere decisioni

Un report declassificato, diffuso nel gennaio del 2017 dal Director of National Intelligence (a capo della United States Intelligence Community), affermava che Sputnik (insieme a Russia Today), ha contribuito ad orientare l’opinione pubblica americana durante le ultime elezioni presidenziali, tramite una “campagna di influenza” orientata a passare il messaggio che il candidato Trump fosse “obiettivo di una copertura ingiusta da parte dei media tradizionali statunitensi, […] sottomessi all’ establishment politico [pro Clinton]”.

Ovviamente ambienti autorevoli dell’ambasciata russa a Londra, mediante una nota ufficiale dell’ufficio stampa, hanno reagito a tali accuse, affermando che le affermazioni in merito ad una “campagna di misinformazione russa orientata a minare l’Occidente rappresentano “un modo per evitare un dibattito aperto e ragionato sulle questioni sollevate nelle società britanniche e americane“.

Di disinformazione e misinformazione parla ampiamente Giorgio Bertolin, Project director dello studio Digital Hydra: Security Implications of False Information Online, commissionato dallo STRATCOM, il centro di eccellenza NATO per le comunicazioni, strategiche, non a caso istituito a Riga in Lettonia. Per misinformazione, neologismo in rapida diffusione, si intende tutta quell’informazione deliberatamente errata o di scarsa qualità e quindi suscettibile di una pluralità d’interpretazioni, diffusa e fatta circolare consapevolmente (o inconsapevolmente) in rete allo scopo di “inquinare” il dibattito in seno all’opinione pubblica delle democrazie occidentali.

La misinformazione funziona bene a tale scopo, poiché usa come volano i social media, e, soprattutto, perché ricorre in maniera spregiudicata al bias della conferma, ovvero “la tendenza della nostra mente a favorire tutto quello che sembra accordarsi con le nostre opinioni precedenti e che quindi suona familiare e giusto alle nostre orecchie” (Nickerson 1998).

INFORMATION WARFARE

Tutto ciò conferma che l’attuale strategia russa non è un banale revival di quella sovietica, la qualità raggiunta mette i servizi russi al vertice dell’Information Warfare che, come naturale evoluzione della dezinformatsiya, va intesa come una “partita” giocata, non più sul tradizionale playground fisico, ma nell’infosfera, neologismo coniato dal filosofo Luciano Floridi.

Tale spazio, secondo la definizione del “Glossario Intelligence” pubblicato sul sito www.sicurezzanazionale.gov.it, rappresenta un “nuovo dominio in cui, tra […] stati ed attori non statuali, si gioca un confronto che vede le informazioni costituire, ad un tempo, strumento di offesa ed obiettivo. In questo contesto, il termine indica le azioni intraprese al fine di acquisire superiorità nel dominio informativo […]”.

Questo nuovo dominio, che qualcuno chiama “quinto potere” si sovrappone, in parte, al cyber-spazio, rinnovata dimensione di una guerra ibrida che da secoli, progressivamente, si è giocata in terra, mare, cielo e spazio e che ora vede nell’etere digitale il nuovo terreno di competizione. Le armi di questa nuova guerra si chiamano troll, meme, bot e social post, e sono a tutti gli effetti armi di distruzione di massa, forse ancora più pericolose degli attacchi hacker, di cui largamente si parla (di queste settimane è la notizia delle accuse avanzate dal procuratore USA Mueller, che guida l’inchiesta sul Russiagate, contro 12 militari russi considerati parte del GRU e indicati come i soggetti attivi dietro il fantomatico hacker Guccifer 2.0).

Nell’era della Information Warfare, a tutti gli effetti una guerra ibrida e asimmetrica, le “operazioni psicologiche”, transitano attraverso il motore dei blog, dei social e dei siti come Sputnik, mentre la benzina è la paura (dell’immigrazione, dell’islamizzazione, della perdita dei posti di lavoro). A rafforzare il tutto vi è poi il “complotto”, ovvero ciò che più facilmente fa scattare il bias della conferma. Quest’ultimo, argomento marginale in una società ricca e in crescita, diviene argomento a forte penetrazione, almeno in certi segmenti, nella società figlia delle crisi del 2008 e del 2011.

Le strategie di disseminazione di tale narrativa possono essere mixed media (utilizzo coordinato di più social media), oppure cross-media (ovvero incentrate su un canale preciso, ad esempio Sputnik, motore primario della strategia comunicativa). In questo secondo caso i social hanno il compito di disseminare le informazioni che il canale primario diffonde.

Oggi, come scrive Mark Galeotti in un saggio pubblicato per lo European Council on Foreign Relations (Putin’s Hydra: inside the Russian intelligence services), il mindset delle agenzie di intelligence russe è quello tipico del tempo di guerra: “[…] l’enfasi sui metodi coercitivi, le operazioni attive, la possibilità di correre rischi e il rischio di incidenti internazionali, riflette una mentalità di guerra in tutte le agenzie [che], sembrano aver avvertito che la Russia si trovasse sotto una minaccia seria, persino esistenziale, che richiedeva risposte”.

LA GUERRA DEI TROLL

Un esempio di questo modo di giocare la partita lo abbiamo avuto con il caso di Jenna Abrams, una giovane donna americana con 70 mila follower su Twitter, attivista pro Trump sui social dal 2014 e artefice di quella che possiamo definire a tutti gli effetti una “guerra di troll”.

Nel gergo internet, un troll è “un soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso e/o del tutto errati, con il solo obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi” (Wikipedia),  esattamente ciò che ha fatto la Abrams durante la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca. Peccato che Jenna Abrams non sia mai esistita, l’account era riconducibile ad un profilo finto (insieme a molte altre migliaia poi chiusi da Twitter), sostenuto e amplificato da centinaia di bot che producevano like e commenti robotizzati. Dalle indagini effettuate, dietro il profilo finto, i tweet e i bot, c’era la cd “fabbrica dei Troll” di San Pietroburgo.

COLONIZZARE L’IMMAGINARIO

Uno studio della Rand Corporation del 2016, intitolato “The Russian Firehose of Falsehood  Propaganda Model”, riporta una frase illuminante del già citato Bertolin: “la rinnovata propaganda russa diverte, confonde e sovraccarica il pubblico di messaggi”. Confermando le parole del ricercatore italiano, lo studio Rand chiarisce in quattro punti le “caratteristiche distintive del modello per la propaganda russa”:

  1. Alto volume e multicanalità;
  2. Rapidità, continuità e ripetitività;
  3. Scarso e nessun interesse verso la realtà oggettiva o la veridicità;
  4. Scarso e nessun interesse verso la coerenza.

Concludendo, nella propaganda ad alto volume più che la credibilità del messaggio interessa la polarizzazione, intesa come acceleratore della colonizzazione dell’immaginario collettivo. L’obiettivo non è solo orientare, non sempre ciò è possibile, alle volte è più utile e conveniente il semplice “inquinare”. Inquinare il dibattito, esattamente come fa un troll, per impedire che l’opinione pubblica di un paese discuta razionalmente su un problema. È la tecnica usata nelle elezioni USA e, probabilmente, in occasione del referendum sulla Brexit o sulla Catalogna.

Inquinare per favorire e accelerare la disgregazione delle società occidentali, amplificando e allargando i punti di frattura già esistenti, per indebolire l’avversario. Nella nuova dottrina geopolitica russa non c’è più spazio per idee di dominio egemonico dell’Europa, ci si accontenta di una UE indebolita e divisa e quindi meno efficace nel contrasto delle azioni di riconquista dello spazio geopolitico russo, Georgia e Crimea ieri, il Donbas finiti i Mondiali, le repubbliche baltiche domani.

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