Uno degli obiettivi strategici a medio-lungo termine del “neo-ottomanesimo” di Erdogan è quello di fare della Turchia la potenza egemone del Mediterraneo orientale. L’apertura di basi militari in Sudan e Somalia è funzionale a rafforzare la presenza turca nel crocevia marittimo del Mar Rosso, in una zona massicciamente interessata dal passaggio delle rotte commerciali e petrolifere tra Europa ed Asia; la presenza militare turca in territorio siriano; il ruolo di punta che Ankara sta rivestendo nella crisi libica sia con il sostegno militare ad al-Sarraj che con la guida delle trattative tra i contendenti, per non parlare dell’accordo bilaterale con Tripoli sull’estensione delle rispettive ZEE nel Mediterraneo; questi sono tutti elementi che, se considerati come parte integrante di un unico puzzle geostrategico, fanno azzardare l’ipotesi che gli attuali sviluppi della guerra in Libia e la crisi politico-diplomatica nella ZEE cipriota siano collegate.
Dal punto di vista giuridico una ZEE è la zona marina di massima estensione di 200 miglia in cui lo Stato costiero esercita diritti sovrani sulla massa d’acqua per la gestione delle risorse naturali (principalmente di pesca) e per la protezione dell’ambiente marino. Il relativo regime, stabilito dall’Unclos, ha assunto anche un valore consuetudinario. Il limite esterno della ZEE, se non diversamente stabilito, coincide con quello della sottostante piattaforma continentale in cui lo stesso Stato ha il diritto di sfruttare le risorse minerarie quali idrocarburi, noduli polimetallici e terre rare.
Il 4 ottobre scorso la nave di perforazione “Yavuz”, scortata da naviglio della Marina Militare Turca, era entrata nelle acque del “Pozzo di Guzelyurt – 1” considerate da Cipro come parte integrante della propria ZEE, in cui Nicosia aveva concesso una licenza di esplorazione congiunta alla compagnia italiana ENI ed alla francese Total. A fronte delle proteste cipriote, il ministro per l’Energia di Ankara Fatih Donmez aveva dichiarato che l’obiettivo della “Yavuz” era quello di rendere disponibili le risorse energetiche al popolo turco, sottolineando come quelle acque fossero di pertinenza della non riconosciuta Repubblica Turca di Cipro Nord, cioè dell’unica ZEE turca fino a quel momento nota. I francesi per tutta risposta inviarono due fregate a Larnaca – ufficialmente per operazioni congiunte con la Marina cipriota – mentre l’UE sanzionò Ankara annunciando che le trivellazioni illegali turche avrebbero condizionato negativamente i negoziati sui nuovi insediamenti nell’isola.
Dal punto di vista politico i turchi avevano manifestato insofferenza per la concessione di licenze di sfruttamento esclusive da parte di Cipro. ENI e Total avevano ottenuto licenze per l’esplorazione di 7 dei 13 quadranti in cui è divisa la ZEE cipriota e tra le altre compagnie sono presenti in quelle acque anche le statunitensi Exxon Mobil e Noble Energy, l’israeliana Delek e l’olandese Shell. A febbraio 2019 la Turchia aveva provato a mostrare i muscoli inviando proprie navi militari a chiudere la rotta della nave di perforazione “Saipem 12000”, noleggiata da ENI, diretta verso il quadrante 7 con licenza di Nicosia. La crisi diplomatica innescatasi con l’Italia ha gettato nuova luce sull’annoso problema giuridico ma ancor prima politico della definizione chiara dei confini delle ZEE che, come spiegato approfonditamente da Fabio Caffio su “Analisi Difesa” (https://www.analisidifesa.it/2019/12/oltre-lintesa-turco-libica-il-problema-delle-zee-nel-mediterraneo/), è parte integrante di quelle norme di diritto internazionale variamente interpretabili in cui sono gli Stati nazionali e non le organizzazioni sovranazionali ad avere l’ultima parola.
A dicembre 2019 Erdogan ed al-Sarraj hanno firmato un memorandum sulle rispettive ZEE: dalla parte libica il tratto di mare considerato è quello compreso tra il confine egiziano e Derna (territori oggi controllati da Haftar) e da quella turca partendo dal tratto di mare alle spalle dell’isola greca di Castellorizo fino alla Penisola di Marmaris. Tali scelte mettono in evidenza da una parte la volontà turca di sfruttare il rispetto formale e sostanziale da parte di Atene della moratoria NATO del 1974 atta ad impedire ai greci di proclamare proprie ZEE oltre i limiti delle acque territoriali, dall’altra la decisione di Erdogan di giocarsi una partita delicata ma fondamentale a Cipro sul fronte energetico.
La nuova ZEE turco-libica spacca in due le rotte mediterranee e potrebbe creare, in caso di inasprimenti delle relazioni con l’UE o con altri Paesi impegnati in Libia o a Cipro, delle ritorsioni da parte di Ankara sulla posa dei gasdotti (questione gasdotto East Med).
Le scelte di Ankara hanno subito innescato la prima reazione: nei giorni scorsi infatti il governo greco, che fino a quel momento si era tenuto lontano dall’intervenire direttamente nella crisi libica, ha incontrato il generale Haftar e la possibilità che si sia parlato anche di stipulare un “contro-memorandum” tra Atene e Tobruk relativo alle rispettive ZEE è abbastanza concreta. Se infatti nel 1974 la questione relativa alla piattaforma continentale dell’Egeo fu il casus belli del conflitto greco-turco, oggi, con la rottura dello status quo, la Grecia potrebbe sentirsi autorizzata non solo ad estendere le proprie acque territoriali ma anche a proclamare una propria ZEE che, per limiti geografici, andrebbe a confliggere ed a sovrapporsi a quella turca del memorandum Erdogan-Sarraj.
L’intervento militare turco in Libia, modesto nella quantità ma politicamente fondamentale, ha evitato la sconfitta di Tripoli ed ha messo nelle mani di Erdogan un capitale che a tempo debito – non molto lontano – si potrà riscuotere: innanzitutto sulle casse di al-Sarraj grava un prestito da 2,7 miliardi di dollari provenienti da Ankara che sono serviti a continuare la guerra contro Haftar (nelle forze armate tripoline i regolari sono in netta minoranza rispetto ai miliziani, i quali sono fedeli a chi li paga e non a chi ne rappresenta le istanze politiche) e ad evitare rovesci politici; facendo un paragone storico pare che la Turchia abbia utilizzato la stessa strategia della Gran Bretagna e della Francia durante la crisi egiziana del 1875-1882: la Potenza estera che, tramite prestiti, controlla il debito di un Paese, di fatto controlla la politica di quel Paese.
Seguendo tale assioma nulla impedirebbe alla Turchia di “obbligare” la NOC – la compagnia petrolifera statale libica – a ridiscutere le attuali licenze d’esplorazione ed estrazione d’idrocarburi per terra e per mare a tutto vantaggio delle compagnie turche andando ad inficiare la presenza radicata di colossi come ENI e Total. L’estensione della ZEE libica, apparsa come l’azione di uno Stato sovrano ma nei fatti indotta dai turchi – che non a caso hanno allegato al memorandum sulla ZEE il trattato di cooperazione militare che ha poi costituito la base giuridica per il successivo intervento armato a sostegno di al-Sarraj – consentirebbe ad Ankara di estendere la propria “caccia alle licenze” anche ai giacimenti di gas, già scoperti o ancora da scoprire, ad acque che fino a questo momento sono rimaste o nell’orbita greca o in quella cipriota e dunque chiuse a qualunque disegno turco in merito.
La partita che si sta giocando in Libia è complessa anche perché legata a questioni stringenti di politica energetica che coinvolgono le principali Potenze regionali dell’area mediterranea con la Grecia ormai orientata in favore di Haftar e con Italia e Francia incapaci di pensare ad una strategia condivisa che punti a rintuzzare i progetti espansionistici turchi in Libia e nel Mediterraneo orientale