Annunciando l’imminente uscita dall’Afghanistan il Ministro d’Affari Esteri Luigi Di Maio ha respinto così le accuse di chi sostiene che si stia lasciando l’Afghanistan ai talebani: “Non smetteremo di aiutare il Paese”, ha assicurato, “i nostri progetti di cooperazione continueranno. Del resto al Qaeda è stata battuta. Osama bin Laden è morto.” ha detto il 16 Aprile. Poche settimane dopo, in una esplosione tremenda, sono state uccise più di 80 ragazze in una scuola a Kabul.
La scuola è stata presa di mira per intimidire le donne che volevano studiare, e le vittime erano delle minoranze Sciite e Hazara. Quest’anno il mese di Ramadan piuttosto che un mese di pace e preghiera è stato un mese di sangue. Con il cambio della geopolitica, il mondo di oggi diventa sempre più pericoloso per gli interessi Italiani. Non siamo immuni all’effetto farfalla, specialmente da quando Aprile è cominciato con l’imminente ritiro, “sconfitta” degli occidentali, dall’Afghanistan. Ora ogni gruppo estremista Islamico crede che se i Talebani sono riusciti a cacciare USA e NATO dall’Afghanistan anche loro potrebbero farlo. L’assassinio di Idris Deby, President del Ciad, fa crescere il pericolo anche in Libia. Deby manteneva la complessa pace in una zona assalita da Boko Haram e dava la caccia all’ISIL. I suoi assassini, FACT (Front for Change and Concord in Chad) operano dalla Libia, sono laici, ma la morte di Deby, presidente per 31 anni del paese povero sub-sahariano, mette in pericolo la sicurezza libica e aumenta la zona di rischio in quel triangolo di Ciad, Mali, Niger e Nigeria, dando più spazio ai Boko Haram, ISIL e altri gruppi estremisti, aumentando il loro potere. Il Ciad ultimamente era diventato un pezzo fondamentale in una scacchiere dove si giocava la rivalità tra Egitto e Turchia, e Deby è stato un forte alleato degli Emirati Arabi Uniti e Israele. Ora che il figlio di Deby è il capo dello Stato in transizione si teme che in mano turca, dopo due golpi in Mali il primo appoggiato dai MIT (servizi turchi) e aziende di sicurezza private affiliate direttamente a Erdogan, il Ciad possa diventare il prossimo fronte per il controllo libico.
C’è poi la crescita di Turchia sia nel Mediterraneo sia nel Levante che dovrebbe far preoccupare l’Italia. L’Italia è stata marginalizzata dalla Turchia in tutte le sue ex colonie, dalla Somalia alla Libia. Sono stati i servizi turchi a mettere in sicurezza persino l’ambasciata italiana a Tripoli, a trovare la cooperante Silvia Romano e altri due connazionali rapiti in Mali. La Turchia, con la sua alleanza con Qatar, Pakistan, Iran e l’appoggio Cinese mira a prendere la guida della Umma, la comunità islamica mondiale, dall’Arabia Saudita. Persegue il suo piano anche come principale voce contro Israele nella riunione dell’Organizzazione dei Paesi Islamici, appoggiando l’Hamas. La suo posizione nella NATO rende Erdogan quasi intoccabile da Stati Uniti e alleati occidentali e, con il controllo della marina libica, Erdogan controlla i flussi migratori in Europa, essenzialmente controllando il destino dei governi democratici europei. Conscio di ciò, con arroganza Erdogan ha offeso la Von der Leyen durante la sua visita a Ankara e ora attendiamo la sua risposta per le parole critiche del Presidente Draghi, che ha difeso la Von der Leyen e i valori europee, e ha chiamato Erdogan un dittatore.
Lo scenario della sicurezza post-COVID
La pandemia ha anche frenato immigrazione clandestina e atti di terrorismo. I vari lockdown, l’aumento di controlli, la presenza di forze d’ordine sul territorio e la crisi economica avevano frenato gli arrivi dei barconi dalla Libia e dalla costa africana. Ora che l’Europa inizia vaccinarsi e inizia una ripresa, però, la crisi migratoria rischia ad aumentare. Da un lato ci sono problemi socio-economici. Secondo l’AISE ci sono 70.000 migranti pronti a partire dalle coste libiche e altri 200-300.000 stranieri in Libia in questo momento. Se prima erano gli scafisti a controllare il business, ora si rischia che i migranti diventino arma di ricatto di Erdogan per destabilizzare l’Italia e la UE. Più tempo passa, più le terre della “rotta migratoria” finiscono per essere destabilizzate, in mani a gruppi islamisti e signori della guerra che controllano le rotte, finanziate da turchia e altri poteri. Con la morte di Deby e l’instabilità del Ciad, è ora che l’UE agisca come un gruppo geopolitico unito e crei un piano d’azione, cosa a cui, per gli ultimi 10 anni, si è opposta la Merkel.
La vecchia-nuova ipotesi.
La Libia, come la maggior parte dei paesi africani, è divisa in tribù, e questi rapporti di sangue e matrimonio in Africa sono ben più forti dell’identità nazionale. La capacità del Col. Gheddaffi era proprio di essere in sintonia con le tribù e viceversa, e questo gli ha permesso di regnare proficuamente. Se non fosse stato per la mano USA-Francese, Gheddaffi probabilmente avrebbe comandato ancora. La questione Libica ha bisogno di un nuovo approccio, forse non molto appetibile ai leader europei: prima che l’intera zona vada fuori controllo e debba inchinarsi al sultano di Ankara per protezione, l’UE deve concordarsi per un piano. La prima parte è il problema migratorio. L’aiutare o meno i migranti che rischiano la pelle per attraversare il mare in cerca di “una vita migliore” ha spaccato l’Europa. L’idea di persone che fuggono dalla fame, dalla guerra o da quel che sia, dovendo rischiare la pelle per poi avere forse un permesso di soggiorno e un lavoro pagato quasi niente, è contrario ai valori europei. Devono cessare tutti i meccanismi di divisione e l’Europa deve agire in unità, imponendo un blocco navale nel Mediterraneo e creando una zona tampone. Sul territorio libico, sotto l’ombrello dell’ONU UNHCR o di una nuova agenzia europea unita (EUAfR: European Union Agency for Refugees) creare diversi punti di accoglimento per migranti, protetti da soldati Europei. In questi campi profughi gli immigrati sarebbero trattati dignitosamente, smistati, chi è avente diritto di asilo andrebbe messo in una sistema di lotteria europea e assegnato ad un paese che gli dia asilo, mentre agli altri andrebbe data la possibilità di un rimpatrio volontario o di consegna alle autorità libiche. Le ONG che oggi operano in mare per soccorre i migranti potrebbero usare le loro risorse e personale per assistenza e accoglienza in questi campi. Gli scafisti che oggi sono pagati ufficiosamente per gestire i lager, saranno comunque pagati per consegnare i migranti a questi campi, chiudendo i lager a tutti gli effetti. Con queste misure, tanto la migrazione dai lontani paesi asiatici tanto quanto quella africana si fermerebbero, specialmente da paesi dove non c’è conflitto e quindi la necessità di asilo non sussiste. La zona tampone navale aumenterà la sicurezza contro la Turchia nel mediterraneo, e le flotte dell’UE darebbero sicurezza ai nostri pescarecci e provvederebbero a una supervisione della guardia costiera libica.
L’Europa deve ora agire e deve agire anche con la sua spada, non come la NATO, che non vuole sbilanciarsi. Questo è l’unico modo di assicurare protezione contro terrorismo e migrazione di massa, creando un’infrastruttura che protegga i deboli senza che anneghino o muoiano torturati.
Il prezzo politico
La seconda parte nella strategia libica è trovare consenso nella struttura tribale del paese per un governo e un leader. E’ importante, quanto per i poteri occidentali inaccettabile, il coinvolgimento di Saif Al-Islam Gheddafi, figlio e erede del Colonello. Dopo una decade, la Libia si trova ancora in conflitto, ed è diventata una scacchiera di confronto per vari poteri internazionali, dai jihadisti all’ISIL, e solo qualcuno con un richiamo generazionale può colmare il vuoto di potere. Il ruolo di Saif Al Islam, con Haftar, può essere la chiave per trovare una soluzione interna per un governo d’unità nazionale, e anche se i poteri occidentali hanno una forte allergia alla famiglia Geddafi, il loro ruolo, specialmente della figlia Aysha e di Saif Al-Islam, può essere decisivo per unire il tessuto sociale libico e tener fuori i poteri esterni alla Libia.
Se l’Occidente non vuole rimanere ostaggio del sultano, l’UE deve organizzarsi per portare stabilità alla zona Libia-Ciad-Mali che rischia di portare tutta l’Africa subsahariana in una spirale che vede l’asse Turchia-Iran con i proxy iraniani di Hezbollah consolidare il loro potere tra le macerie del già fragile ecosistema. Allo stesso tempo, il ruolo di Erdogan conferma l’ambizione turca di sfruttare la crisi regionale per riuscire ad impossessarsi della leadership dell’Islam sunnita. Quest’ultimo aspetto è il più strategico, con le conseguenze più ampie. Se Erdogan invoca la “punizione di Israele” e chiama in sei giorni oltre venti capi di Stato – incluso il russo Vladimir Putin – per trasformare il sostegno ad Hamas in una vera e propria coalizione è perché ambisce a cogliere l’occasione per strappare ai Sauditi e a Mohamed bin Salman – ed ai suoi alleati emirati – la leadership dell’Islam sunnita. Già protagonista degli interventi militari nel Nord della Siria e in Libia, Erdogan è ormai ovunque il paladino del movimento dei Fratelli musulmani, nemico giurato delle monarchie del Golfo (ad eccezione del Qatar) e scommette su questa sfida per riassegnare alla Turchia una zona di influenza neo-ottomana. Ora si nomina protettore dell’Afghanistan e ospita il vertice tra il governo Afghano, i talebani, USA, Cina, Pakistan, India e Iran in Istanbul per trovare un accordo.
Da qui la sfida aperta di Erdogan agli Accordi di Abramo – siglati nel 2020 da Israele con Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco grazie alla mediazione americana – e anche la scelta di Abu Dhabi di condannare senza mezzi termini gli attacchi di Hamas. Se a questo aggiungiamo che il movimento islamico del Nord – molto presente fra gli arabo-israeliani in Galilea – non nasconde i legami con i Fratelli musulmani e le simpatie per Erdogan, non è difficile arrivare alla conclusione che la crisi israelo-palestinese è diventata una pedina dell’ambizione turca alla leadership fra i sunniti, cioè su tutta la sponda Sud del Mediterraneo.