Dopo il terribile terremoto dell’8 ottobre 2005, la NATO ha avviato la Pakistan earthquake relief operation, adoperandosi per la distribuzione di 3500 tonnellate di materiale di prima necessità e dispiegando, accanto alla componente militare, ingegneri, medici ed esperti a supporto delle istituzioni pachistane duramente colpite dal sisma. Le ingenti perdite in termini di vite umane – si stima che la scossa di terremoto abbia ucciso 80.000 civili – e le condizioni di indigenza in cui versava la popolazione pachistana, hanno portato l’Alleanza Atlantica a pianificare una missione di peacekeeping in cui l’aspetto umanitario è stato di fondamentale importanza.
Il meccanismo di assistenza NATO
L’11 ottobre 2005, a seguito della richiesta di assistenza da parte delle autorità pachistane, il Consiglio Atlantico ha autorizzato un’operazione aerea per la distribuzione di beni di prima necessità. Già il 13 ottobre, era stata garantita la distribuzione delle prime tonnellate di aiuti e successivamente, il 19 ottobre, attraverso l’apertura di un ponte aereo dalla città turca di Incirlik, la NATO aveva provveduto a fornire tende, coperte e stufe donate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). In un secondo momento, il 21 ottobre, facendo seguito alle ulteriori richieste di assistenza da parte del Pakistan, la NATO ha provveduto a dispiegare personale medico e ingegneristico proveniente dalla NATO Response Force (NRF) – forza multinazionale tecnologicamente avanzata che l’Alleanza può dispiegare rapidamente ovunque sia necessario – e, il 24 ottobre, al fine di garantire una maggiore sinergia operativa con le autorità pachistane, è stato stabilito un Quartier Generale dell’Alleanza nel Paese. Le prime truppe NATO, dispiegate il 29 ottobre, hanno supportato l’Esercito pachistano nella costruzione di un ospedale dotato di 60 posti letto e fornito la strumentazione necessaria per complesse operazioni chirurgiche. Inoltre, la disponibilità di elicotteri e di una base aerea per il rifornimento dei velivoli ad Abbottabadha permesso di fornire assistenza alla popolazione nelle zone impervie del Paese e di rifornire aerei civili e militari, essenziali nell’opera di assistenza.
Ulteriori sforzi sono stati profusi dal Consiglio Atlantico a seguito delle richieste del ministro degli Esteri pachistano Tariq Osman Hyder che, intervenendo ad un meeting del Consiglio di partenariato euro-atlantico presso la sede dell’Alleanza a Bruxelles, ha auspicato un’ulteriore cooperazione da parte dell’Alleanza nella fornitura di trasporti aerei, fondi, serbatoi di carburante mobili, pezzi di ricambio per elicotteri e aerei tattici, tende e sacchi a pelo. Lo stesso giorno, l’Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC) della NATO ha ricevuto dall’UNHCR una richiesta urgente per il trasporto in Pakistan di ulteriori alloggi e soccorsi immagazzinati in Turchia prima dell’inizio dell’inverno. L’EADRCC si configura quale principale meccanismo di risposta NATO alle emergenze ed è operativo tutto l’anno. Il Centro, che coinvolge tutti i paesi partner, funziona come un sistema di clearing-house per coordinare sia le richieste che le offerte di assistenza in caso di calamità naturali. Per fronteggiare la situazione di crisi in Pakistan, attraverso l’istituzione di un ponte aereo dalla Turchia e dalla Germania per il trasporto di beni di prima necessità in Pakistan, l’Alleanza ha messo a disposizione delle autorità locali un team di esperti per la riparazione di strade, la costruzione di rifugi, scuole e strutture mediche. La missione di soccorso della NATO si è poi conclusa il 1° febbraio 2006 a seguito del ritiro del personale impegnato nella zona di Bagh, duramente colpita dal terremoto.
Il quartier generale della NATO in Pakistan, composto dal personale del NATO Joint Force Command (JFC) di Lisbona e da personale del NATO Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE), coordinava due unità di ingegneri nel distretto di Bagh, un’unità di ingegneri italiani con attrezzature da costruzione pesanti, un’unità di ingegneri britannici specializzati in lavori di soccorso ad alta quota, una squadra multi-nazionale di medici attivi nell’ospedale da campo della NATO e squadre mediche mobili dispiegate nella zona di Bagh sotto il comando dall’esercito olandese. Dal punto di vista operativo, la componente terrestre della missione ha visto la guida della compagine spagnola dislocata presso la sede di Arja, mentre quella aerea era predisposta dal Comando francese e ha visto impegnati elicotteri tedeschi e lussemburghesi. Alla data della chiusura della missione avevano prestato servizio in Pakistan circa 1.000 ingegneri e più di 2000 unità composte da personale medico.
Un nuovo modello di peacekeeping
La missione di assistenza NATO in Pakistan rientra a tutti gli effetti nell’ampia categoria delle peace support operations (PSOs) con cui l’Alleanza indica quelle operazioni multinazionali, caratterizzate dal presupposto dell’imparzialità dell’intervento, a supporto della pace e della stabilità internazionale. La nozione di PSOs è piuttosto generale e tiene conto sia delle operazioni prettamente militari, sia di quelle che vedono una più ampia partecipazione civile perché caratterizzate da un preponderante impegno umanitario. La Pakistan earthquake relief operation, strategicamente pensata per fornire assistenza alla popolazione civile, è facilmente identificabile secondo quest’ultima caratterizzazione. È interessante notare come, se da un lato la catalogazione delle operazioni in ambito NATO non comporti differenziazioni così nette in ambito Nazioni Unite, l’ampio e sempre attuale dibattito internazionale circa il peacekeeping focalizzi l’attenzione sul processo di evoluzione degli interventi a favore della pace; tale distinzione concerne non soltanto il periodo storico in cui i dispiegamenti sono stati autorizzati ma anche i compiti assunti dal personale impiegato.
Le cosiddette “tre generazioni del peacekeeping”, basandosi sull’evoluzione della tipologia di intervento, prendono in esame operazioni di prima generazione – “peacekeeping puro” – istituite, grossomodo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni ’90, e caratterizzate dai “tre pilastri” delle operazioni di pace: il consenso dello Stato beneficiario dell’intervento, imparzialità e limitato uso della forza nel solo caso di legittima difesa e nella difesa del mandato. Tali operazioni, dal punto di vista dottrinale, troverebbero la loro base legale nella consuetudine formatasi all’interno della Carta delle Nazioni Unite, non esistendo una norma ad hoc che disciplini le operazioni di pace. L’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld aveva, in relazione a tali dispiegamenti, auspicato forti limiti all’uso della forza, escludendo il ricorso alle norme del capitolo VII e prevedendo l’uso della forza solo in legittima difesa.
Con la fine della Guerra Fredda, si è assistito al sorgere delle operazioni di pace ispirate al documento “An Agenda for Peace”pubblicato nel 1992 dall’allora Segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali che, in maniera lungimirante, evidenziava la necessità di un ripensamento globale del ruolo delle Nazioni Unite e delle missioni da esse istituite alla luce del cambiamento dello scenario globale. Le operazioni di seconda generazione, definite anche di peacemaking e/o peacebuilding, soddisfano queste nuove esigenze dando maggiore rilievo alla componente civile, alla collaborazione con le forze appartenenti ad organizzazioni regionali, all’amministrazione del territorio, al monitoraggio elettorale, all’assistenza umanitaria, alla ricostruzione economica e finanziaria, nonché alla protezione dei diritti umani. Tali operazioni sono caratterizzate da mandati molto ampi che trascendono le prerogative esclusivamente militari in favore di funzioni di natura sociale che richiedono una sostanziosa presenza civile. Chiaro è il riferimento al dispiegamento di cui si tratta in queste pagine, caratterizzato da prerogative di assistenza e supporto che ben si differenziano da quelle, caratterizzanti le operazioni più recenti, “di terza generazione”, autorizzate ex capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e inclini all’autorizzazione di un più ampio uso della forza non solo per la legittima difesa degli operatori ma anche per attività di enforcement atte a prevenire la recrudescenza della violenza conflittuale. Caso emblematico è la ben nota United Nations Protection Force (UNPROFOR) nell’ex Jugoslavia, in cui le forze ONU erano autorizzate all’uso dello strumento militare, inter alia, per garantire la distribuzione degli aiuti umanitari e per prevenire attacchi contro le safe areas.
Stefano Lioy,
Geopolitica.info