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TematicheAmerica LatinaLenín Moreno tra proteste e disillusione

Lenín Moreno tra proteste e disillusione

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Dopo le misure di austerità lanciate dal governo ecuadoriano per fronteggiare la crisi generata dall’emergenza sanitaria, nel Paese sudamericano sono montate nuove proteste. Le contestazioni, in continuità con quelle dello scorso ottobre, criticano le scelte economiche e mettono in discussione la figura del Presidente Moreno, sempre più distante dal suo predecessore.

A un anno dalle nuove elezioni presidenziali, l’Ecuador sta fronteggiando una situazione estremamente complicata dal punto di vista sanitario, politico e sociale. La pandemia, che ha colpito in modo particolarmente forte il Paese sudamericano, ha causato, e continuerà a causare in futuro, diverse difficoltà all’economia ecuadoriana. Infatti, stando a quanto riportato dalla Banca Mondiale nel suo rapporto semestrale “L’economia ai tempi del Covid-19”, l’Ecuador nel 2020 subirà una perdita del 6% del PIL.

Come annunciato in un discorso alla nazione dal Presidente Lenín Moreno, l’emergenza sanitaria ha già causato la perdita di 150 mila posti di lavoro e di 12 miliardi di dollari per le casse pubbliche. Per evitare il collasso dell’economia nazionale, il governo ha così deciso di introdurre delle misure economiche stringenti. Tra le misure adottate rientrano un taglio di 4 miliardi di dollari alla spesa pubblica, tra cui 98 milioni all’università, la riduzione dell’orario di lavoro e del relativo stipendio ai dipendenti pubblici e le liquidazioni di alcune imprese statali. A ciò deve aggiungersi la decisone governativa di liberalizzare, per la seconda volta in sette mesi, il prezzo dei carburanti, eliminando i sussidi statali in grado di rendere stabili i prezzi; tale scelta ad ottobre aveva generato delle violente proteste, sedate solamente con la decisone di revocare il decreto con il quale veniva cancellato il contributo statale.

Anche in questo caso le proteste non si sono fatte attendere e, nonostante la pandemia in atto, lavoratori, studenti e indigeni si sono riversati in strada per esprimere il proprio dissenso. In più di qualche occasione, come riportato dai media nazionali, ci sono stati momenti di tensione e le forze di polizia sono ricorse all’uso di gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti.

Il solco sociale e politico che è emerso in Ecuador negli ultimi sette mesi sembra ormai insanabile. Il Presidente Lenín Moreno, a tre anni dall’inizio del suo mandato, ha perso il consenso che lo aveva portato alla vittoria; il gradimento nei suoi confronti al mese di maggio è del 18,7%, in rialzo rispetto all’8% ottenuto nell’ottobre del 2019, ma ben lontano dal 77% che lo aveva caratterizzato durante il suo primo anno di presidenza. La discontinuità rispetto ai dieci anni del suo predecessore Rafael Correa, che ha supportato come Vice Presidente dal 2007-2013, è sempre più evidente. I due politici, nonostante siano stati eletti entrambi per il partito Alianza Pais, hanno attuato politiche economiche diametralmente opposte, di stampo socialista quelle di Correa e neoliberiste quelle di Moreno. La contrapposizione politica è diventata una vera e propria rivalità tanto che l’attuale Presidente ha spiegato come le difficoltà del suo Paese siano legate a “10 anni di sprechi e corruzione e a debiti che ammontano a 60 miliardi di dollari”.

Ad acuire ancor di più la contrapposizione tra le due figure politiche e ad allontanare il sogno socialista di Correa ha contribuito la politica estera del Paese degli ultimi tre anni. A livello regionale, il Presidente Moreno ha infatti deciso di rompere la decennale alleanza con il governo venezuelano; in tal senso vanno lette l’uscita nel 2018 dall’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América), progetto di cooperazione politico e economico di matrice socialista promosso da Cuba e Venezuela nel 2004, e il ritiro dello scorso anno dall’UNASUR (Unión de Naciones Suramericanas), organizzazione regionale sorta su iniziativa di Hugo Chavez e Luiz Inácio Lula da Silva. In tutta risposta, però, l’Ecuador ha deciso di allinearsi in modo netto, aderendo al PROSUR (Foro para el Progreso y Desarrollo de América del Sur), nuova organizzazione sudamericana, contrapposta all’UNASUR e guidata da Sebastián Piñera, Presidente neoliberista del Cile.

La svolta definitiva dello spostamento dell’Ecuador nello scacchiere internazionale è avvenuta, però, lo scorso febbraio quando, per la prima volta dopo diciassette anni, un Presidente ecuadoriano è tornato a fare visita al Presidente degli Stati Uniti d’America. Il meeting, legato prevalentemente a questioni commerciali, ha messo definitivamente fine agli attriti degli ultimi dieci anni tra i due Paesi; nel 2011, momento di massima tensione, il Presidente Correa aveva deciso di espellere l’ambasciatore americano Heather Hodges, ritenuta colpevole di aver divulgato un documento riguardo a un possibile caso di corruzione nella polizia nazionale.

Simbolo del cambio di orientamento ecuadoriano è stato inoltre la gestione del caso Assange. Rafael Correa, nel 2012, aveva concesso asilo politico al fondatore di Wikileaks presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra. Questa scelta aveva creato un caso diplomatico con Washington che lo aveva accusato di spionaggio e per lungo tempo ne ha richiesto l’estradizione. La situazione è cambiata però nel 2019, quando il Presidente Lenín Moreno ha espulso Assange dall’ambasciata, lasciando che fosse arrestato dalle autorità britanniche. Tale decisione ha ricevuto la durissima critica dell’ex Presidente ecuadoriano che ha definito il gesto come “un crimine che l’umanità non dimenticherà mai” e il suo successore come “il più grande traditore nella storia ecuadoriana e latinoamericana”.

Con molta probabilità l’Ecuador dal 2021 non avrà alla sua guida queste due figure che, per quasi quindici anni, ne hanno caratterizzato la vita politica. Infatti, la candidatura di Lenín Moreno alle prossime elezioni presidenziali è ancora in dubbio. Il caso di Correa è di gran lunga più spinoso; l’ex leader ecuadoriano è stato condannato a otto anni di reclusione per corruzione e, se la sentenza verrà confermata nell’ultimo grado di giudizio, non potrà ricoprire alcun incarico pubblico all’interno del Paese per 25 anni, venendo di fatto estromesso dalle presidenziali. Ciò che è certo è che in un anno molte questioni dovranno essere risolte, sia all’interno del campo progressista che nel Paese.

Stefano Di Gianbattista,

Geopolitica.ifo

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