Ci sono volute più di 1200 pagine per regolare un divorzio sancito il 23 giugno 2016 quando il 52% dei britannici stabilì che la permanenza di Londra all’interno dell’Unione Europea era da ritenersi conclusa.
Dopo più di quattro anni caratterizzati da estenuanti trattative l’accordo sottoscritto alla Vigilia di Natale dai negoziatori Michel Barnier, per conto di Bruxelles, e David Frost, per conto di Londra, è una buona notizia per tutti. Una notizia che necessita di una breve analisi sia storica che politica. Iniziamo dalla prima.
Va innanzitutto considerato, per i pochi che non lo ricordano, che il rapporto tra Bruxelles e Londra è sempre stato estremamente dibattuto e controverso a tal punto che l’adesione del Regno Unito all’Unione Europea, avvenuta il 1 gennaio 1973, è stata sottoposto nel passato già a due diversi referendum. Uno in Francia e uno nel Regno Unito.
Il primo venne paradossalmente indetto dal Presidente Francese Pompidou che, in netta discontinuità con il predecessore De Gaulle, auspicava l’ingresso britannico all’interno della CEE formalizzato da Londra già nel 1961. L’esito favorevole, indicato dai francesi, consentì che i negoziati si concretizzassero portando Londra a far parte della Comunità Economica Europea.
Tuttavia, nel 1975, il Governo Laburista inglese da poco insediatosi, decise di promuovere un quesito referendario per chiedere ai cittadini l’opportunità di rimanere all’interno della comunità. Un quesito in cui il SI vinse con una larga maggioranza confermando la linea europeista sia della classe dirigente britannica che di tutta la popolazione.
Dopo anni di luna di miele il rapporto iniziò a scricchiolare nei primi anni ‘90 quando Margaret Thatcher, premier conservatore britannico dal 1979, si oppose fortemente all’idea di trasformare la Comunità Economica Europea in un progetto di tipo politico. Oltre a ciò la leader inglese si espresse con una forte contrarietà all’idea di adottare una moneta unica che avrebbe significato, di fatto, una cessione di sovranità, a suo parere inaccettabile.
Negli anni a seguire le cose non mutarono particolarmente e di fatto si concretizzò uno status quo in cui Londra accettava l’adesione all’Unione Europea più per poter beneficiare dei vantaggi economici che per condividere progetti politici i quali avrebbero significato ulteriore cessione di sovranità. Ecco spiegato il perché del no alla moneta unica.
Il resto è storia recente che inizia con l’infelice promessa di David Cameron di indire un nuovo Referendum che portasse al centro del dibattito politico nazionale il rapporto con Bruxelles. Tuttavia il risultato inaspettato, 15 partiti inglesi su 18 si schierarono per il Remain, portò alle inevitabili dimissioni dello stesso Cameron prima e quelle della May poi, incapaci di gestire la fase transitoria del divorzio. Un divorzio ora concretizzato dal celebre Boris Johnson che in queste ore appare più euforico che mai.
Dal punto di vista politico, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è uno di quei avvenimenti storici ancora impossibili da decifrare. Nei secoli scorsi Londra ha dominato il mondo in lungo ed in largo. Il suo ruolo imperiale non è mai stato in discussione nonostante qualche difficoltà venne già palesata durante la seconda guerra mondiale.
Ciò nonostante fu con la Crisi di Suez nel 1956 che per la prima volta il Regno Unito mostrò al mondo intero di non essere più il paese egemone della geopolitica mondiale. A distanza di più di 60 anni il quadro per Londra non può che essere peggiorato ed una decisone così radicale potrebbe avere conseguenze pericolose per il futuro del paese.
Non solo. Ci sono già oggi, ed in futuro lo saranno sempre di più, sfide internazionali a cui sarà difficile partecipare in “solitudine”. Il tema ambientale, giusto per citarne uno, è uno di quegli argomenti che necessiterà un approccio multilaterale e che necessariamente deve essere affrontato con il dialogo tra più paesi.
Questo vale ovviamente anche per sfide quali la sicurezza internazionale, il contrasto al terrorismo di matrice islamica o le emergenze sanitarie come la recente pandemia. Ad esse bisogna infine aggiungere il contenimento della Cina che, secondo alcuni dati, entro 5 anni potrebbe essere la prima potenza mondiale con ambizioni espansionistiche non di certo secondarie.
Ecco perché la Brexit potrebbe essere un passo falso per Londra, a cui va però dato atto di aver sollevato il problematico tema del futuro dell’Europa. L’accordo firmato nelle scorse ore è stato definito giustamente come una “Soft Brexit”. È chiaro a tutti infatti che non vi sarà un radicale cambiamento nel rapporto tra l’Unione Europea ed il Regno Unito proprio perché entrambi sono ben consapevoli di essere necessari gli uni agli altri.
I dati economici dimostrano che per molti paesi comunitari, specie per l’Italia, l’export per il regno della Regina Elisabetta è di vitale importanza. Ecco quindi, giusto per fare un esempio, che all’interno dell’accordo è stabilito che non ci saranno né dazi né quote per il libero commercio. Segno inequivocabile di come la volontà sia quella di mantenere un solido legame di tipo commerciale ed economico mettendo, nuovamente, in discussione la finalità politica dell’Unione.
Perché il punto vero è sempre il medesimo e cioè l’assenza di integrazione tra i progetti politici dei singoli stati ed il progetto comunitario di Bruxelles. Londra, forse sbagliando, ha deciso di mettere a nudo le fragilità europee sbattendo la porta in nome di un passato glorioso che forse mai tornerà.
Tuttavia è un dato di fatto che i problemi a Bruxelles oggi sono ancora molteplici ma non è di certo mettendo alla gogna chi questo problemi li manifesta che si potranno risolvere. Serve un nuovo approccio nei confronti di chi non sempre è allineato alle istanze comunitarie. Se non ci sarà lo spazio per il confronto il rischio di una nuova Brexit sarà dietro l’angolo.