Secondo l’organizzazione internazionale Amnesty International, i morti nelle proteste degli ultimi giorni in Iran potrebbero essere più di 100. Un dato approssimativo che si basa su una serie di video e di testimonianze raccolte da attivisti sul posto. Ma c’è di più: il governo di Teheran, per evitare la diffusione delle notizie in merito alle proteste popolari, è riuscito nell’operazione, per nulla facile, di eliminare internet dal territorio nazionale. In un paese di 80 milioni di abitanti togliere la connessione ad ogni singolo soggetto non è di certo cosa da poco ma pare che ad oggi il 95% degli iraniani sia isolato dal resto del mondo, con la conseguenza che quello che sta avvenendo in buona parte del Paese sia un tabù per quasi tutti.
Le proteste sono scoppiate nei giorni scorsi a causa di un improvviso aumento del costo della benzina: dalla scorsa settimana infatti, ciascun iraniano può comprare fino a 60 litri di benzina al mese per circa 40 centesimi di euro al litro, mentre ogni litro in più costa 80 centesimi. Prima dei disordini invece i primi 250 litri acquistati in un mese costavano circa 0,25 euro l’uno, il che sta a significare un aumento del 60%. A qualche giorno di distanza la situazione pare non migliorare e le autorità, non particolarmente tenere da quelle parti, hanno promesso l’impiccagione per coloro che fomenteranno le proteste sul territorio.
Ieri il Presidente Rohani ha dichiarato che il paese supererà con facilità anche questa prova, puntando il dito contro l’Occidente ed in particolare contro gli USA, colpevoli di applicare delle sanzioni economiche incapaci, a suo dire, di far crescere il proprio paese.
A qualche migliaio di chilometri nella megalopoli di Hong Kong continuano le proteste studentesche. Dopo 5 mesi di disordini la situazione non pare essere mutata e il leader supremo, Xi Jinping, ha dichiarato con tono perentorio che “Chiunque tenti di dividere la Cina in qualsiasi sua parte sarà ridotto in polvere e finirà con le ossa spezzate”. Parole di estrema durezza che sottolineano come per Pechino la situazione sia una potenziale bomba ad orologeria: la Cina infatti, con il suo 1,4 miliardi di persone, non può permettersi alcuna forma di protesta interna poiché un effetto a catena destabilizzerebbe concretamente e forse irrimediabilmente il rigido sistema politico che ha permesso negli ultimi anni una crescita economica mai vista prima.
Per il governo cinese non sarà facile superare lo scoglio elettorale del prossimo 24 novembre: ad Hong Kong infatti si voterà per il rinnovo dei 452 membri del consiglio distrettuale ed il diffuso sentimento anti cinese che serpeggia nelle strade, qualora dovesse essere “autenticato” dalle urne, potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Ecco perché, con la prevedibile scusa delle proteste di piazza, il governo centrale sta valutando l’ipotesi di un rinvio elettorale.
Cosa accumuna queste due forme di protesta? Non molto per la verità: in Iran si manifesta per motivi sociali ed economici a causa di una situazione sociale assai difficile mentre ad Hong Kong si scende in strada per poter mantenere quei diritti che la storia britannica ha sempre garantito agli ex sudditi di sua maestà. Ciò che però unisce le due proteste è la totale indifferenza del mondo occidentale, specie dell’Europa.
L’Iran, su cui Germania e Francia molto avevano scommesso, è un terreno minato e pare che la sorte di chi verrà impiccato per protesta non sia di primaria importanza mentre la paura di ripercussioni economiche abbia invece convinto ogni governo del vecchio continente a non dire alcunché su quanto sta avvenendo nel paese asiatico. Va detto invece che il tanto odiato Trump è stato l’unico a prendere una posizione netta in entrambi i casi: certo è immaginabile che l’inquilino della Casa Bianca lo faccia più per interesse geopolitico americano che per una sua sensibilità sociale, ma ciò non toglie che l’Europa latita ancora. Come sempre, da troppo tempo.