Silvia Romano è stata finalmente liberata, dopo essere stata catturata in Kenya nel novembre del 2018 dalle milizie di al-Shabaab. Dalle voci che circolano da ieri, pare che per il riscatto sia stata pagata una somma di circa 1,5 milioni (e non di 4 milioni, come sottolinea Edoardo Rizzo su La Stampa di oggi), scatenando polemiche e dibattiti politici in Italia. La discussione più calda si è accesa però attorno alla conversione all’Islam della giovane cooperante, che ha dichiarato di essere stata trattata bene dai suoi prigionieri e di aver abbracciato la religione liberamente, chiedendo lei stessa di avere un Corano durante la prigionia. Il gesto che ieri, di fronte alle telecamere, ha più volte ripetuto, di accarezzarsi con cura il ventre, ha fatto pensare a una sua gravidanza, innescando ancor di più pettegolezzi su un suo presunto matrimonio e altre polemiche.
Vera conversione? – Se ci si volesse schierare ed entrare nel calderone delle polemiche, sarebbe almeno opportuno attendere. Lungi dal voler scendere nel campo con una delle due squadre schierate – quella di chi si scaglia contro la giovane, per la sua scelta di aiutare le popolazioni africane con un impegno attivo lì, per la decisione di aderire all’Islam, e chi invece difende la sua “libera” scelta – qualche considerazione è opportuno avanzarla.
I primi dovrebbero considerare che 18 mesi di prigionia in mano ai terroristi islamici di al-Shabaab sono un’infinità, e nessuno è in grado di giudicare quella dinamica mentale che in psicologia passerebbe probabilmente come una classica Sindrome di Stoccolma. Non sappiamo ancora esattamente cosa sia avvenuto in quella prigionia, le minacce ricevute, il trattamento riservato mentalmente e fisicamente, cosa si possa provare in quelle condizioni. I secondi dovrebbero invece riflettere sulla presunta “libera scelta di convertirsi” e sul controsenso implicito in un’affermazione simile, tenuto conto che si tratta di una decisione fatta in uno stato di prigionia e per di più nelle mani di musulmani radicali, con tutto ciò che questa comporta.
Smontate false retoriche – I difensori strenui dell’abbigliamento con il jilbaab tipico somalo della cooperante dovrebbero forse leggere attentamente le parole di Domenico Quirico su La Stampa, che fu rapito in Siria nel 2013 e tenuto prigioniero per 5 mesi: il giornalista racconta straordinariamente bene il “rito dell’offerta della conversione” di cui fu vittima. Un tentativo fatto anzitutto con una “proposta gentile”, di cambiare identità e assumere un nome musulmano, nella piena convinzione dei rapitori di salvare un miscredente: perché quei fanatici “vogliono la tua resa, la tua anima” e non si tratta solo di un rito formale, ma di un obbligo a cui credono fermamente e sinceramente, “per accrescere di una unità il paradiso dei puri, dei giusti”.
Con le parole di chi ha vissuto in prima persona quelle dinamiche si sgretola la retorica di chi sta difendendo a spada tratta vestiario e scelte “libere” di chi – lo ricordiamo – è stata prigioniera per 18 mesi e che oggi mostra i segni “della prigione in un abito verde Islam” (sono ancora le parole di Quirico), convertita non in un contesto moderato, ma di jihadismo salafita, fanatico e radicalizzato. Così come si smonta la stucchevole retorica di chi ritiene che i jihadisti non agiscano mai veramente per questioni religiose, ma abbiano sempre un obiettivo primario differente: economico, strategico o politico. In questa presunzione tipica occidentale, che riduce tutto a mera secolarizzazione, non si coglie la questione prioritaria, che rimane quella religiosa musulmana e che pone solo in secondo piano tutte le altre. Quirico, con le sue parole, di chi ha conosciuto drammaticamente quelle situazioni, ci ricorda quanto la religione sia il movente primo dei gruppi jihadisti, quando il loro credo sia fervente e sincero.
Una doppia vittoria per i jihadisti – Il punto cruciale e strategico è che, come sottolinea lo stesso giornalista della Stampa e come pure Pietro del Re rimarca su Repubblica, la conversione e la presunta gravidanza di Silvia Romano – o addirittura l’eventuale matrimonio (per la verità smentito) con uno dei rapitori –, il cambio di nome in Aisha, rappresentano gli elementi di una «doppia vittoria» per i jihadisti. Questi, infatti, non solo hanno ottenuto finanziamenti per la loro attività terroristica, scalando posizioni nella galassia del jihadismo internazionale, ma hanno anche ottenuto la conversione di una prigioniera, nell’esultanza più o meno silenziosa dei radicalizzati di tutto il mondo.
Dal punto di vista strategico, il governo italiano ha ottenuto una parziale vittoria: bene per la liberazione, bene per la riuscita dell’operazione con i nostri ottimi servizi di intelligence, ma resta il tema della vittoria ottenuta da al-Shabaab, finanziariamente e mediaticamente. Strategicamente, possiamo davvero esultare, avendo ritrovato e riabbracciato una giovane cooperante italiana ma nella doppia vittoria jihadista?
Il nuovo posizionamento di al-Shabaab, la riconfigurazione degli scenari regionali, le relazioni con la Turchia, le questioni geopolitiche più ampie che questa liberazione profila all’orizzonte rendono la risposta a quella domanda assai più complessa della semplice diatriba tra pro e contro la conversione di Silvia Romano.
Alessandro Ricci,
Geopolitica.info e Università degli Studi Roma Tor Vergata