Mentre la Cina cementa i rapporti con gli emigrati sparsi in giro per il globo, altri paesi iniziano a percepire queste connessioni come una minaccia per la propria sovranità. Come verranno interpretate tali divergenze in chiave di politica estera, considerando che Pechino non può più fare a meno dei contributi economici e scientifici che giungono da fuori? Intanto, con la Cina che assurge a superpotenza mondiale, l’interesse delle comunità d’oltremare si rafforza, come a voler riscoprire le radici comuni e in qualche modo prestare il proprio apporto alla causa della madrepatria.
Definizione di “huaqiao”
Ai membri della diaspora cinese, ovvero quei 40 o 50 milioni di persone di origine cinese che vivono all’estero, ci si riferisce in madrepatria con il termine huaqiao (华侨). Traducibile come “cinesi emigranti”, il termine ritiene quindi un’accezione di transitorietà, benché alcune delle comunità a cui si riferisce siano emigrate dalla Cina da più di un secolo. In Italia, per esempio, non esiste una definizione del genere per gli italiani che emigrarono verso le Americhe agli inizi del XX secolo, e neppure una sostanziale relazione che leghi queste comunità di discendenza italica alle loro radici nel Bel Paese. Nel caso dei cinesi, invece, questa condizione ha tutt’altro peso. Il Sud-est asiatico, fra gli altri, ospita una nutrita comunità cinese che ha messo radici molto tempo addietro, e con il curioso appellativo di “Bamboo Network” si è ormai imposta come uno dei cardini socioeconomici dell’area; a differenza di questi, presenti lì da generazioni, gli huaqiao in occidente hanno visto una crescita molto recente, soprattutto con il trapianto di studenti, businessmen, e tecnici. Gli Stati Uniti rappresentano un esempio eclatante: i primi cinesi sono migrati in America circa duecento anni fa, in risposta alla richiesta di manodopera necessaria per costruire la ferrovia transcontinentale; in seguito all’Immigration Act del 1965, però, il loro numero è più che decuplicato, raggiungendo in poco tempo i cinque milioni!
A causa della marcata unicità culturale e valoriale, le comunità cinesi hanno sempre faticato ad integrarsi, preferendo invece isolarsi in quartieri distinti in cui si veniva a ricreare un’atmosfera famigliare, a immagine e somiglianza della madrepatria. La più popolosa Chinatown del mondo si trova a New York, un microcosmo di 100 mila persone in continua espansione; la più antica invece è a Manila, nelle Filippine (fondata nel 1594). In Italia è famosa la Chinatown di Prato, mentre il totale nazionale di cittadini di etnia cinese è ormai prossimo alle 300 mila unità. È necessario ricordare che questa prolungata reclusione accentuava nel tempo l’attrito con le comunità locali, portando spesso a fenomeni di discriminazione che, in alcuni paesi asiatici, sono sfociati anche in massacri ed espulsioni di massa.
Già nei primi anni del ‘900, la corte Qing si era lasciata ingolosire dal successo economico di questi cinesi emigrati, adottando il principio dello ius sanguinis per riaffermare la propria affiliazione con loro (diritto di cittadinanza ereditato dai genitori). In seguito anche il Partito Comunista Cinese ha dovuto riconoscere il potenziale degli huaqiao e, pur essendo intimorito dalle idee nazionaliste che animavano il sud-est asiatico e rischiavano di percolare nella neonata Repubblica Popolare, si è appellato allo ius sanguinis per assicurarsene i privilegi. In questa occasione è venuto alla luce il problema della doppia cittadinanza, che non è riconosciuta da Pechino, e pertanto limita enormemente la flessibilità degli emigrati di lungo periodo. Inoltre, la componente associativa era percepita dagli altri paesi – soprattutto da quelli con una robusta componente etnica cinese – come un possibile elemento sovversivo, sentimento che si è rafforzato negli ultimi anni con l’ascesa della Cina e la sua rinnovata ingerenza negli affari internazionali.
La valenza economica e politica delle comunità cinesi all’estero
La Cina ha sviluppato nel tempo una politica estera ben definita, modellata sui diversi contesti internazionali e sulle multiformi comunità cinesi che li abitano. Un tempo incentrato essenzialmente sulla crescita economica, questo approccio interessa ormai varie sfaccettature dell’impegno internazionale cinese, e si va ogni volta a rinnovare insieme ai flussi migratori: America, Australia, ed Europa sono entrate a tutti gli effetti nel radar di Pechino, e il restaurato prestigio della madrepatria esercita un’attrazione non da poco anche sugli huaqiao meno politicamente impegnati. Lo stato cinese coltiva l’interesse degli emigrati organizzando eventi nelle comunità o nelle camere di commercio, e inviando pezzi grossi del Partito a presenziare a tali eventi, oppure promuovendo in paesi chiave alcune testate giornalistiche locali che pubblicano in lingua cinese – ma non in lingua locale! – e che trattano questioni di attualità da un punto di vista strettamente cinese. Caso lampante è l’Australia, dove tutti i giornali in lingua cinese sono stati acquistati dal governo di Pechino; considerando che circa il 6% della popolazione australiana è di etnia cinese, quella del Dragone è un’influenza non da poco. Più eclatante la scoperta in Nuova Zelanda di un membro del parlamento di origine cinese che, avendo mentito sui propri trascorsi accademici, ha poi ammesso di aver studiato in un istituto affiliato all’Esercito Popolare di Liberazione, e di aver lavorato per quindici anni per i servizi segreti di Pechino.
Molti consolati e ambasciate distribuiscono materiale per lo studio del cinese mandarino, libri che sono ideati dal governo di Pechino ed esclusivamente destinati agli studenti huaqiao. Si va così ad alimentare un trend che vede le diverse comunità sparse per il globo riconnettersi per la prima volta nella storia, quasi desiderose di riscoprire la discendenza che le accomuna. Tante sono le associazioni di volontariato che organizzano conferenze, viaggi in Cina, fiere, ed eventi per le festività tradizionali cinesi (si pensi alle celebrazioni per il capodanno cinese tenute a Milano, Torino, Roma, Prato, Macerata, Napoli…). Questi eventi sono solitamente sponsorizzati da affermati imprenditori o addirittura da importanti leader della Repubblica Popolare.
Vera e propria roccaforte economica della Cina, il Sud-est asiatico si presta come laboratorio per i sopra citati esperimenti geopolitici, con il “Bamboo Network” che garantisce l’accesso a un comodo mercato per l’eccesiva produzione manufatturiera cinese, una stabile presenza in un’area ricca di risorse naturali, e un certo ascendente sulla politica locale. Eccezioni illustri sono rappresentate dai paesi coinvolti nella disputa per il Mar Cinese Meridionale, dall’Indonesia (dove il sentimento anti-cinese strumentalizzato nei moti nazionalisti è ancora troppo vivo nella coscienza collettiva), e da Singapore, che ha dimostrato di avere molto cuore la propria indipendenza politica e decisionale: nonostante la maggioranza della sua popolazione abbia origini cinesi, infatti, la scorsa estate la città-stato ha espulso dai propri confini un rinomato professore cinese, accusato di influenzare la politica estera del governo isolano.
Lasciando per un momento da parte la politica, è comunque fuori discussione che l’ecosistema affaristico in quella particolare area geografica stia vivendo una sua esclusiva età dell’oro, con le connessioni fra la Cina e il “Bamboo Network” che si fanno sempre più articolate. Gli scambi commerciali crescono del 25% su base annua, e basta un’occhiata ai dati per giustificare gli interessi di Pechino: i membri della diaspora cinese, infatti, detengono un potere spropositato se paragonato alla loro quota numerica (meno del 10% della popolazione totale del Sud-est asiatico), visto che a loro sono riconducibili due terzi del commercio al dettaglio, l’80% delle società quotate, e l’86% dei miliardari della regione. Questa esorbitante disparità ha creato spesso nella popolazione autoctona una forte repulsione per le comunità cinesi, sfociata a volte in sanguinose repressioni e politiche discriminatorie. Anche per questo motivo, gli huaqiao sono inclini a isolarsi nella loro bolla culturale, tantopiù adesso che la madrepatria è tornata a farsi sentire e a reclamare la loro affiliazione. Essendo stati per decenni i primi investitori esteri nella Cina continentale, gli emigrati cinesi assistono ora a un ribaltamento dei ruoli, con le aziende pubbliche di Pechino che riversano un mare di investimenti in questi paesi troppo a lungo trascurati. Si tratta in realtà un sottoprodotto della recente ondata di protezionismo statunitense che, complicando l’acquisto di titoli del tesoro americani, ha costretto il governo cinese a spostare il suo appetito finanziario verso le spiagge sicure del “Bamboo Network”.
La rete di relazioni si rivela utile anche nel contesto delle Nuove Vie della Seta (Belt and Road Initiative): le organizzazioni commerciali huaqiao vengono coinvolte per fungere da punti di snodo lungo i paesi chiave del mega progetto infrastrutturale, e fornire alle aziende cinesi tutta l’assistenza di cui hanno bisogno. Mentre qualcuno teme un impiego delle comunità immigrate quali canali del soft power cinese, la posizione ufficiale di Pechino presenta il quadro da un’altra angolazione, descrivendo queste stesse comunità come il collante necessario affinché i diversi paesi ricerchino la collaborazione e la crescita condivisa sotto l’egida della Belt and Road Initiative.
Gli Stati Uniti, in ultima analisi, presentano per ovvi motivi politici un quadro assai complesso: a differenza degli altri paesi, infatti, la comunità cinese non può veramente partecipare attivamente al dibattito pubblico, soprattutto in seguito alle continue manifestazioni di diffidenza che l’establishment americano ha rivolto al rivale asiatico. Tagliati fuori gli huaqiao, quindi, vediamo comunque immigrati cinesi di ultima istanza, come studenti e ricercatori, finire nel mirino del protezionismo a stelle e strisce, e perdere quindi anche quel ruolo prettamente scientifico – trasferimenti tecnologici e processi innovativi – che significavano comunque un elevato valore aggiunto per i colleghi nella madrepatria. Lo scontro interno fra diversi gruppi di interesse americani non risparmia neppure questa faccenda: mentre una fetta della classe politica e imprenditoriale vede di buon occhio qualsiasi politica volta a separare Washington e Pechino, il mondo accademico si schiera ferocemente contro la discriminazione, poiché gli studenti cinesi (più di 350 mila) garantiscono un contributo insostituibile in termini economici e di ricerca.
Conclusioni
La diaspora cinese nel mondo ha mantenuto da sempre un rapporto strettamente economico con la madrepatria, a cui è stata di recente incorporata una componente politica. Cementando prima i rapporti con le comunità storiche del Sud-est asiatico, Pechino ha poi allargato la sua sfera d’interesse anche ai cinesi presenti in altri paesi; questa simbiosi socioeconomica porta un doppio vantaggio agli huaqiao, che ricevono dalla Cina sia favoritismi sul piano commerciale, che riconoscimenti sul piano dell’impegno politico e culturale. Fa eccezione il caso degli Stati Uniti, dove per ragioni evidenti la partecipazione dei Chinese Americans al dibattito pubblico è limitato dal grande stigma del rivale comunista. La corretta gestione delle comunità cinesi in America è molto sentita su entrambi i lati del Pacifico: mentre Washington deve poter salvaguardare la sicurezza nazionale senza limitare i diritti dei propri cittadini, Pechino deve saper recepire i benefici convogliati dagli emigrati – economici, scientifici, tecnologici – senza mostrarsi minacciosa nei confronti della sovranità altrui.
Altre questioni si intromettono nei piani della Cina per un ottimale impiego degli emigrati – uno su tutti quello della doppia cittadinanza – ma è innegabile che negli ultimi due decenni la rete etnica si sia rafforzata, e la collaborazione abbia raggiunto livelli senza precedenti. La politica estera cinese è fortemente imperniata sulla distribuzione degli huaqiao, ed è costruita per modellarsi nel tempo in base ai contesti internazionali e ai flussi migratori. Resta da verificare l’eventualità che la vita quotidiana di queste comunità non venga sconvolta irreparabilmente dalla progressiva polarizzazione a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, e dagli interessi politici delle parti in gioco.