Il riscaldamento globale può essere attribuito alle variazioni dell’energia solare, all’attività vulcanica, ai mutamenti delle caratteristiche dell’orbitale terrestre, agli effetti dei raggi cosmici, e ai movimenti della tettonica delle placche. Forse no. Non in questa circostanza. La comunità scientifica internazionale ha rigettato tali ipotesi, addebitando invece l’aumento repentino della temperatura media del pianeta alle attività antropiche, che hanno stravolto, in poco meno di due secoli, l’equilibrio di un ciclo climatico esistito per migliaia di anni. Gli effetti tangibili e inequivocabili del riscaldamento globale annunciano ormai l’emergenza climatica.
Negli ultimi due secoli, la crescita demografica e l’urbanizzazione di massa hanno amplificato l’impatto che gli esseri umani stanno esercitando sull’ambiente da alcune centinaia di migliaia di anni: al presente, 7.7 miliardi di persone dimorano sulla Terra, il 55% delle quali in centri urbani. Secondo le statistiche più recenti, tale tendenza non sembra mostrare segni di rallentamento: si stima che, entro il 2050, la popolazione mondiale sfiorerà la soglia dei 10 miliardi di unità e che le metropoli ne ospiteranno permanentemente il 68%.

Nonostante possa sembrare che una porzione significativa della superficie terrestre sia già stata edificata, le città occupano soltanto il 2% della terraferma ed eppure sono responsabili per il 78% del consumo dell’energia globale e per l’emissione di circa il 60% dei gas a effetto serra. Daniel Moran, ricercatore presso la Norwegian University of Science and Technology, al fine di quantificare l’entità delle emissioni da attribuire alle singole città a livello nazionale, ha analizzato i dati sulle popolazioni urbane raffrontandoli con il relativo potere d’acquisto e ne ha desunto che maggiore è il benessere economico e maggiori sono le probabilità che si dia corso ad attività ad alto consumo di combustibili fossili, causa principale del riscaldamento globale insieme alla deforestazione. In altre parole, la maggior parte delle emissioni relative ai consumi energetici di un Paese può dipendere da poche città – e non dai soli impianti industriali o agricoli – e, per conseguenza, 100 agglomerati urbani sarebbero sufficienti a riversare nell’atmosfera circa il 18% dei gas a effetto serra globali.

Questo studio evidenzia che i comportamenti poco sostenibili dei cittadini sono altamente dannosi per l’ambiente e che, a meno che non vengano adottate delle misure di attenuamento in maniera tempestiva, le implicazioni del cambiamento climatico potrebbero essere irreversibili.
Dopo oltre venti anni di mediazione dalla prima Conferenza sul Clima patrocinata dalle Nazioni Unite, la comunità internazionale è approdata faticosamente all’Accordo di Parigi (2015) – pionieristico in termini di vincolatività e ambizione – il cui fondamento cardine esorta a limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C rispetto ai valori preindustriali. A tal fine, l’Accordo riconosce anche alle città, insieme alle regioni e alle autorità locali, un ruolo sorprendentemente non marginale nella lotta al cambiamento climatico. Sino ad allora, infatti, la leadership politica internazionale aveva affrontato la questione del clima in un’ottica prettamente nazionale o sovranazionale, ferma nella convinzione che, come per tutte le altre crisi internazionali, le unità statali potessero essere più potenti e influenti delle unità locali. In questo contesto, la UN New Urban Agenda (2016), ha ribaltato tale assioma, attribuendo alle città l’incarico di adempiere al loro ruolo di motori dello sviluppo sostenibile.
Da parte loro, le città non hanno atteso il via libera delle Nazioni Unite per impegnarsi collettivamente nella lotta al cambiamento climatico, attraverso, ad esempio, l’istituzione di reti urbane transnazionali, dimostrando un forte spirito di iniziativa e di partecipazione. Le reti urbane transnazionali rivestono un ruolo capitale specialmente in relazione alla standardizzazione delle misurazioni delle emissioni cittadine di gas a effetto serra e alla definizione di manovre significativamente sostenibili. L’esempio più virtuoso di rete urbana transnazionale corrisponde a C40 Cities, che dal 2005 connette 94 tra le più influenti città del mondo, rappresentando più di 700 milioni di cittadini. Attualmente, le autorità locali di C40 Cities sono alle prese con il soddisfacimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Nel complesso, sono numerosi i network urbani sul clima che stanno proliferando negli ultimi anni, come il Local Governments for Sustainability, il Climate Alliance, o l’Energy Cities, per citarne solamente alcuni; ciononostante, tra tutti, il Covenant of Mayors (CoM) spicca particolarmente, forse in quanto prodotto di un soggetto di diritto internazionale molto peculiare: l’Unione Europea (UE).
In via preliminare, la questione climatica è una delle priorità dell’Unione Europea, come si evince dalla sua politica ambientale disciplinata in primis dagli articoli 11 e 191-193 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, i quali pongono come obiettivi la lotta ai cambiamenti climatici e la tutela dell’ambiente. Nella prospettiva di onorare sia la legislazione comunitaria sia gli impegni internazionali, l’UE ha definito misure e traguardi ambiziosi al fine di limitare la sua produzione di gas a effetto serra, attraverso due pacchetti per il clima e l’energia che raccomandavano: il primo (2008), una riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020 e, il secondo (2014), una riduzione del 40% entro il 2030, rispetto ai parametri degli anni 1990. A ciò si aggiunge l’aumento della quota di energie rinnovabili e il miglioramento dell’efficienza energetica. Nel 2018, l’Unione Europea ha raggiunto, e addirittura superato, tali obiettivi, dal momento che le emissioni sono state ridotte del 23%. A fronte di questo recente successo, il Parlamento Europeo ha approvato lo scorso gennaio il Green New Deal, una strategia ambientale per la quale l’Unione Europea non avrà alcun impatto climatico entro il 2050.
L’Unione Europea può vantare alcune tra le città più “verdi” al mondo, considerate come autentici laboratori ecologici da cui trarre ispirazione e farsi guidare verso la transizione pro-ambiente. Tali città hanno alcuni denominatori comuni: sono capitali – come Stoccolma e Parigi – o città secondarie – come Rotterdam e Barcellona -, prospere, e costiere ubicate principalmente in Europa Settentrionale. Tuttavia, molte città dell’Europa Meridionale e Orientale, invece, non hanno ancora varcato l’olimpo della sostenibilità, sebbene vi si stiano affacciando progressivamente. Al fine di colmare tale divario e di mettere a disposizione delle città un terreno d’azione comune, la Commissione europea ha creato il Covenant of Mayors, subito dopo l’adozione del primo Pacchetto sul Clima e l’Energia (2008). La particolarità del CoM rispetto alle altre iniziative transnazionali è data dall’inclusione di città medie e piccole, che rappresentano il 66% degli oltre 9000 firmatari dei 27 Stati membri (+Gran Bretagna) dell’Unione Europea. Affinché l’impegno politico delle autorità locali vada oltre le mere dichiarazioni di intenti, i firmatari del CoM si impegnano a presentare, entro due anni dalla data di adesione, un piano d’azione sostenibile per l’energia e il clima, che delinei gli interventi chiave che intendono intraprendere. Per di più, oltre a dover includere un inventario di base delle emissioni per tenere traccia delle azioni di mitigazione e una valutazione sui rischi climatici e sulla vulnerabilità locali, il piano d’azione può essere accompagnato da una strategia di adattamento climatico, in modo che le città si sentano simbolicamente vincolate sul lungo periodo.
Al di là dei piani di mitigazione e di adattamento sviluppati sotto gli auspici dei network transnazionali, le città europee hanno la possibilità di implementare dei piani di azione del tutto autonomi oppure dei piani sollecitati dai governi degli Stati membri di appartenenza. Una ricerca condotta su un campione di 885 città europee ha rilevato che, nel primo caso, il 36% delle città sta sviluppando almeno un piano di mitigazione – particolarmente in Polonia, in Germania, in Irlanda, in Finlandia, e in Svezia -, l’11% un piano di adattamento, e solo il 3% entrambi. Nel secondo caso, sebbene i Governi forniscano delle linee guida alle autorità locali volte alla messa a punto di piani climatici locali, la loro implementazione è lasciata alla discrezione delle stesse autorità; solamente la Francia, la Slovacchia, la Danimarca e il Regno Unito hanno sinora imposto l’adozione di piani climatici locali, determinando il loro status giuridico e fornendo le norme per il loro contenuto e il loro sviluppo.
In conclusione, l’obiettivo di non far aumentare la temperatura della Terra oltre i 2°C non può essere realizzata senza che si assicuri il pieno coinvolgimento delle città. I governi locali possono intervenire direttamente attraverso soft policies, incoraggiando uno stile di vita più sostenibile per i propri cittadini, oppure attraverso hard policies, imponendo regolamentazioni e tassazioni sulle emissioni di gas a effetto serra e massicci processi di decarbonizzazione. Nel concreto, a titolo esemplificativo, il comune di Hannover, in Germania, ha fatto restaurare vecchi edifici post-bellici dotandoli di un sistema di teleriscaldamento e di isolamento per potenziare il risparmio energetico domestico e il comune di Isola Vicentina, in Italia, ha riconsiderato il suo piano di gestione delle risorse idriche designando un’area pilota di dieci ettari per condurre una simulazione che dimostrasse che la salvaguardia delle aree boschive, a differenza della prospettiva di edificazione di nuovi immobili, avrebbe migliorato la resilienza del proprio territorio in caso di eventi meteorologici estremi. Seguendo questi criteri, le reti urbane transnazionali sono un efficiente strumento di dialogo attraverso cui condividere e confrontare le pratiche e i progressi finalizzati alla tutela del pianeta.