La popolazione carceraria globale conta diversi milioni di individui, con una mobilità, dall’interno all’esterno, che coinvolge annualmente decine di milioni di persone, tenuto conto, oltre che degli ingressi e delle liberazioni, anche del personale di sorveglianza, di quello tecnico e sanitario e dei visitatori. Come noto, il livello di tutela dei diritti, anche sanitari, dei detenuti è a dir poco variabile da nazione a nazione, e spesso, come nel caso italiano (ma vale anche per le carceri spagnole, francesi e britanniche), differenze ragguardevoli si riscontrano anche a livello regionale.
In questo periodo, le autorità giudiziarie e governative di tutto il mondo hanno dovuto misurarsi con l’emergenza Covid, potenziale o concreta, nei centri di detenzione.
Come annotato dalla prestigiosa Lancet, infatti, i luoghi di detenzione sono candidati ideali a divenire “bombe epidemiche” con effetti deflagranti non solo al loro interno ma, data l’osmosi tra carcere e mondo dei “liberi”, anche in quest’ultimo. Lo stesso articolo, in accordo con studi epidemiologici pregressi (Kinner SA, Young JT. Understanding and improving the health of people who experience incarceration: An overview and synthesis. Epidemiol Rev 2018; 40: 4–11) evidenziava che il rischio interno alle carceri è aggravato dall’alta percentuale di detenuti con comorbilità o con patologie potenzialmente letali in concorso con il contaggio da coronavirus.
Il 15 marzo scorso, l’OMS pubblicava le proprie linee guida in materia di prevenzione e controllo delle infezioni da Sars Cov 2.
Tali linee-guida, dichiaratamente provvisorie (livello intermedio) evitavano però accuratamente di affrontare quello che, già all’epoca, si poneva come l’aspetto più problematico, vale a dire l’evenienza di misure di rilascio dei detenuti, limitandosi a proporre una serie di procedure e gold standards invero assai difficilmente attuabili nei sistemi detentivi di molti degli Stati membri – ad esempio quelli contrassegnati da cronico sovraffollamento e carenza di personale, come quello italiano.
Solo due giorni fa, l’OMS ha dato seguito al documento provvisorio (in atesa del definitivo), pubblicando una checklist di valutazione delle procedure di prevenzione e controllo del rischio Covid all’interno degli istituti di pena.
Nella lista di controllo odierna, divisa per aree di valutazione (valutazione dei rischi, sistema di testing, misure di prevenzione etc.), si rinviene in questo senso un unico, timido riferimento, nell’area di valutazione relativa al rispetto dei diritti umani: “are any non-custodial measures for the administration of criminal justice being used (e.g. electronic tagging)?”. È noto, peraltro, che nel frattempo alcune autorità nazionali, a fronte di situazioni epidemiche sempre più critiche, avevano attuato provvedimenti di liberazione anche massivi: in Iran, ad esempio, si stima che i detenuti rilasciati siano più di settantamila.
Lo stesso Regno Unito, dove i casi di contagio nei centri detentivi sono migliaia, ha annunciato il via libera il rilascio temporaneo di circa quattromila detenuti, mentre la Francia ha previsto un meccanismo di liberazione anticipata per detenuti c.d. a fine pena, che ha determinato circa 6000 scarcerazioni con un riequilibrio del livello di affollamento medio dei penitenziari, oggi sotto il 100% della capienza prevista.
In Italia, i provvedimenti sono stati di due tipi: l’art. 123 del decreto-legge c.d. Cura-Italia, ha introdotto una corsia preferenziale per le domande di detenzione domiciliare presentate da detenuti con pena residua non superiore a 18 mesi. Accanto a tale procedura accelerata e deflattiva, il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha chiesto agli istituti di pena di stilare una lista di detenuti affetti da gravi patologie con alto rischio di complicanze e letalità in caso di contagio da Covid 19 (tumori, diabete scompensato, insufficienza renale cronica etc.), e di trasmettere tale lista ai magistrati competenti per le valutazioni del caso. La prima procedura escludeva espressamente dal beneficio i condannati per reati c.d. ostativi, tra cui quelli di mafia; la seconda no; né, per la verità, avrebbe potuto, trattandosi di diritto alla salute.
Eppure la notizia che, in seguito all’emergenza Covid, fossero stati “scarcerati più di 300 boss della mafia” ha innescato il più grande cortocircuito politico-giudiziario della recente storia italiana. I protagonisti sono noti, così come le rispettive performance, e non è mancato, tra i commentatori, chi ha evidenziato la patente violazione di ruoli e prerogative reciproche.
Vale però la pena di precisare che le liste diffuse da varie testate conteggiavano, in realtà, tutti i beneficiati provenienti dal regime c.d. di alta sorveglianza, che non è riservato né ai soli boss e neppure ai soli condannati per reati di mafia (vi rientrano ad esempio anche alcuni reati di droga), così come le c.d. “scarcerazioni”, in realtà, conteggiano al loro interno anche detenuti in attesa di giudizio, differimenti temporanei della pena, sostituzioni con detenzione domiciliare o ospedaliera nel rispetto del preminente diritto alla salute, come ribadito dal coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams) che, inascoltato, ha denunciato una “campagna di delegittimazione” del loro ruolo spintasi fino al “dileggio”.
Nella confusione più totale, dopo le dimissioni del direttore del Dap, il Ministro è intervenuto in Parlamento ricordando tra l’altro, che l’esecutivo non è responsabile dei provvedimenti giurisdizionali, ma promettendo, allo stesso tempo, che interverrà a breve per riassicurare il “carcere ai mafiosi”, atteso che il quadro epidomiologico è in corso di risoluzione (?): le contraddizioni insite in tale esposizione risultano piuttosto evidenti.
Certo è che, a prescindere da come verrà concepito l’annunciato provvedimento, il risultato sarà quello di delegittimare pericolosamente qualunque decisione che, in un senso o nell’altro, verrà adottata dai Tribunali: quelle non allineate ai desiderata del governo, verranno additati come altrettanti atti di diserzione nella “guerra alle mafie”; quelli conformi, d’altro canto, saranno avvertiti come il prodotto di una indebita pressione sull’esercizio della giurisdizione.
Nell’infuriare della polemica risalta, infine, il silenzio della magistratura associata, che pure è sempre stata pronta a mobilitarsi contro qualunque ingerenza, vera o presunta, del potere esecutivo, probabilmente per il timore che stavolta schierarsi a tutela della propria indipendenza possa essere letto, nella dominante narrazione giustizialista, come un atto di debolezza nei confronti della criminalità organizzata.
Tant’è. Nel frattempo, un primo effetto la polemica di questi giorni lo ha certamente raggiunto ed è quello di confermare la nostra pessima immagine all’estero, con la mafia a farla da padrona (ricordate Die Welt?): dalla Cnn al Pais (“decenas de capos historicos ya estan en la calle”) veniamo infatti descritti ancora una volta come il paese della mafia che spadroneggia.
Quel che vien da concludere è che, in Italia, anche per il giustizialismo la fase 2 è come la fase 1, solo più incasinata.
Tommaso Politi,
LTTU Associati