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RubricheFaro AtlanticoL’attacco che scosse la NATO

L’attacco che scosse la NATO

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Vent’anni fa l’attacco terroristico che sconvolse il mondo e che portò l’Alleanza Atlantica ad attivare per la prima volta l’Art. 5 del trattato istitutivo firmato a Washington nel 1949. Un giorno che si sarebbe rivelato cruciale per l’evoluzione dell’Alleanza nel XXI secolo.

“In questo momento critico, gli Stati Uniti possono contare su 18 alleati in Nord America ed Europa […], il nostro messaggio rivolto verso chi ha commesso questi crimini indicibili è chiaro: non la passerete liscia”. Queste le parole pronunciate da Lord George Robertson, allora Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, nella conferenza stampa straordinaria tenuta lo stesso 11 settembre. Il giorno dopo lo stesso Robertson avrebbe rivelato al mondo l’intenzione del Consiglio Atlantico di considerare quei dirottamenti aerei come un attacco verso tutti i membri dell’Alleanza.

La clausola dei moschettieri

Definito così da alcuni storici e analisti, l’Art. 5 del Trattato dell’Nord Atlantico viene considerato dagli studiosi come il perno fondamentale intorno al quale ruota l’intera compagine alleata. È bene ricordare come, sebbene l’articolo stabilisca che un attacco armato nei confronti di uno dei membri dell’Alleanza sia da considerare come un attacco rivolto a tutti i membri dell’Alleanza, ciò non determini nessun obbligo o azione automatica per gli Stati membri. Ogni membro, si legge nell’articolo, è titolato ad agire con gli strumenti che ritiene più opportuni per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area atlantica, compreso l’eventuale uso della forza. La particolare configurazione dell’articolo è da attribuire alle pressioni esercitate dall’allora amministrazione americana in sede negoziale: eventuali obblighi automatici, infatti, avrebbero intaccato le prerogative costituzionali degli organi repubblicani a stelle e strisce, alienando così la partecipazione degli Stati Uniti alla nascente alleanza.

La reticenza americana

A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non fu l’amministrazione guidata dal presidente George W. Bush a proporre l’attivazione dell’articolo sulla difesa collettiva. Secondo quanto riportato da Seth Johnston, autore del libro “How NATO Adapts”, fu l’ambasciatore canadese alla NATO David Wright a indicare al Segretario Generale la presenza dei presupposti per il ricorso all’articolo 5. Presupposti che, come rimarcato dallo stesso Lord Robertson durante le celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’Alleanza, non vennero accolte positivamente da tutti gli Stati membri: diversi delegati si dimostrarono inizialmente restii alla possibilità di utilizzare uno strumento pensato per fronteggiare un attacco sovietico per rispondere alla minaccia terroristica.

Una reticenza manifestata anche dallo staff della Casa Bianca. In un recente articolo pubblicato sul sito Lawfare è stata ricordata la ritrosia riguardo un diretto coinvolgimento dell’istituzione atlantica manifestata dall’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld: il concetto della coalizione dei volenterosi, proposta successivamente dallo stesso Rumsfeld, sembrava mal conciliarsi con il funzionamento di un’istituzione con una membership strutturata e fondata sul meccanismo del consensus. A ciò, inoltre, si aggiungeva la questione dell’attribuzione dell’attacco: per l’establishment a stelle e strisce, infatti, era fondamentale che l’eventuale attivazione dell’art. 5 fosse determinato da un attacco perpetrato da attore esterno e non frutto di dinamiche legate ad azioni terroristiche di matrice domestica. 

La risposta alleata e l’impegno in Afghanistan

La decisione sull’attivazione ufficiale dell’art. 5 venne presa solo un mese dopo, il 4 ottobre. Leggendo il testo delle misure otto misure adottate dal Consiglio Atlantico risulta evidente come nessuna di queste azioni prevedesse la partecipazione dell’Alleanza e della sua organizzazione militare all’imminente campagna militare statunitense in Afghanistan. Infatti, al di là dell’operazione NATO Eagle Assist – lanciata il 9 ottobre 2001 per assicurare la difesa dello spazio aereo a stelle e strisce – gli alleati scelsero di non prendere parte ad azioni di tipo cinetico sotto il vessillo della bandiera atlantica, optando per il potenziamento della condivisione delle informazioni di intelligence e assicurando il supporto logistico (es. permessi di sorvolo dello spazio aereo nazionale, accesso a porti e aeroporti) utile per le operazioni anti-terrorismo.

Il reale coinvolgimento dell’Alleanza in Afghanistan sarebbe iniziato solo nell’agosto 2003 – quando la NATO assunse il comando della missione International Security Assistance Force (ISAF) –  e con non poche difficoltà dal punto di vista politico e operativo: se da un lato, infatti, la notevole distanza del teatro afghano dall’Europa prestava il fianco alle dimostranze di quegli alleati – Francia in testa – che osteggiavano un impegno fuori dall’area di competenza (out-of-area) dell’Alleanza, dall’altro rendeva evidente il gap capacitivo presente tra gli stati membri che bisognava colmare per assicurare un’effettiva proiezione delle forze NATO nello scenario mediorientale. Emblematica, in questo senso, la carenza di capacità di trasporto strategico degli stati europei in quel frangente: secondo quanto riportato da Deborah L. Hanagan nel libro “NATO in the Crucible: Coalition Warfare in Afghanistan, 2001–2014”, a fronte di 250 aerei per il trasporto strategico schierati dagli USA, gli stati alleati europei erano in grado di impiegare solo quattro velivoli simili, tutti britannici.

Uno spartiacque per l’Alleanza

In un’intervista rilasciata a dieci anni da quel tragico giorno di settembre, l’ex Segretario Generale Robertson sottolineò con forza l’impatto che quegli eventi ebbero sull’Alleanza. “[Quegli eventi] svegliarono la gente […] il mondo era cambiato in un modo inimmaginabile […] e le persone compresero che il nemico non era [più] un blocco ideologico dall’altro lato dell’Europa ma che i nemici erano questi atti terroristici”, affermò. “Fu un momento di shock – continuò Lord Robertson – che causò diversi cambiamenti nell’organizzazione dell’Alleanza, sia interni sia riguardo la postura da tenere rispetto le potenziali minacce”. 

Sebbene già i concetti strategici approvati dal Consiglio Atlantico nel 1991 e nel 1999 menzionassero gli atti terroristici come nuovi rischi all’interno del mutato contesto internazionale, le fondamenta per rispondere efficacemente a tali minacce vennero gettate solo nel novembre 2002, durante il Summit alleato di Praga. Spinti dagli avvenimenti dell’anno precedente, gli stati membri decisero di riconoscere la “seria e crescente minaccia” posta dal terrorismo e di impegnarsi “a combattere questa piaga fino a quando sarà necessario”. Per fare ciò, si legge nella dichiarazione finale di quel vertice, l’Alleanza avrebbe esteso la sua azione ovunque sarebbe stato necessario e si sarebbe dotata di una forza militare credibile, in grado di operare per lunghi periodi in scenari distanti, anche in teatri caratterizzati da eventuali minacce di tipo biologico, chimico e nucleare.  

Vent’anni fa, in conclusione, si verificò una cesura che modificò radicalmente lo scenario internazionale e che innescò un ulteriore processo di adattamento per la compagine atlantica. Il corso degli eventi causò prima l’attivazione della clausola chiave di un trattato concluso all’ombra della Guerra Fredda e poi portò alla più ampia operazione della storia alleata, per altro fuori dal continente europeo: in questo senso, non sembra assurdo affermare che quegli eventi aprirono un nuovo capitolo per l’Alleanza Atlantica, il capitolo di un’alleanza regionale ma con aspirazioni e azioni globali.

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