Movimenti tellurici scuotono la politica britannica, per il momento senza conseguenze di rilievo. Nessuna testa è ancora caduta, nessun protagonista della vita pubblica inglese ci ha rimesso le penne.
Due fenomeni in particolare hanno attirato l’attenzione dei commentatori, che si affannano nella ricerca di una chiave di interpretazione politica che consenta di formulare previsioni attendibili circa gli scenari futuri. Il primo punto di attenzione deriva dall’affermazione dello United Kingdom Independence Party nelle recenti consultazioni locali, con un risultato prossimo, in media, al 26% dei consensi. I partiti inglesi si contendevano 2.300 seggi, 35 enti locali ed un seggio parlamentare rimasto vacante. Gli indipendentisti dello Ukip, guidati dal leader Nigel Farage, hanno ottenuto un risultato che supera addirittura le loro più rosee aspettative: ambendo ad attestarsi intorno al 15-20%, non possono che giubilare per il gradimento raccolto nell’intero territorio nazionale. Lo Ukip è una formazione che, al di là dei facili cliché che la circondano, propone una piattaforma politica dirompente, comunicata con uno stile ed un linguaggio di immediata comprensibilità da parte del corpo elettorale. Al “mini-managerialismo” dei partiti maggiori, come è stato definito, Nigel Farage contrappone messaggi chiari, inequivocabili, una chiamata alle armi per gli inglesi delusi dalle dinamiche della politica londinese. Si tratta, senza dubbio, di un voto di protesta contro gli schieramenti tradizionali: questo aspetto (e forse solo questo) accomuna lo Ukip ad altre formazioni che si sono affermate qua e là per l’Europa continentale.
Ma definire Farage “il Grillo inglese” è un semplicismo che trascura gli aspetti programmatici dell’affermazione dello Ukip. Il punto è che, ad aver fatto breccia nell’elettorato d’Oltre Manica, non è solo l’invettiva contro la casta che tanto successo ha mietuto nel Belpaese. C’è di più: il partito indipendentista ha fatto appello al mai sopito euroscetticismo dell’opinione pubblica britannica, refrattaria ad un coinvolgimento pieno ed incondizionato nelle dinamiche dell’integrazione europea. L’humus per il messaggio di Farage è quanto mai fertile: solo un britannico su sei guarda con favore all’Unione europea (meno che nella martoriata Grecia), secondo un recente sondaggio della Commissione. Ma lo Ukip non sfida i partiti tradizionali solo a colpi di antieuropeismo: nel suo programma figura anche la piena revisione delle politiche ambientali in chiave pro-mercato, l’abbassamento della pressione fiscale, il controllo delle frontiere per limitare l’afflusso di immigrati, l’incremento della spesa militare. Alcuni di questi temi, come noto, sono diventati veri e propri mantra per la politica tradizionale: gli incentivi alle fonti rinnovabili, ad esempio, hanno goduto di sostegno incondizionato per anni, forse decenni, grazie soprattutto all’impulso proveniente da Bruxelles. Oggi, davanti a bollette energetiche sempre più salate e alla crisi perdurante, sono in molti a ritenere superata l’epoca dei sussidi pubblici. Farage, auspicando il loro azzeramento, intercetta un’opinione sempre più diffusa nel Regno Unito. E che dire della cooperazione internazionale allo sviluppo? Mentre i tre maggiori partiti dichiarano in pompa magna di voler destinare agli aiuti lo 0,7% del Pil, lo Ukip lamenta il taglio delle spese militari, esaltando la passata gloria della Marina reale. E, questo, agli inglesi sembra piacere.
Nonostante l’affermazione ottenuta, gli indipendentisti dovranno lottare per mantenere i livelli di consenso raggiunti. Molto dipenderà dall’operato dei suoi uomini eletti a livello locale: come sempre, la politica istituzionale rappresenta un banco di prova senz’appello per le velleità delle forze “antisistema”. E molto peserà l’atteggiamento del Partito Conservatore, ai cui elettori delusi si rivolge prioritariamente Nigel Farage.
E’ proprio il Partito Conservatore, alla guida del governo di coalizione con il premier David Cameron, a costituire il grande punto interrogativo della politica inglese attuale. Per il momento, la temuta emorragia di voti si è dimostrata più contenuta del previsto, e i Tories, pur usciti ridimensionati dall’ultimo confronto elettorale, hanno sostanzialmente incassato il colpo senza barcollare. Più che l’affermazione dello Ukip nelle urne, a preoccupare Cameron e la dirigenza del partito sono due aspetti: in primis, lo smottamento interno dovuto ai contrasti relativi ai rapporti con l’Ue; poi l’evidente stato comatoso in cui versa l’alleato liberaldemocratico, segno che, alle legislative del 2015, il Partito Conservatore correrà solo, dovendo contare esclusivamente sulle proprie forze per formare un nuovo esecutivo.
L’ex Ministro del Bilancio di Margaret Thatcher, Nigel Lawson, ha infiammato il clima propugnando, in un discusso editoriale sul Times, la “Brexit”, l’uscita del Regno Unito dall’Unione, da lui definita una “mostruosità burocratica”. David Cameron, per non trovarsi nell’angolo, ha annunciato per il 2017 un referendum popolare sulla permanenza nel consesso continentale, esponendosi però a nuove, accese critiche. Perché non nel 2015, si chiedono ben due ministri del suo stesso esecutivo, dichiarando anche le proprie intenzioni di voto: un secco no allo status quo, un netto rifiuto della prosecuzione di una partnership fallimentare.
I Tories vanno incontro ad una lotta di potere interna in cui gli euroscettici cercheranno di traghettare la posizione ufficiale del partito verso la trincea dell’antieuropeismo senza se e senza ma. Partendo da un ostruzionismo pregiudiziale ad ogni nuova iniziativa tesa ad una maggior coesione politica, come quella adombrata dal Presidente Hollande e alla quale ha aderito anche il governo italiano, per bocca del Ministro degli Esteri Emma Bonino.
Il discorso sullo stato dei rapporti tra Regno Unito ed Ue dello scorso gennaio tenuto dal premier aveva già segnato un possibile punto di svolta: una politica imperniata sull’Europa “à la carte”, in cui Londra contratta le condizioni per la permanenza e la parola d’ordine è flessibilità. Considerate le perduranti divergenze tra i partner e l’assenza di un interesse generale, ognuno deve decidere cosa prendere e cosa lasciare dell’architettura comunitaria, senza ingerenze da parte di Bruxelles. Ora, il riposizionamento di membri influenti del Partito pone un primo tassello per l’opzione di un’uscita definitiva, divenuta non più così remota.
David Cameron ed i suoi sono chiamati a confrontarsi con il malcontento popolare e a comprendere quale sia l’interesse nazionale britannico. Non sono in molti a pensare che esso coincida con quello delle istituzioni comunitarie.