La storia del Mar Mediterraneo è da sempre caratterizzata da mobilità, scambi e flussi migratori che hanno generato contaminazioni tra culture e trasformazioni sociali. Le migrazioni odierne dall’Africa all’Europa, però, sebbene siano da inserire all’interno di questo processo storico, stanno assumendo una rilevanza geopolitica crescente, sia per numero di migranti che per frequenza degli sbarchi.
Le soluzioni proposte a livello internazionale sono poco efficaci, perché spesso non si indagano le vere radici del problema. I processi di mobilità umana sono complessi e le ragioni che spingono migliaia di persone a migrare attraverso il Mediterraneo, verso Nord, sono molteplici. Tali ragioni vengono trascurate dalle élite politiche europee, le quali invece tendono a identificare nella fuga da aree di conflitto la principale causa dei flussi migratori. Tuttavia, in molti dei paesi di provenienza dei migranti non sono in corso guerre né conflitti armati né stermini di massa.
Le recenti crisi alimentari (2007-08 e 2010-11) hanno riportato alla luce il nesso tra alimentazione e fenomeni migratori, aggiungendo alle cause tradizionali della migrazione per fame (carestie, inondazioni o altri disastri ambientali) quelle di mercato: speculazioni finanziarie sui beni alimentari, volatilità dei prezzi agricoli, sottrazione di terre per la produzione di alimenti o agro-carburanti.
Di conseguenza, è emerso come l’acquisizione (“accaparramento” secondo alcuni) di larghe porzioni di terreni agricoli nell’Africa sub-sahariana sia tra i fattori più decisivi nel determinare i flussi migratori contemporanei nel Mediterraneo.
Secondo Frontex – l’Agenzia Europea per la gestione delle frontiere esterne degli Stati membri – al 2016, la maggior parte dei migranti che sfrutta le rotte del Mediterraneo centrale e occidentale arriva da paesi che non si affacciano sul Mediterraneo. In questo senso, la Libia, la Tunisia e l’Egitto sarebbero solo dei “porti”, delle tappe intermedie. Prendere accordi con questi paesi, come fatto in passato da alcuni governi europei (in primis l’Italia), servirebbe dunque a poco per arginare il flusso costante di migranti provenienti dalle regioni sub-sahariana e centroafricana. È in queste regioni, infatti, che si trovano i paesi d’origine della maggioranza delle persone che migrano attualmente verso l’Europa: Nigeria, Senegal, Gambia, Somalia, Tanzania, Camerun, Costa d’Avorio e Guinea.
Escludendo la Nigeria e la Somalia, dove sono in corso conflitti armati rilevanti, è interessante notare come gli altri paesi non siano colpiti da guerre o stermini di massa.
Perché allora i popoli di questi paesi migrano? Le cause sono diverse, ma ve ne è una ancora poco approfondita: il land grabbing.
Un fenomeno sottovalutato
Il land grabbing, l’accaparramento di terreni agricoli in un paese straniero, è una delle questioni economiche e geopolitiche più controverse e meno indagate dell’ultimo decennio. Tale pratica non è certo una novità. Basti pensare alle conquiste dell’Impero Romano in Europa e Nord Africa (l’Antico Egitto era considerato il “granaio di Roma”), o alle potenze coloniali europee, all’espulsione brutale degli indigeni d’America dai loro territori, per arrivare all’espansione nazista in nome del Lebensraum. A essere nuove sono l’istituzionalizzazione, le modalità e la scala che questo fenomeno sta assumendo in un’epoca non coloniale.
Gli Stati non sono più protagonisti privilegiati, altri soggetti internazionali li stanno affiancando in questa serie di investimenti e acquisizioni di terre su larga scala: multinazionali del settore alimentare, istituzioni finanziarie, fondi privati, traders, ecc. Inoltre, il land grabbing contemporaneo non è un’esclusiva dei paesi occidentali, ma anche economie emergenti (e in alcuni casi ex-colonie) come Brasile, Cina o India stanno investendo pesantemente in terra arabile all’estero.
Ancora una volta, il continente africano, e in particolare la regione sub-sahariana, sembra essere il principale bersaglio di questa nuova “corsa alla terra”, seguita da alcune aree dell’Asia, dell’America Latina e dello spazio post-sovietico. Va comunque precisato che anche alcuni paesi non in via di sviluppo sono interessati da questo tipo di investimenti: Australia, Nuova Zelanda, Brasile, Argentina, Russia e Ucraina.
Una differenza con le passate acquisizioni di terra sta nel tipo di prodotto ricercato dagli investitori. Se nei secoli precedenti l’attenzione veniva data a colture redditizie come tè, banana, oppio e spezie varie, oggi invece gli investimenti riguardano soprattutto il grano e i potenziali agro-carburanti (riso, sorgo, mais, olio di palma e canna da zucchero).
L’ong spagnola GRAIN – tra le prime ad aver denunciato e raccolto dati sull’accaparramento di terreni a livello globale – ha individuato i due fattori che hanno maggiormente contribuito ad accrescere gli investimenti nei terreni agricoli, ovvero la ricerca della sicurezza alimentare e i rendimenti finanziari.
A seguito della crisi finanziaria iniziata nel 2007, e della collaterale crisi dei prezzi alimentari del 2008, i più grandi importatori di cibo (Stati del Golfo, Cina, India, Corea del Sud e Giappone) hanno deciso di acquisire terre fertili in altri paesi così da ridurre il rischio di dover sostenere costi crescenti per nutrire le proprie popolazioni.
Già nel 2006, alla vigilia del crollo dei mercati finanziari, la terra e i prodotti cui essa dà accesso (cibo, agro-carburanti, minerali e acqua) erano diventati un investimento sempre più attraente. In breve, essendo tangibile, la terra divenne un bene-rifugio sul quale speculare, molto più sicuro e affidabile del denaro virtuale o delle azioni. Investitori e speculatori internazionali cominciarono così la ricerca di nuove terre su cui insediare produzioni intensive di beni primari, sia prodotti alimentari che agro-carburanti.
Le grandi multinazionali del settore agro-alimentare, spesso d’accordo coi governi dei paesi sub-sahariani e centroafricani, si appropriarono di grandi appezzamenti di terreni a prezzi stracciati sul lungo termine (fino a 99 anni), con la promessa di costruire infrastrutture (strade, canali d’irrigazione, scuole, ospedali) o garantendo un “risarcimento” a coloro ai quali era stata sottratta la terra.
Dopo la stipula dei contratti, le comunità rurali di piccoli contadini e allevatori, private della loro terra, sono di solito costrette a migrare verso le città prima, e verso Nord poi. Naturalmente, non è sempre detto che questi “migranti ambientali” scelgano di raggiungere l’Europa e sono necessari ulteriori studi su come il land grabbing influenzi i modelli di migrazione.
In definitiva, la parola “migrazioni” tende a oscurare il fatto che aziende e agenzie governative europee (comprese quelle italiane) abbiano contribuito a questo processo.
Le persone che tentano di arrivare in Europa dalla sponda Nordafricana non sono solo rifugiati o profughi di guerra, ma anche contadini e pastori senza più la loro terra. In tal senso, il land grabbing rappresenta una delle principali cause delle migrazioni di massa attraverso il Mediterraneo.