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L’African appeal di Donald Trump, alle soglie della 45a presidenza USA

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L’Agenzia Dire riportava la provocazione del Premio Nobel africano Wole Soyinka, docente alla New York University e in visita ad Oxford, che in caso di elezione di Trump sarebbe stato pronto a strappare la propria green card e tornare in Nigeria. Poco male, si potrebbe obiettare: finalmente un moto contrario al brain drain che da secoli attanaglia il continente nero! Certo, ma anche un segno – uno dei tanti – di una campagna elettorale esasperata e delirante, che ha portato a un passo dalla Casa Bianca due esponenti detestati da almeno metà del Paese. Per le proprie assurde esternazioni xenofobe ed evasioni fiscali l’uno, per la fama di cinica corrotta guerrafondaia senza scrupoli l’altra. E in entrambi i casi, l’Africa non può che sentirsi direttamente chiamata in causa.

Per quanto la Libia tenga sempre desta l’attenzione di parte della pubblica opinione globale, è incontestabile che la guerra in Siria abbia – a ragione – catalizzato l’interesse mediatico, politico e diplomatico; questo significa che a un più generale pivot to Asia che ha sempre maggiormente caratterizzato gli orizzonti statunitensi negli ultimi anni, si è accompagnato un latente disinteresse verso ciò che accade in suolo africano, lasciato indietro dallo stallo di sangue che pare stringere in una morsa invincibile la popolazione siriana, destabilizzando ulteriormente un Medio Oriente già in sofferenza dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. Eppure, si sente spesso il richiamo all’Africa come alla nuova terra delle opportunità, al “futuro del mondo”, al nuovo orizzonte del business, della crescita sostenibile e perfino dell’innovazione scientifico-tecnologica. Cosa ne pensavano davvero i candidati allo Studio Ovale? In primis, sorprende – ma non troppo – la sostanziale assenza del continente nero dal dibattito elettorale (in controtendenza, come ovvio, rispetto alle due campagne elettorali di Barack Obama). Tenendo dunque presente come ci si costringa a basarsi su orientamenti e deduzioni più che su dirette citazioni di specifico significato, si può tracciare come segue qualche considerazione generale.

L’atteggiamento del neoeletto tycoon pare essere estremamente protezionista, non solo nei riguardi dell’Africa ma nel senso di un complessivo ridimensionamento della proiezione a stelle e strisce in politica estera. Non competerebbe a Washington, in sostanza, essere un global security provider, né tanto meno fungere da mediatore in situazioni nelle quali è facile rimanere impantanati a tempo indeterminato. E, scherzo del destino, il Daily Mail ha fatto notare a Donald come non solo nell’irrefrenabile globalizzazione in atto sia improprio accusare la Cina di “rubare lavoro” attraverso pratiche di concorrenza al ribasso, ma perfino la Cina stia oggi sperimentando lo stesso problema con la delocalizzazione di alcune attività produttive in territorio africano. L’isolazionismo di Trump e la sua (stravinta) ascesa alla presidenza degli Stati Uniti non possono che intimorire nazioni come il Sudafrica, fortemente esposte al capitale americano e dunque un domani meno appetibili per eventuali investitori esteri.

Essendo immensurabilmente più esperienziata del rivale, e avendo dominato la politica estera di Washington nel ruolo di Segretario di Stato (anche grazie alla sapiente guida di Henry Alfred Kissinger), la Clinton era assai più prevedibile rispetto al magnate; lo era perché le sue affermazioni rientravano nel circoscritto campo del politically correct, e nulla di diverso ci si attendeva da lei, ma anche poiché vi era molto materiale precedente da utilizzare come fondamenta per un giudizio, una previsione, un’aspettativa. Per esempio, c’era il suo impegno a riconoscere quello africano come un ambiente stimolante per le imprese ad alto tasso d’innovazione, con annessi summits afro-statunitensi ospitati a Washington, che l’aveva intitolata a ricevere il sostegno del Pan-African Business Forum. O c’era la presa di distanza dalle istanze neocolonialiste del marito, accompagnate da richieste di “aggiustamento strutturale” emesse da organismi quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale nei settori dell’agricoltura e della sanità. Sarebbe stato da chiedersi però se sarebbe risultata anche un interlocutore moralmente, eticamente credibile, soprattutto dopo l’evidente fallimento libico e la latitanza strategica nel post “primavere arabe”; una buona parte della diplomazia africana si aspetta che finalmente gli Stati Uniti collaborino alla democracy-building, più che perpetuare la sinergia con leaders anche sanguinari in ragione di una pretesa “stabilità” del continente. Proprio per questo, se analizziamo perceptions e misperceptions del “personaggio Donald” con gli occhi degli africani, scopriamo con relativa sorpresa che – razzismo, misoginia e sessismo a parte – la sua figura non è ovunque troppo detestata nemmeno dal cosiddetto establishment, arrivando talvolta a essere incredibilmente oggetto di stima e ammirazione. In altri termini: quando Trump si riferisce alla portata distruttiva della globalizzazione e alla conseguente necessità di provare a limitarla, intende riferirsi all’Africa come a una parte del problema (immigrazione, delocalizzazione industriale, terrorismo, ecc.) o come a un territorio ricco di risorse ma “eroso” dal problema stesso? Probabile l’azzardo che non lo sappia nemmeno lui stesso. Ma è un punto significativo, perché gli afroamericani sono molti, e non era scontato votassero tutti per l’ex First Lady, anzi…

La speranza che Pechino e Mosca – ma anche altri attori quali l’India o il Giappone – forse riponevano in un’Africa senza Clinton al timone delle truppe USA, equivalente ad avere mano libera verso un’ennesima spartizione silente del continente in “protettorati de facto”, si è inaspettatamente concretizzata. Eppure, che fosse l’uno o l’altra a uscirne trionfante, pare che nessuno intendesse revocare o depotenziare né il “President’s Emergency Plan for AIDS Relief” né l’“African Growth and Opportunity Act”. Il PEPFAR, al di là delle solite critiche destinate senza distinzioni a programmi di aiuto estero, e al di là della supposta ipocrisia con cui George W. Bush aveva riconosciuto nell’Africa una priorità in politica estera, si è dimostrato efficace nel ridurre significativamente il numero delle vittime della sindrome da immunodeficienza acquisita. L’AGOA, invece, è un atto legislativo con mire più segnatamente commerciali, volte a incrementare gli scambi tra USA e Africa Subsahariana, con incentivi e altre misure atti a facilitare le piccole e medie aziende statunitensi nel loro ingresso nel mercato africano, e il contrario. Esteso fino al 2025, l’AGOA è risultato essere di particolare efficacia in Ghana, Botswana, Kenya e Madagascar, per quanto alcune rimostranze siano state sollevate in merito al superficiale coinvolgimento delle controparti africane nella redazione del progetto legislativo. Se parte delle scuse addotte da Trump al fine di giustificare il proprio disengagement verso l’Africa risiede nella corruzione endemica, il PEPFAR e l’AGOA possono essere citate come prove che fare aid e business in Africa è equamente possibile, con risultati incoraggianti. Inoltre, almeno stando al più recente Corruption Perceptions Index, vi sono decine di nazioni asiatiche, latinoamericane e perfino europee che ben “competono” con l’Africa nel primeggiare in questo deprimente ranking; un ìndice che peraltro tiene in considerazione i sintomi corruttivi nel settore pubblico, quando è evidente che in nazioni come gli Stati Uniti la corruzione tra privati sia altrettanto impattante. La questione si profila ad ogni modo quale controversa, in quanto Trump sembrerebbe favorevole ad accordi bilaterali e contrario a quelli multilaterali, quale appunto l’AGOA. In un’election race in cui è stato detto tutto e il contrario di tutto (più che in altri casi, s’intende…), e in cui lo sconcerto ancora appanna riflessioni razionali, è difficile districarsi tra affermazioni elettorali che troppo spesso paiono intrinsecamente contraddittorie.

* M.Sc. Student in European and Global Governance alla University of Bristol e M.Sc. Offer Holder in International Public Policy alla University College London, dopo vari studi compiuti a Verona, Parigi, Milano, Leeds e Salisburgo. Ha lavorato, tra gli altri, per EXPO2015, UNESCO, African Summer School, World Youth Forum “Right to Dialogue” e Rome International Careers Festival, partecipando a progetti di formazione diplomatica in tutto il mondo. Ha presieduto conferenze accademiche di ambito giuridico e geostrategico. In Italia ha pubblicato decine di analisi e commenti per riviste specializzate tra cui Eurasia, Il Caffè Geopolitico, Vivere In, FiloDiritto, Sconfinare, Il Corriere delle Migrazioni.

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