I Territori palestinesi possiedono un posto del tutto particolare nella mitopoiesi della Repubblica islamica iraniana. La riconquista di Gerusalemme, terza città santa per l’Islam, rappresenterebbe agli occhi di Teheran la chiusura di un percorso iniziato con la rivoluzione del 1979. Ragion d’essere che gli impedisce ancora oggi di normalizzare una volta per tutte la propria postura strategica, dismettendo il filtro dell’appartenenza religiosa nell’osservazione del vicino estero. Ciò significherebbe anteporre in maniera definitiva la tutela dell’interesse nazionale al perseguimento di obiettivi di natura ideologico-religiosa, ridimensionando il peso che la dimensione islamica ha assunto all’interno dell’identità persiana.
17 agosto 1979: a pochi mesi dalla vittoria della rivoluzione, l’Ayatollah Khomeini dichiara che da quel momento in avanti l’ultimo venerdì di ramadan sarebbe stato celebrato in Iran come il Quds day, ovvero la festa di Gerusalemme. Una decisione che riassume il significato che per la rivoluzione iraniana possedeva e tutt’ora possiede la Palestina, considerata un territorio perduto e occupato, simbolo di tutti gli oppressi nel mondo. In questa rivendicazione sono racchiuse infatti tutte le dimensioni proprie della rivoluzione iraniana. In primo luogo quella islamica, ma anche anti-imperialista, terzomondista, anti-americana e anti-israeliana. A più di quarant’anni di distanza, ancora oggi ogni anno l’approssimarsi di tale ricorrenza rappresenta per Teheran il punto culminante di un climax narrativo e propagandistico in chiave anti-israeliana. Un’utile occasione per alimentare e rinvigorire l’adesione popolare allo spirito rivoluzionario e giustificare la supremazia delle istituzioni a legittimazione religiosa, l’hardware della Repubblica islamica, su quelle a legittimazione politico-democratica, software dell’impalcatura statuale iraniana. Quest’anno tale retorica ha trovato ulteriore alimento nel riacuirsi del conflitto israelo-palestinese, con Gerusalemme epicentro iniziale delle tensioni e la conseguente escalation tra lo Stato ebraico ed Hamas, la più grave dal 2014 – rubricabile come quarta Guerra di Gaza, per gli israeliani operazione ‘Guardiani delle Mura’, per l’organizzazione palestinese battaglia ‘Spada di Gerusalemme’.
Iran, potenza immatura
Reo di aver sottratto un territorio appartenente a una comunità musulmana, corpo estraneo e avamposto americano in Medio Oriente, Israele viene considerato dall’Iran propaggine all’interno del più vasto anti-americanismo rivoluzionario. Sentimento prevalente e unificante nelle fasi salienti della rivoluzione del 1979, a quelle latitudini percepita anzitutto come una guerra di liberazione nazionale. Un momento di riappropriazione del glorioso passato persiano dopo una lunga fase di dirottamento e umiliazione a opera di potenze straniere iniziato più di un secolo prima, piuttosto che una catarsi ideologico-religiosa in salsa islamica. Quindi una rivoluzione anti-americana prima che islamica. Non a caso, nelle prime fasi la componente islamica rappresentava solamente una delle tante anime della rivoluzione, che al contrario vide protagonisti anche nazionalisti, democratici, liberali e marxisti. In grado, tuttavia, di prendere il sopravvento in un secondo momento grazie all’abilità dell’élite di provenienza religiosa e al carisma dello stesso Khomeini. Pertanto, la Repubblica Islamica rappresenta solo l’ultima evoluzione che contraddistingue un paese che al contrario possiede una memoria storica millenaria. L’epidermide e non lo scheletro dell’Iran. Uno schmittiano Stato d’eccezione e non un approdo definitivo, in un lungo percorso di transizione intrapreso nel 1979 e non ancora concluso in cui l’Iran si presenta come una potenza immatura. A metà del guado tra la volontà di normalizzare definitivamente la propria postura riappropriandosi una volta per tutte dell’eredità persiana – in termini pratici, riqualificando le proprie radici storiche millenarie e ponendosi in continuità con tale passato – oppure completare un percorso incompiuto verso la costruzione di uno Stato islamico tout court.
La risultante dell’attuale incompiutezza è una postura strategica criptica, enigmatica e ambigua, la cui cifra più riconoscibile è proprio l’approccio di Teheran alla questione palestinese. Una postura, quella attuale, in grado di obliterare in un batter d’occhio il millenario legame tra il popolo ebraico e quello persiano. Incantesimo spezzato dalla rivoluzione del 1979. Si pensi, ad esempio, al ruolo giocato in epoca antica da Ciro il Grande, Imperatore del primo grande Impero persiano della storia, l’Impero achemenide, il quale nel 538 a.C. pose fine all’esilio babilonese degli ebrei permettendogli di tornare nell’antica terra israelitica da dove erano stati cacciati un cinquantennio prima da Nabucodonosor II; o più recentemente alla solida alleanza tra il nascente Stato israeliano e l’Iran monarchico della dinastia Pahlavi nel quadro di quella che l’allora Primo Ministro israeliano, David Ben Gurion, definì la Dottrina della Periferia.
Tra minimalismo realista e massimalismo ideologico: la strategia della deterrenza attiva
È possibile assimilare la postura strategica iraniana al moto di un pendolo privo di isocronismo. Alla base, l’Iran si presenta come un attore revisionista dell’attuale ordine regionale. Pertanto, interessato a modificare lo status quo e gli attuali rapporti di forza, all’interno dei quali si percepisce come impossibilitato a perseguire i propri fini. Tuttavia, il proprio revisionismo non segue una traiettoria lineare, bensì oscilla alternativamente tra un minimalismo di stampo realista e un massimalismo di matrice ideologica. Nel primo caso, interessato al perseguimento dei propri interessi nazionali (interest-oriented). Nel secondo, attratto dalla prospettiva di raggiungere obbiettivi di natura ideologico-religiosa (value-oriented). Se nel primo decennio khomeinista il dato ideologico risultava prevalente, con la morte del leader supremo la fase ideologica è scemata progressivamente pur lasciandosi alle spalle dei residui non smaltiti e tutt’ora ineliminabili. Infatti, rinnegarli completamente significherebbe abiurare al patto costituente su cui si fonda l’attuale assetto di potere. Pertanto, a oggi un profondo senso del limite informa la strategia della Repubblica islamica, la quale non è più disposta a suicidarsi in nome di Dio. A prevalere è il pragmatismo, tratto distintivo dell’adagio strategico persiano ancor prima della rivoluzione del 1979.
Uno degli architravi più rappresentativi dell’ambiguità strategica iraniana è quella che può essere definita la strategia della deterrenza attiva. Un accostamento apparentemente ossimorico che riesce tuttavia a cogliere il senso più autentico dell’attuale estroversione regionale di Teheran, coinvolta in vari teatri di scontro regionali. Il fine ultimo di tale postura è tuttavia quello di poter guardare con sicurezza all’interno dei propri confini. Il risultato è una politica di deterrenza, perciò stesso aspirante a schivare e non affrontare frontalmente la minaccia, connotata al contempo da un’attitudine dinamica e proattiva. Dal suo punto di vista, l’aumento progressivo dell’impegno politico, economico e militare nella regione significa rimandare a data da destinarsi il giorno in cui dovrà combattere per preservare la propria integrità territoriale. Interpretata come pure difesa avanzata mentre viene percepita dai suoi detrattori come una postura offensiva estremamente aggressiva. Non a caso il regno della strategia non è alimentato da una logica di tipo lineare ma di natura paradossale. Un grande bluff, laddove un atteggiamento estremamente offensivo è in realtà sinonimo di debolezza. Si tratta di una strategia non convenzionale ritenuta necessaria a causa dell’inferiorità convenzionale che contraddistingue l’Iran nei confronti del suo più grande rivale: gli Usa, ovvero la superpotenza numero uno, e i relativi alleati regionali. L’ambiguità di tale razionalità strategica rileva la compresenza di un minimalismo realista e di un massimalismo ideologico.
Il senso della questione palestinese per l’Iran
Come precedentemente affermato, l’approccio iraniano alla questione palestinese è l’espressione più rappresentativa della propria ambiguità strategica. Infatti, non esiste propriamente una politica iraniana unitaria nei confronti di tale questione. Piuttosto, è possibile individuare una postura bisecata tale per cui esiste, allo stesso tempo, un approccio iraniano alla questione palestinese ma anche una politica iraniana nei confronti dei singoli attori palestinesi, a sua volta differenziata a seconda del soggetto considerato. I due piani non sempre coincido. Il sentimento che lega la Repubblica islamica alla Palestina, il medesimo da quarant’anni a questa parte, è di natura massimalistico-ideologica, informato da una forte solidarietà nei confronti di un territorio che in tale prospettiva dovrebbe far parte del Dar al-Islam e di una città sacra come Gerusalemme la cui riconquista rappresenta per qualsiasi musulmano un taklif, ovvero un dovere religioso. Al contrario, il rapporto che lega Teheran a ciascun movimento o partito palestinese è di tipo materiale, cioè orientato pragmaticamente al perseguimento del proprio interesse nazionale. Nella seconda accezione è possibile considerare i Territori palestinesi alla stregua di un qualsiasi altro campo di battaglia: la questione palestinese non viene più osservata attraverso la lente della fede ma come una mera questione politico-strategica, perciò stesso esposta a contrattazione.
Si badi bene: ciò non vuol dire che il fattore ideologico-religioso non abbia giocato alcun ruolo, tutt’altro. Esso ha rappresentato un utile giustificante tramite cui sottrarre la questione palestinese alla retorica nazionalista pan-araba, etnico-centrica, rendendola al contrario un affare islamico, religioso-centrico. Un percorso avviatosi alla fine degli anni ’70, quando la pace tra Egitto e Israele sottrasse ai palestinesi il principale paese protettore; proseguito negli anni ’90 con il processo di Oslo, tramite cui l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e la Giordania hanno a loro volta stabilito un percorso di conciliazione con lo Stato ebraico; conclusosi con gli Accordi di Abramo dello scorso anno, tramite cui si è assistito allo scorporamento definitivo tra due dossier fino a quel momento tenuti intrinsecamente connessi, ovvero la relazione tra gli Stati arabi e Israele da una parte, e il rapporto tra israeliani e palestinesi dall’altra – quello che, in altre parole, veniva definito il veto palestinese. Non è un caso, pertanto, che negli ultimi anni i maggiori sponsor internazionali del fronte palestinese siano diventati due paesi non arabi: la Turchia di Erdoğan e, appunto, l’Iran (con un ruolo più defilato del Qatar, orbitante all’interno della medesima galassia dell’Islam politico).
La politica iraniana verso gli attori palestinesi
In definitiva, a conferma di quanto detto è utile accennare alla politica iraniana nei confronti dei singoli attori del fronte palestinese. Attualmente nella capitale iraniana sono attive ben tre rappresentanze diplomatiche palestinesi – Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Hamas e Jihad islamico palestinese (JIP) proprio a sottolineare la difficoltà iraniana di costruire un’agenda coerente e unitaria. Semplificando, Teheran suddivide in due categorie gli attori palestinesi. Da una parte c’è il fronte dei conciliatori, ovvero tutti quei partiti, movimenti e fazioni che compongono l’OLP e che attraverso il percorso di Oslo hanno riconosciuto lo Stato di Israele attraverso la loro istituzionalizzazione all’interno dell’Autorità nazionale palestinese (ANP), – un processo iniziato già nel 1988 quando per la prima volta Arafat ha aperto al riconoscimento della risoluzione 242/1967 del Consiglio di Sicurezza Onu sulla soluzione dei due Stati. Tale fronte viene ritenuto da Teheran scarsamente sfruttabile e pressoché impermeabile alla propria penetrazione. Infatti, dalla fine della Seconda Intifada (2005) si è assistito a un percorso di progressiva israelizzazione dell’ANP e della Cisgiordania, cioè del territorio in cui essa attualmente governa, praticamente ridotta ormai a provincia dello Stato ebraico che ne controlla la sicurezza, l’economia e il territorio. Inoltre, da un punto di vista demografico, socio-economico e religioso la Cisgiordania è scarsamente contendibile, in quanto dominata da un folto notabilato palestinese spesso appartenente alla minoranza cristiana che rifiuta categoricamente l’influenza iraniana. Borghesi, businessman e intellettuali che preferiscono tacitamente l’influenza israeliana piuttosto che la prospettiva di uno Stato indipendente in conflitto permanente e magari a trazione islamica. Una élite che preferisce il tarbush alla kufya.
Le cose potrebbero cambiare nello scenario di un’annessione unilaterale di porzioni cisgiordane da parte di Israele – come paventato lo scorso anno – andando a rintuzzare focolai di tensione mai completamente sopiti, sebbene sconosciuti da un quindicennio a questa parte (Operazione Scudo difensivo, 2002). Lo scorso anno sono emersi segnali in questo senso, con Teheran impegnata a rinvigorire la cooperazione con le seconde linee del fronte palestinese in Cisgiordania, in particolare con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP). Attore moribondo, rimasto a lungo in sordina dopo i fasti degli anni ’70, potrebbe in futuro rappresentare un cavallo di Troia iraniano in Cisgiordania qualora si presentasse uno scenario conflittuale fino a qualche tempo fa insperato. In particolare, tramite la propria ala militare, la Brigata Abu Ali Mustafa, potrebbe benedire l’apertura di un fronte orientale da cui la Repubblica islamica tenterebbe di asfissiare Israele, circondandolo.
A tale fronte si contrappone lo schieramento dei resistenti, formato idealmente da quei movimenti che tutt’oggi non riconosco lo Stato israeliano, aderiscono alla lotta armata e aspirano alla sua distruzione. I più importanti sono Hamas e il JIP. Si tratta di quelle fazioni che sottolineano la connotazione islamica della lotta contro Israele contrastando la dimensione laica e unicamente nazionale di cui si fanno promotori i conciliatori. Entrambi insistono massimamente all’interno della Striscia di Gaza, territorio prioritario agli occhi persiani, sebbene soprattutto Hamas abbia tentato in passato di estendere i propri tentacoli in Cisgiordania durante la così detta ‘svolta partecipativa’ del 2005-06 che l’aveva portato a un parziale ingresso nelle istituzioni dell’ANP – nel 2007 con il golpe del movimento islamico a Gaza si è aperta invece una guerra civile palestinese ancora in corso. Il Jihad islamico palestinese è ideologicamente il movimento più affine alla Repubblica islamica essendo nato, per bocca del suo stesso fondatore, Fathi al-Shaqaqi, per estendere i principi rivoluzionari iraniani nei Territori palestinesi. In esso manca infatti una vera e propria dimensione nazionale della lotta contro Israele, in quanto la Palestina viene considerata unicamente alla stregua di una provincia dell’intero mondo musulmano.
Nonostante ciò, oggi è Hamas la fazione più utile nell’equazione strategica iraniana, sebbene pecchi di una reale affinità ideologica. Infatti, Hamas è un movimento originariamente orbitante all’interno della galassia della Fratellanza musulmana egiziana che solo in un secondo momento ha acquisito anche una propria dimensione nazionale e armata. La sua maggiore importanza agli occhi di Teheran è determinata dall’evoluzione in senso istituzionale che ha compiuto a partire dal 2007. Da movimento politico-militare, oggi Hamas è diventato espressione di una vera e propria entità proto-statuale che insiste su Gaza, in grado di stabilire con l’Iran un rapporto a un livello più elevato, tra governi. A conferma che il baricentro dell’attuale postura strategica iraniana è maggiormente rivolto verso un minimalismo di matrice realista. Nonostante la retorica affermi il contrario, l’Iran in questa fase ha dismesso l’obiettivo massimalista della distruzione di Israele. Al contrario, Teheran al momento ambisce a stabilire un avamposto permanente da cui minacciare lo Stato ebraico in quanto propaggine della presenza americana nella regione, così da creare un’efficace rete di deterrenza con cui ritagliarsi il proprio posto in un mondo che, chissà per quanto ancora, canterà The Star-Spangled Banner brandendo la bandiera a stelle e strisce.