Le notizie che ci giungono, in questi giorni, da Idlib mostrano più che mai come l’ascesa egemonica nel MENA si traduca in una temibile “sfida a due”, che vede protagonisti il Sultano Erdoğan e lo zar Putin. Una sfida tra una Turchia ambivalente che si muove nella veste di alleato NATO e di garante dell’accordo di Astana, ma che persegue malcelati fini espansionistici e, un Cremlino interessato a manifestare le riconquistate doti di mediatore regionale.
La guerra civile siriana
Una guerra civile, quella siriana, che è andata internazionalizzandosi contestualmente all’emergere del pericolo ISIS. Di fronte all’incontenibile Stato islamico solo la discesa in campo delle forze militari russe e iraniane ha permesso di risollevare le sorti del regime siriano. All’indomani, infatti, della sconfitta del califfato, durante il 2017, Assad sostenuto dalle forze aeree russe e dalle milizie sciite di Teheran, ha potuto riconquistare numerosi territori controllati dai ribelli come Darāyā, Aleppo est e il Ġūṭa orientale. Tranne Idlib capace di resistere altri due anni grazie al sostegno militare ed economico garantito da Arabia Saudita, Qatar,e Turchia. I principali competitors mediorientali si sono, così, trovati a fronteggiarsi sul terreno siriano generando una miscela “geopolitica” esplosiva.
Le ambizioni russe
Il progressivo rafforzamento militare di Assad ha corrisposto, al contempo, alla volontà di abbandonare ogni possibile via negoziale per la risoluzione della crisi siriana. Soltanto, l’ingresso di una potenza politica terza ed autorevole avrebbe consentito di aprire un tavolo di confronto. A fronte della politica americana di selective engagement, quel ruolo è automaticamente spettato al Cremlino. Putin si è prontamente attivato ad aprire un parallelo processo diplomatico, ad Astana, tra i contendenti. Il migliore risultato del processo di Astana è stata la approvazione, nel corso del 2017, di aree di de-escalation tra ribelli e forze governative, ovvero di aree protette ove consentire l’arrivo degli aiuti umanitari. Le zone di de-escalation hanno incluso la provincia di Idlib, alcune parti delle sue zone limitrofe nelle province di Latakia, Hama e la zona nord della città di Homs, il sobborgo damasceno di Ghouta, nonché le province di Daraa e al-Quneitra nel sud della Siria. Garanti del rispetto di tali zone sarebbero stati precipuamente i rispettivi alleati, la Russia e l’Iran, da un lato, e la Turchia dall’altro. Mediante l’attivazione del Processo di Astana il Presidente Putin ha colto l’occasione di divenire l’interlocutore privilegiato nella regione, con l’intento di giungere a vantare una sfera di influenza che va dalla Crimea ai territori oltre il Caucaso e interporsi nelle relazioni geopolitiche con la medesima autorevolezza della vecchia Urss
Le ambizioni turche
Nel corso della guerra profili di inadempimento dell’accordo di Astana sono stati individuati nella condotta di uno dei garanti, la Turchia. Già nell’autunno 2018 la Turchia ha schierato proprie truppe ad Idlib formalmente con l’obiettivo di far rispettare le clausole dell’accordo. In realtà, anziché schierarsi tra ribelli e regime, le truppe di Ankara hanno proceduto verso l’enclave curda di Afrin, con il fine di usare l’accordo per spingersi sempre più a Sud nella Siria, e riaffermare il potere su ex-domini ottomani. D’altronde, Erdoğan, è stato il primo presidente ad aver politicamente sfruttato la ricostruzione storiografica delle gesta imperiali ottomane, riappropriandosi del trauma identitario causato dal Trattato di Losanna del 1923. La guerra di Siria ha, dunque, rappresentato per Ankara il presupposto per la ricostruzione della Grande Turchia dei primi del ‘900. Non a caso, molteplici sono state le operazioni condotte oltreconfine: dall’operazione “Scudo dell’Eufrate” del 2016, alla operazione “Ramo d’Ulivo” del 2018 sino all’operazione “Fronte di pace”, di vero e proprio sventramento del Rojava. In questo modo Ankara impedisce l’unificazione delle zone dell’Antico Kurdistan, mentre si riappropria di ampie zone della vecchia area di influenza ottomana in Siria a ridosso del confine turco. Zone di influenza esclusivamente turca come conferma il contenuto dell’accordo di Sochi, tra il presidente Putin e il presidente turco Erdoğan in merito alla creazione di una”safe zone” estesa a est del fiume Eufrate per 440 km lungo il confine con la Turchia. Dall’autunno 2019, Ankara mantiene, infatti, il controllo di un territorio di 120 km di estensione e 30 di profondità, compreso tra le città di Tel Abyad (ovest) e Ras Al-Ayn. Ma auspica di proseguire verso sud ovvero verso Idlib per creare una zona cuscinetto ancora maggiore ove, in primis, collocare, i milioni di profughi siriani assiepati sul confine e, in secundis, allontanare il più possibile le truppe di Assad dal proprio territorio. Infatti, Erdoğan teme ritorsioni da parte di colui che si è scelto, politicamente, come primo nemico nella Regione. Ne costiuisce una riprova la risoluzione approvata, nelle scorse ore, dal parlamento siriano volto a riconoscere il genocidio degli armeni perpetrato dagli ottomani dal 1915. La approvazione è stata accompagata da una puntigliosa dichiarazione del presidente del Parlamento siriano Hammouda Sabbagh “Ora vediamo l’aggressione turca come basata sull’ideologia razzista ottomana”. Una provocazione, al momento, soltanto formale ma che preannuncia ulteriori scintille sul campo di battaglia.
Arabia Saudita, Iran e Usa
L’esuberante politica turca ha fatto sì che altri autorevoli attori regionali si svincolassero dalla questione siriana. L’Arabia Saudita ha preferito occuparsi delle problematiche interne e della instabilità yemenita. L’Iran, invece, dopo le rappresaglie attuate, in territorio iracheno, in risposta alla uccisione del comandante Qasem Soleimaini, preferisce attendere restando ad osservare le prossime mosse dell’”odiata” America e del Cremlino. Dal canto suo, Washington mantiene ufficialmente la linea adottata di ripiegamento e di progressiva uscita dal Medio Oriente. Una politica che ha spinto in questi anni le principali potenze mediorientali a tentare l’ascesa ad egemonia regionale. Una rincorsa egemonica che, però, al momento ha visto l’emergere di una inarrestabile Turchia e di una attenta ma poco efficace Russia. Chi ne uscirà vincitore? Lo deciderà solo la battaglia di Idlib.
La contesa di Idlib
La contesa di Idlib sta vedendo protagonisti sul campo l’esercito di Ankara e quello Damasco. E per quanto le rispettive fila hanno contato anche dei morti, la resa dei conti non vedrà partecipe il regime di Assad ormai sfiancato e sull’orlo del fallimento economico, bensì il Sultano Erdoğan e lo zar Putin, principale sostenitore di Assad. Entrambi presentano il desidero di contrapporsi egemonicamente a Washington. Entrambi sono stati gli artefici dei negoziati diplomatici in Siria ma non necessariamente entrambi sapranno contenere i propri egoismi e conservare la giusta lucidità di risoluzione delle problematiche regionali. Di certo, la politica “neo-imperialistica” di Ankara costituisce la principale ragione di crisi e Putin ha tutto l’interesse di paventare le doti di mediatore. Allo stesso tempo, le truppe turche stanno operando per la prima oltre i propri confini manifestando spesso un certo grado di impreparazione. A loro favore propende, però, il possibile stanziamento di nuove risorse dalla capitale a fronte della consolidata ripresa economica, dopo la svalutazione della lira turca. Diversamente, il Cremlino teme ancora l’acutizzarsi della stagnazione economica difficile da contenere se si prosegue con l’esborso di risorse nei principali focolai regionali. Non solo. A favore di Ankara gioca la duplice veste di alleato NATO e di garante dell’accordo di Astana. Infatti, la NATO ha invitato Assad e il suo principale alleato, la Russia, a interrompere gli attacchi, alla luce delle precarie condizioni in cui si ritrovano le popolazioni civili della zona. Contrariamente, Erdoğan ha giustificato il movimento di circa 9000 uomini nelle zone di Latakia, limitrofa a idlib, come funzionale al controllo dell’area e al consolidamento del cessate il fuoco. Una perversa ambivalenza che cela gli effettivi fini della politica estera del Sultano. Dal canto suo, Trump auspica che si generino, nell’area mediorientale, uno o più competitors di dimensione regionale che tengano sotto controllo i focolai in corso, riservando, però, a sé soltanto la facoltà di intervento diretto nell’ipotesi che questi falliscono nell’adempimento del loro compito. Ne deriva la sottesa volontà di conservare sempre una attenzione particolare verso la zona del MENA: lo dimostra il dispiegamento di ben 14mila unità militari durante il 2019, unità aumentate di 3500 unità dopo l’avvio dell’escalation Iraniana. Dunque, la volontà di Washington di selezionare le aree geopolitiche di intervento militare diretto non si è tradotto sino ad ora in un totale disinteresse per il Medio Oriente. Perciò, non può escludersi un futuro intervento, nella Regione, americano volto a limitare possibili rovinosi esiti da questa perversa “sfida a due” di Russia e Turchia.