Il prossimo 16 aprile, in Turchia si terrà un referendum costituzionale per l’approvazione definitiva della riforma in senso presidenziale voluta dal partito AKP, di cui fino al 2014 è stato leader il Presidente Recep Tayyip Erdogan. Attualmente, la Turchia è una Repubblica parlamentare, in cui il capo dello stato è eletto dalla Grande Assemblea Nazionale, unica camera del Parlamento di Ankara.
In molti in Occidente vedono la riforma turca come un tentativo di accentramento del potere politico nelle mani del presidente, a discapito della struttura democratica del paese. Non è un segreto, infatti, che il capo dello stato punti ad una svolta in senso presidenziale dell’assetto istituzionale di Ankara, già orfano del ruolo di garante affidato alle forze armate dalla costituzione del 1982, che creava così una sorta di democrazia tutelata: dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016 e i successivi arresti, le forze armate di Ankara non avrebbero la capacità di assolvere a tale compito.
Il 21 gennaio scorso, il Parlamento di Ankara ha approvato il testo di riforma costituzionale con la richiesta maggioranza qualificata dei tre quinti dei votanti, grazie all’appoggio fondamentale fornito dal partito di estrema destra MHP. Più nel dettaglio, la riforma costituzionale ridisegna il sistema istituzionale in senso presidenziale, con la scomparsa della figura del primo ministro e l’elezione diretta del capo dello stato che rappresenterebbe, a quel punto, anche il capo del governo, con la possibilità di nominare e destituire i ministri dell’organo esecutivo, ma anche di rimanere leader della formazione partitica di cui è espressione. Nel caso in oggetto, Erdogan potrebbe tornare a ricoprire anche la carica di capo dell’AKP. A tutto questo c’è da aggiungere un’ulteriore critica avanzata dai detrattori della riforma. Quest’ultima, infatti, se da una parte lascia invariati durata e numero dei mandati presidenziali, rispettivamente pari a cinque anni e due mandati, risulta essere piuttosto vaga circa l’applicabilità di tale norma. In altri termini, i critici della riforma si domandano se, una volta approvati gli emendamenti alla costituzione con il referendum di aprile, il conteggio del numero dei mandati di Erdogan, eletto alla presidenza della repubblica per la prima volta nel 2014, debba essere azzerato. In questo caso, una sua eventuale vittoria alle ipotetiche elezioni presidenziali del 2019 rappresenterebbe l’inizio del suo primo mandato ai sensi del nuovo testo costituzionale. Tali considerazioni, unitamente alla gestione quasi personale del potere da parte di Erdogan, hanno fatto sorgere dubbi sulla reale tenuta delle istituzioni democratiche del paese. Un esempio può essere offerto dalla destituzione dell’allora Primo Ministro Ahmet Davutoglu, ex Ministro degli Esteri di Ankara e principale sostenitore del pensiero neo-ottomano. Le dimissioni di Davutoglu, nel maggio 2016, avevano tra le proprie cause anche le divergenze tra l’ex Premier ed Erdogan tanto in riferimento agli arresti compiuti contro giornalisti e accademici, quanto sulla riforma costituzionale medesima, a cui Davutoglu non sembrava voler dare la priorità voluta dal capo dello stato. Essendo compito del primo ministro presentare il disegno di riforma al Parlamento, diviene chiaro come tale divergenza fosse sostanziale.
Il referendum del prossimo aprile si inserisce in un contesto internazionale particolarmente fluido. Se da una parte l’attività dell’ISIS in Siria e Iraq si è notevolmente ridotta in termini di capacità militari e di proiezione della forza jihadista, dall’altra ha mantenuto un’elevata intensità per quanto concerne l’organizzazione e l’attuazione di attentati terroristici, soprattutto nella penisola anatolica. A ciò è necessario aggiungere le difficili relazioni con la minoranza curda nel paese e con i gruppi armati curdi in Siria, rapporti che si sono gravemente deteriorati in concomitanza ai risultati ottenuti da tali milizie nel nord del paese di Bashar Al Assad. Le autorità turche, infatti, temono che un’eventuale autonomia regionale curda in Siria possa portare a simili richieste da parte della medesima minoranza presente entro i confini di Ankara. Per questo motivo, per evitare la possibilità di una contiguità territoriale curda nel nord della Siria, il cosiddetto Rojava, forze turche sono entrate nella regione per impedire alle milizie peshmerga di proseguire ad ovest dell’Eufrate.
Tuttavia, la questione referendaria è entrata prepotentemente anche nel dibattito europeo, dopo che il Governo olandese ha rifiutato, per ragioni di sicurezza, l’autorizzazione all’atterraggio al Ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu, che avrebbe dovuto tenere un comizio elettorale di fronte ai cittadini turchi residenti nel paese nordeuropeo. Il diniego olandese ha aperto una grave crisi diplomatica tra i due paesi, con le autorità di Ankara che accusano apertamente L’Aia di neonazismo. Ma al di là degli eccessi verbali, ciò che più preoccupa le cancellerie europee è la minaccia, avanzata dal Ministro per gli Affari Europei Oma Celik, di voler rivedere gli accordi presi con l’UE relativamente all’ingresso nel Vecchio Continente di migranti irregolari attraverso il territorio anatolico. Tale accordo prevede che, da una parte, i migranti entrati illegalmente in Grecia vengano ricondotti in Turchia, mentre dall’altra afferma il principio conosciuto come “uno per uno”, in base al quale per ciascun migrante ricondotto entro i confini di Ankara, un altro sia accolto in uno dei paesi europei. Questo accordo, sebbene criticato da organizzazioni non governative e dallo stesso Alto Rappresentante ONU per i Rifugiati (UNHCR), ha ridotto drasticamente gli ingressi irregolari in Europa lungo la cosiddetta rotta balcanica. Quindi, la minaccia avanzata dal Ministro Cavusoglu, se fosse portata alle sue estreme conseguenze, potrebbe riaprire tale tratta, creando ulteriore tensione all’interno dell’UE, proprio nell’anno di importanti tornate elettorali, fondamentali per capire quale futuro abbia davanti a sé l’Unione.
L’approvazione del testo di riforma costituzionale da parte del Parlamento di Ankara rappresenta una repentina accelerazione verso la tornata referendaria poi fissata per il 16 aprile. Ma se tale rapidità, dietro cui si nasconde la volontà del capo dello stato, rischia di essere incomprensibile alla luce dei recenti rilevamenti demoscopici che fotografano una profonda incertezza sul possibile esito, può essere spiegata tramite alcuni elementi caratterizzanti l’attuale scenario politico turco. Da una parte la situazione economica impone rapidità alle decisioni di Erdogan a causa della svalutazione della lira che ha perso molto del proprio valore nei confronti dell’Euro e del Dollaro, ma anche a causa del crollo degli investimenti diretti esteri. Un altro elemento è la minaccia terroristica, sempre presente in Turchia e che può minare la fiducia dell’elettorato nella leadership del capo dello stato. Infine, la questione curda: il partito di estrema destra MHP ha condizionato il proprio sostegno alla riforma con il rifiuto di concedere alla minoranza etnica le richieste avanzate nel corso degli anni. La retorica nazionalista che finora ha caratterizzato il processo di riforma rischia di esacerbarsi durante la campagna referendaria, soprattutto se il PKK, braccio armato curdo, dovesse portare avanti attacchi contro Ankara. Per questi motivi, il presidente Erdogan non sembra voler perdere tempo e, anzi, ha finora mostrato la volontà di chiudere rapidamente la propria scommessa referendaria trasformando l’assetto istituzionale turco e assicurandosi quella legittimità nella gestione del potere politico che egli stesso ha avocato a sé dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016. Se il voto di aprile darà a Erdogan la vittoria che cerca, nuovi scenari potranno aprirsi in Turchia e nel resto del Medio Oriente.