Il 12 Ottobre 2017 si è tenuto il primo incontro del ciclo di tre conferenze dal titolo Nuovi orizzonti della geografia: la geopolitica oggi, dedicato all’analisi della geopolitica contemporanea e alle potenzialità interdisciplinari della geografia. Gli incontri prevedono un dibattito tra geografi, accademici di altre discipline e redattori della rivista Limes a partire dalla proiezione di alcuni moduli del documentario Cos’è geopolitica, realizzato dal professor Edoardo Boria.
I lavori sono stati aperti dall’ex presidenti Franco Salvatori, che, dopo aver ringraziato gli organizzatori di quest’iniziativa, ha ricordato il fardello ideologico che a lungo ha pesato sul destino della geopolitica fino alla sua riscoperta negli ultimi decenni, stimolata ad esempio da Lucio Caracciolo con la sua rivista e dai lavori del professor Pasquale Coppola (tra cui Geografia politica delle regioni italiane).
Dopo la proiezione dei moduli su La geopolitica per l’azione e i suoi rischi e su La geopolitica degli intellettuali, degli statisti e del grande pubblico, ha preso la parola il professor Marco Maggioli, moderatore del dibattito, che ha menzionato una delle questioni principali delle discussioni attuali in geopolitica, cioè il passaggio da un’unica dimensione del potere, legata tradizionalmente allo Stato, ad una pluralità di luoghi e scale diverse. Questa consapevolezza deve accompagnare ogni riflessione sul rapporto tra gli intellettuali e le molteplici forme del potere che costellano le società contemporanee. Valga su tutti l’esempio recente della Catalogna e di come un potere ritenuto legittimo a livello regionale, grazie alla coesione sociale dei cittadini e ai loro obiettivi comuni, possa contrapporsi al potere legale della capitale Madrid.
Il professor Alessandro Colombo, titolare della cattedra di Relazioni Internazionali all’Università di Milano, ha evidenziato da subito due questioni cruciali da tenere bene a mente. In primo luogo, che chiunque si occupi di discipline quali la geopolitica o la teoria delle relazioni internazionali finisce per agire sulla realtà, che lo voglia o meno, in una relazione col potere che tuttavia non deve essere necessariamente di subordinazione. Quindi, ha aggiunto che vi sono diversi modi con cui il rapporto tra intellettuali e potere si è dispiegato a seconda di vari momenti storici. Se una volta non era raro che gli accademici italiani venissero accusati di isolamento, oggi al contrario il problema deriva dall’ispessimento continuo delle relazioni, specialmente a causa di ragioni economiche che spingono gli intellettuali nelle direzioni privilegiate dal potere. Il professor Colombo ha individuato tre rischi connaturati ad un rapporto squilibrato tra le due dimensioni, in particolare per chi studia discipline relative alla politica internazionale. Primo, subordinare la scelta dei temi di ricerca alle questioni più rilevanti per i decisori pubblici del momento porta all’automatico restringimento degli orizzonti delle discipline, che seguono strategie policy – oriented al fine di ottenere più fondi per le loro ricerche. Secondo, decidere di approfondire argomenti di stretta attualità con la speranza di esercitare una qualche influenza sulle politiche pubbliche conduce spesso gli accademici verso temi storicamente secondari. La fascinazione di temi mainstream può distogliere l’attenzione degli intellettuali dalle vere minacce della quotidianità internazionale. Terzo, una relazione troppo a senso unico con i decisori politici può portare gli accademici ad adottare acriticamente la definizione dei concetti e le prospettive che essi propongono, finendo per farsi condizionare troppo dal “principe” invece di esserne “consiglieri”, com’è accaduto con le guerre in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2006.
Ha preso poi la parola Dario Fabbri, giornalista e coordinatore dell’area America di Limes, che sulla scia di Colombo ha affermato che la presunta influenza degli intellettuali sui decisori politici è sopravvalutata, anche a causa dei limiti posti agli stessi decision makers. La geopolitica dovrebbe essere asettica, saper fare a meno dei condizionamenti della politica e comprendere che il suo contributo all’elaborazione della politica estera è limitato, tanto dal punto di vista tattico che soprattutto strategico. Sulle scelte a medio e lungo termine infatti i suggerimenti e le teorie degli intellettuali pesano meno dei fattori strutturali di un determinato paese. Le caratteristiche geografiche modellano il comportamento delle potenze nello spazio globale e ispirano le loro azioni. Un grande margine d’azione nelle scelte strategiche hanno anche le burocrazie e gli apparati dello Stato, a cui secondo Fabbri viene dedicata una scarsa attenzione in Italia. Il ruolo di questi artigiani della politica estera in realtà non è da sottovalutare poiché ad essi è riservato un notevole margine d’azione, come accade ad esempio negli Stati Uniti, essendo parte di quei pesi e contrappesi che bilanciano e contengono l’autonomia decisionale del presidente.
Fabbri ha poi sottolineato ancora quanto sia fondamentale per chi si dedica all’analisi geopolitica non innamorarsi dei temi più in voga del momento, che risultano sempre di secondo piano rispetto ai dati strutturali di un paese o area geografica. Sempre a proposito di Stati Uniti, sarebbe opportuno ricordare che la maggior rivoluzione da essi vissuta in questi primi anni del XXI secolo non riguarda la politica, come sembrerebbe emergere dalla figura di Donald Trump, ma la demografia, con percentuali sempre più alte di ispano-americani e di immigrati messicani nella parte Sud Occidentale del paese. Il destino di Washington si gioca più su quel confine che nei teatri del Medio oriente o dell’Asia Pacifico, come ricordava anni fa un altro geografo, Robert Kaplan.
In conclusione, egli ha ricordato che sebbene la geopolitica si limiti a dare indizi e suggerimenti al potere nel modo più asettico e neutrale, individuandone le priorità, essa corre comunque il rischio di mettersi involontariamente al suo servizio.
Maria Luisa Sturani, professoressa di geografia presso l’Università di Torino, ha voluto sottolineare due aspetti che si legano alla medesima questione: le implicazioni problematiche del sapere geopolitico su committenza del potere, con il rischio di subordinazione dell’intellettuale, e quindi le insidie e le responsabilità poste dall’impegno pubblico dei geografi nel mondo esterno all’accademia, a partire dagli studenti universitari, che rappresentano un ponte tra interno ed esterno. Le due questioni sono state affrontate anche grazie all’esperienza che la professoressa, esperta di geografia storica, ha accumulato nel corso degli anni come consulente dei poteri pubblici locali in merito alla definizione di confini regionali ed amministrativi ed è sulla base di quest’attività che ha fornito un contributo valido ai fini del dibattito.
Riguardo al primo punto, la Sturani ha evidenziato quanto sia importante prendere le dovute distanze dal potere, non solo per preservare una certa autonomia di riflessione, ma anche per ragioni contingenti (i decisori politici hanno dei tempi di applicazione decisamente più brevi rispetto a quelli dell’elaborazione scientifica; il peso di sforzi applicativi nella formazione di consulenze professionali spesso si rivelano futili, non avendo un posto prioritario tra le voci al tavolo delle negoziazioni). Sul secondo punto, cioè sul public engagement dei geografi, la professoressa ha ribadito la necessità di capire e costruire il proprio pubblico, adattando lo stile in base al target dei destinatari ed evitando di frapporre rigide barriere tra le varie discipline che si occupano dei rapporti tra spazio e potere.
Da ultima ha preso la parola la professoressa Lida Viganoni, docente di geografia politica presso l’Università L’Orientale di Napoli. Come i precedenti relatori, la professoressa si è soffermata ancora sulla vexata quaestio dei rapporti tra intellettuali e potere, che oggi è diventata più complicata a causa della complessità della società contemporanea, fatta di reti e flussi di poteri disseminati su varie scale territoriali. Tutte le azioni umane vanno interpretate in relazione ad un determinato potere, non solo sugli scenari più in vista delle relazioni internazionali, ma anche e soprattutto a livello locale, campo d’azione privilegiato dai geografi, che comprendono la necessità di inchieste e studi sul terreno. Solo mettendo a fuoco la centralità del contesto territoriale si possono ricavare i motivi che stanno alla base di determinati conflitti, oggigiorno sempre più spesso scatenati da questioni legate all’ambiente o all’energia. In seguito, la Viganoni ha riflettuto sulla posizione degli accademici nei confronti del potere, sostenendo che il loro primo compito è quello di dedicarsi alla didattica e alla ricerca in piena libertà e con atteggiamento critico, che deve essere trasmesso agli studenti. Eppure, i tagli alla ricerca e la penuria di fondi hanno nociuto all’accademia e fatto sì che molti professori orientassero le loro preferenze verso tematiche più appetibili e più orientate dal potere politico. Contro la presunzione delle azioni di chi vorrebbe ergersi a consigliere del principe, la professoressa si è chiesta quanto veramente abbiano contato gli intellettuali nelle consultazioni con politici ed amministratori locali, che ad esempio nel Mezzogiorno hanno ignorato a lungo il contributo degli esperti delle discipline in questione. Riprendendo John Agnew, ha concluso ribadendo che se un tempo le politiche erano determinate dalla geografia, sembra che oggi purtroppo succeda l’inverso.
Due sono i temi principali emersi nel corso di questa giornata di studi, sui quali è necessario che il dibattito in geopolitica si soffermi a lungo. Da un lato, la consapevolezza che l’ago della bilancia nel rapporto tra esponenti della disciplina e potere può facilmente pendere verso quest’ultimo, compromettendo l’autonomia degli intellettuali e orientando le ricerche verso questioni politicamente più attuali ed appetibili. Dall’altro, la constatazione che al giorno d’oggi le dimensioni del potere con cui fare i conti sono molteplici e rizomatiche. I vari volti del potere consentono di aprire nuove prospettive e livelli di analisi per la geopolitica contemporanea, mettendo in risalto contesti spaziali che superano l’angusta logica statocentrica e rendendo ancora più valido il lavoro sul campo dei geografi.