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La ’’religione’’ come vincolo di fedeltà tra USA e Israele: dal Destino manifesto all’avvento della Terra Promessa

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Il 20 gennaio 2017 Trump è diventato ufficialmente il 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America e, come da tradizione, è sempre una la solita questione che più di tutte caratterizza l’avvento di ogni nuova amministrazione: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

Il legame con Israele è indiscutibile e ciò ha ragioni storiche profonde che affondano le proprie radici in quel focolaio che oggi è il Medio Oriente. A tal riguardo è opportuno precisare che non sono solo le condizioni geografiche a determinare la geopolitica di uno Stato, ma concorrono anche fattori irrazionali quali il legame spirituale con un popolo che è in egual misura amato e protetto da Dio perché espressione di una nazione moralmente superiore.

’’Make America great again’’ è il mantra di Donald Trump per ridare vigore agli USA sia in politica estera sia in politica interna. Modificare il ruolo statunitense nello scacchiere internazionale dando peso all’agenda degli affari interni sembra oggi essere il modus operandi repubblicano, proprio come lo fu dopo la prima guerra mondiale. Oggi la politica statunitense applicherebbe la filosofia isolazionista in modo più soft, non potendo rinunciare del tutto al ruolo di ’’nazione indispensabile’’ anche in un mondo non più bipolare. È necessario valutare nel contesto odierno quello che è un vero e proprio neo-isolazionismo, composto da nazionalismo economico e intervento militare selettivo. Trump è ora chiamato a difendere le industrie e i lavoratori americani dalla globalizzazione e i suoi confini da attacchi terroristici, avendo in quest’ultimo caso il pieno appoggio di Israele. Proprio gli israeliani sono dei preziosi alleati non solo perché rappresentano per gli USA una roccaforte di consenso nell’area medio-orientale, ma anche per il loro profondo rapporto radicato nel tempo, cementato nondimeno dall’affinità elettiva religiosa.

La religione civile americana si formò durante la guerra di indipendenza e si sviluppò dopo la guerra di secessione, coesistendo con le numerose confessioni religiose tradizionali in un clima di reciproca tolleranza, nonostante la predominante matrice puritana. È evidente come la religione civile americana fu il risultato di un sincretismo religioso, ideologico e politico, al quale contribuirono il protestantesimo, l’illuminismo e il repubblicanesimo.

Il primo a rendersi conto del ruolo fondamentale della religione nella democrazia americana fu Alexis de Tocqueville che, dopo aver visitato gli Stati Uniti, riteneva la civiltà americana il risultato della fusione di due elementi distinti che in America si erano fusi armoniosamente: lo spirito religioso e lo spirito di libertà. Per questo gli americani attribuivano alla fede religiosa, nel senso più generale del termine, grande importanza perché fondamento della democrazia repubblicana. Gli artefici della Rivoluzione americana sostenevano di essere il popolo scelto da Dio per realizzare la salvezza dell’umanità e attuare il volere divino. Erano inoltre convinti che la fondazione degli Stati Uniti fosse la metafora della nuova Gerusalemme, destinata a divenire fulcro di speranza per l’intera umanità. Il popolo americano aveva la missione di rigenerare il mondo perché portava in seno l’avvento di una nuova forma politica: la democrazia. Proprio la fede nella democrazia venne identificandosi sempre più con la fede nel Destino manifesto della nazione americana, così come avvenne con la fondazione dello Stato di Israele in quella che veniva chiamata la Terra Promessa.

Risale al 1948, invece, la dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico, subito riconosciuto da Stati Uniti e Unione Sovietica e attaccato da Lega Araba, Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Libano e Siria. Nel 1950 fu approvata la Legge del Ritorno, in base alla quale ogni ebreo aveva il diritto di stabilirsi nello Stato di origine. Due anni dopo si dava la possibilità agli immigrati di avere immediata la cittadinanza.

Nel 1967 la ’’guerra dei sei giorni’’ vide Israele avere la meglio su Egitto, Siria e Giordania e di conseguenza raggiungere la Cisgiordania, il muro orientale di Gerusalemme e le alture del Golan al confine con la Siria. La vittoria fece di Israele una potenza regionale quasi invincibile ma anche una forza occupante, visto e considerato che gli israeliani avevano ampliato i loro confini con l’annessione di territori estesi tre volte lo Stato originario. I palestinesi, in seguito alla perdita di Gaza e della Cisgiordania, non avevano più un luogo in cui viver ed emigrarono in massa. La risoluzione n.242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 22 novembre 1967, delineando le linee guida per una pace duratura, decideva il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nell’ultimo conflitto. Tuttavia, l’egemonia del Likud sullo scenario politico israeliano, partito dei cosiddetti falchi formatosi nel 1973, giocò sulla distinzione tra insediamenti legali e illegali: si pensi al caso della Galilea, che Israele non riconosceva come patria palestinese, e al caso di Gerusalemme, che non fu considerata occupata perché dichiarata capitale originaria dello Stato ebraico.

Date queste premesse si capisce bene perché l’amministrazione Trump abbia una grande responsabilità, ossia quella di delineare una politica di dialogo che porti a una soluzione concreta e duratura tra israeliani e palestinesi. Un tentativo a tal riguardo è andato male con la precedente presidenza di Obama, quando la risoluzione ONU ha raffreddato i rapporti con il premier israeliano Netanyahu perché ha condannato la moltiplicazione di insediamenti in terra di Palestina, disconosciuto ogni legittimità all’occupazione di Gerusalemme Est e costretto i governanti israeliani a scegliere tra due possibilità: continuare l’occupazione forzata di territori palestinesi oppure imboccare la via della convivenza tra due Stati. È evidente che gli accordi di Oslo del 1993 non hanno portato alcun beneficio perché sono stati del tutto disattesi ma mai come oggi è necessario trovare un accordo, in quanto Israele ormai è una potenza atomica e militare e nessuno degli Stati confinanti ha volontà di attaccare, seppur l’equilibrio della zona è sempre precario. Per questo è giunto il tempo di poter concentrare ogni energia politica nella questione israelo-palestinese. Trump, però, non opta per la soluzione dei due Stati, anzi ha ribadito il vincolo inscindibile con Israele non solo respingendo in modo deciso le azioni ingiuste dell’ONU, ma anche spostando ufficialmente l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme il 14 maggio scorso.

Gli USA oggi devono affrontare un mondo diverso. Il potere si è oggi distribuito su più fronti, ma la supremazia non è fatta solo di cose materiali. Perché un Paese abbia una leadership duratura è necessaria una predisposizione culturale, una visione globale della propria missione: in questo gli USA sono ancora oggi insuperabili. A livello internazionale rappresentano l’unica entità statale che opera tutelando l’equilibrio mondiale e assumendosi responsabilità che gli altri non intendono prendersi: quando i massacri tribali hanno devastato il Ruanda, gli USA non sono intervenuti ma nemmeno altri lo hanno fatto; a seguito del protocollo di Kyoto, le conferenze ONU sul clima tenutesi a Copenhagen, Durban e Doha, senza il sostegno degli Stati Uniti, non hanno raggiunto un accordo unanime per ridurre l’emissione di anidride carbonica; la Francia, pochi anni fa, ha attaccato la Libia di Gheddafi, ma hanno subito preteso l’aiuto degli statunitensi; è stato il presidente Jimmy Carter a convocare Egitto e Israele a Camp David nel 1978 per siglare un accordo di pace, ed è stato un altro presidente americano, Bill Clinton, a costringere Yitzhak Rabin, allora primo ministro di Israele, e il leader dell’OLP Arafat a stringersi la mano alla Casa Bianca nel 1993.

Proprio per questa credibilità indiscussa, solo gli USA possono sostenere una politica internazionale che porti ad una soluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese.

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