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TematicheItalia ed EuropaBrexit: la questione scozzese

Brexit: la questione scozzese

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E ora che succede? La domanda accompagna varie tipologie di sguardo, dall’eccitato allo smarrito, dall’arrabbiato all’entusiasta. Ognuno ha la propria visione dell’esito rivoluzionario del referendum del 23 giugno scorso nel Regno Unito, anche nelle terre a Nord dell’isola britannica.

Espressione mista di preoccupazione e di speranza quella del popolo scozzese, ossia di chi, a maggioranza (66%), ha votato a favore della permanenza britannica nell’Unione Europea.

Strano destino quello della Scozia. Dopo il quesito referendario del 18 settembre 2014, “Should Scotland be an independent country?”, il 55% dei discendenti di William Wallace aveva deciso che si dovesse dare retta ai sostenitori del “Better together”, ossia dell’unità britannica. A parte 4 local goverment areas, quelle di Glasgow, North Lanarkshire, Dundee e West Dunbartonshire, tutta la Scozia, dalle Lowlands alle selvagge e temute Highlands, aveva optato per il mantenimento dello status quo. A nulla era valsa la campagna molto incisiva dell’allora primo ministro scozzese, il nazionalista Alex Salmond, e neanche la data simbolica della consultazione popolare: 18 settembre 2014, giorno del settecentesimo anniversario della battaglia di Bannockburn, cittadina a sud di Stirling, presso cui Robert the Bruce, alla guida dell’esercito scozzese, sconfisse i soldati inglesi di Re Edoardo II, durante la prima guerra di indipendenza.

Quel che non poterono gli scozzesi, potette David Cameron. All’ormai ex leader conservatore bisogna riconoscere di aver riacceso i più disparati sentimenti nazionalistici; quello degli inglesi, benché egli fosse contrario all’uscita del suo paese dall’Unione Europea, ma anche quello degli scozzesi e dei nord-irlandesi, i quali, a questo punto, possono usare l’arma della permanenza comunitaria per affrancarsi da Londra.

Per comprendere, nello specifico, la questione scozzese, bisogna collegare il referendum nazionale del 23 giugno 2016 con quello in Scozia del 18 settembre 2014. I due eventi democratici non sono isolati, ma sono frutto di strategie, a livello britannico e comunitario, che in maniera rilevante hanno influito sulla volontà popolare.

Senza trascurare quanto il “carattere” degli abitanti della Scozia sia rilevante a riguardo, come può essere constatato scorrendo le pagine della storia. Questa terra meravigliosa ha sempre sofferto di alcuni mali che ne hanno indebolito la forza a livello internazionale: le divisioni interne.

Fin dai tempi di Kenneth MacAlpin, proclamato Re degli Scoti e dei Pitti nell’843 d.C., data a cui si fa risalire la nascita del Regno di Scozia, l’anima di questo popolo non è stata mai la nazione, ma l’appartenenza alla famiglia, ossia al clan. Questo fu motivo di continue guerre intestine, parzialmente mitigate da Re David I, ma riesplose nel 1286 d.C., dopo la morte di Re Alessandro III.

Il problema raggiunse un livello tale che i Guardiani di Scozia, nobili e vescovi nominati per la gestione del territorio in attesa che Margherita, pulzella di Norvegia e nipote di Alessandro III, raggiungesse l’età per governare, chiesero aiuto agli inglesi. Ebbene, fu proprio così! L’immagine dell’eroismo indomito di Braveheart deve ancora incantare i nostri animi romantici. Gli scozzesi andarono da Edoardo I d’Inghilterra, eleggendolo supervisore delle diatribe interne. Quale assist migliore dato a un sovrano espansionista per assumere il controllo della Scozia? Da lì fu un susseguirsi di eventi drammatici, acuiti dalle rivendicazioni al trono da parte di vari nobili scozzesi, resi celebri e mitici da figure carismatiche come William Wallace, e portati a conclusione col Trattato di Edimburgo-Northampton, firmato nel 1328, e la proclamazione di Robert the Bruce, il vincitore di Bannockburn, quale Re di Scozia.

Gli inglesi, di certo, non rinunciarono a qualcosa che evidentemente consideravano propria e, pochi anni dopo, con l’ausilio di clan scozzesi a loro vicini, invasero nuovamente il nord, provocando la seconda guerra d’indipendenza scozzese, che si concluse con la vittoria dei discendenti di Robert the Bruce.

Dopo questi fatti, la storia dell’isola britannica continua a mostrare una conflittualità accesa tra Scozia e Inghilterra, vista la tendenza delle due case regnanti a influenzarsi reciprocamente. La famiglia reale scozzese degli Stuart, in particolare, fu spesso vittima di divisioni interne e degli attriti con l’Inghilterra. Re Giacomo III fu persino ucciso da nobili scozzesi asserviti agli antichi nemici.

Il tutto fino a quando Giacomo VI Re di Scozia fu proclamato Giacomo I Re d’Inghilterra e vennero così unificate le due corone. Dunque, uno scozzese al comando dell’intera isola. Eppure, Giacomo decise di abbandonare Edimburgo per Londra e relegò la terra di origine a periferia, ingenerando nuovi sentimenti nazionalistici, esacerbati da condizioni economiche delle classi popolari non favorevoli, e fenomeni di rivolta come il Giacobitismo.

Un atto mutò il corso dei rapporti tra le popolazioni dell’isola: l’Act of Union, con cui, nel 1707, nacque il Regno di Gran Bretagna. Il Parlamento scozzese e quello inglese vennero unificati. Rimasero tante divisioni, anche in ambito religioso e giuridico, ma da quel momento gli scozzesi divennero protagonisti della vita politica nazionale e internazionale, del progresso tecnologico e dell’ingegneria, del mondo artistico, letterario, economico e filosofico britannico. La Scozia divenne “the worshop of the British Empire”, in maniera così evidente e consolidata da far dire a Winston Churchill, non senza la sua solita maliziosa arguzia: “Of all the small nations on this earth, possibly only the ancient Greeks surpass the Scots in their contribution to mankind”.

Questo clima di Scottish Enlightenment non assopì le rivendicazioni degli scozzesi, capaci anche in tale occasione di mostrarsi divisi, tra coloro che chiedevano una devolution delle competenze per la gestione del territorio e coloro che volevano l’indipendenza. C’era chi auspicava persino il ritorno del Parlamento di Edimburgo.

Agli inizi del ‘900, nacquero tanti partiti in Scozia, con orientamenti anche opposti tra loro, e dalla fusione di due di questi partiti, il National Party of Scotland e lo Scottish Party, nacque nel 1934 lo Scottish National Party, oggi partito di maggioranza e di appartenenza del Primo Ministro Nicola Sturgeon.

Tutta questa premessa storica per rappresentare sinteticamente come, spesso, la forza di Londra sia stata rafforzata dalle divisioni e dalle indecisioni degli scozzesi, nondimeno ammirevoli per la indiscutibile volontà di difendere le proprie terre.

Terre rese ancora più appetibili quando, nel 1971, venne scoperto nel Mare del Nord, all’altezza del Aberdeenshire, il più grande giacimento petrolifero d’Europa. Una risorsa di cui gli scozzesi non hanno mai goduto pienamente, visto che Londra non ha loro consentito la gestione piena e diretta, nonostante lo slogan dei nazionalisti scozzesi fosse: “It’s our oil”.

Neanche lo Scotland Act del 1998, con cui venne istituito finalmente il Parlamento scozzese, competente in merito a una serie di materie comunque devolute da Londra, ha placato le spinte indipendentiste.

La presenza dello Scottish National Party, sempre più protagonista della scena politica locale, ha determinato un lungo e articolato dibattito che ha portato al noto referendum del 18 settembre 2014.

Eppure, in quella occasione, gli indipendentisti persero. Ancora una volta la Scozia si è mostrata divisa e ha preferito restare sotto l’egida protettiva di Londra.

Di indubbia influenza sull’esito della consultazione popolare fu, oltre alla promessa di una devolution max da parte di Cameron in caso di vittoria degli unionisti, la paura degli scozzesi di uscire dall’Unione Europea. Prima del referendum i rappresentanti della UE furono durissimi. L’allora Presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, si espresse in varie occasioni in senso negativo sull’ipotesi che una Scozia indipendente potesse automaticamente diventare membro dell’Unione Europea. Il nuovo stato avrebbe dovuto seguire il normale iter previsto per un qualunque nuovo membro e, più volte era stato rimarcato, non sarebbe stato pacifico l’assenso dei vari stati aderenti.

La preoccupazione di uscire dalla comunità europea, così come la delusione per il mancato riconoscimento delle promesse fatte dal governo britannico, è riemersa dopo l’esito del referendum del 23 giugno 2016. Gli scozzesi, con una percentuale molto alta, lo hanno detto in maniera chiara: l’Unione Europea è la propria casa. Se la vicina Inghilterra ha preso una decisione diversa, è possibile che la Scozia spinga nuovamente per recuperare, dopo secoli, la propria indipendenza, rendendosi pienamente responsabile delle proprie decisioni e delle proprie risorse, con particolare riguardo a quelle appetite del Mare del Nord.

Non è, pertanto, da escludere che Nicola Sturgeon riesca nel suo intento, ossia ottenere un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia, ma si tratta di capire come reagirà Londra e, soprattutto, come si comporterà l’Unione Europea. C’è da scommettere che l’attuale Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, sarà meno ombroso del suo predecessore e che, questa volta, l’Europa politica guardi con maggior favore alla secessione scozzese dal Regno Unito di Gran Bretagna.

Resterebbe, comunque, un’incognita: la fatale tendenza degli scozzesi a dividersi.

Del resto, come scrisse J.P. Mackintosh, “the Sctos have developed a dual nationality: ther are both Scottish and British”. A breve, capiremo se gli scozzesi vorranno sostituire, nella propria complessa personalità, lo spirito britannico con quello europeo.

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