Nel giugno del 1999 le prime forze NATO entravano in Kosovo su mandato ONU; finiva così il sanguinoso conflitto interetnico tra Kosovari e Serbi. La presenza di missioni militari internazionali di pace, umanitarie e di stabilizzazione nei Balcani cominciò già nel 1991 per attenuare i conflitti determinati dal processo di disgregazione della Repubblica jugoslava e dalla costituzione degli Stati nazionali. I conflitti che si sono determinati nell’area negli ultimi venti anni sono stati principalmente di natura interetnica, nazionalistica e religiosa; le crisi più drammatiche hanno riguardato la guerra serbo-bosniaca e il conflitto del Kosovo. Nelle vicende dei Balcani sono intervenute le principali organizzazioni internazionali: l’ONU, la NATO, l’Unione Europea e l’OSCE.
Lo scoppio della questione etnica
A partire dai primi anni ’90, la composizione etnica del Kosovo era costituita perlopiù da cittadini di etnia albanese; il Kosovo rappresentava, così come tuttora, il fulcro sia storico che religioso della Serbia: già nucleo della Grande Serbia in epoca medievale, lo Stato ospita attualmente – nella città di Pec’– la sede del patriarcato serbo-ortodosso.
La situazione divenne critica a partire dal 1997, quando la leadership degli albanesi kosovari fu assunta dall’organizzazione enverista sostenuta da Tirana, mentre dall’altro lato Milosevic fece intervenire l’esercito jugoslavo e gruppi armati paramilitari per fermare lo scontro. Mentre la guerra etnica proseguiva, la Comunità internazionale rimase silente fino a metà del 1998, quando la Risoluzione 1160 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò il governo di Belgrado per l’eccessivo uso della forza. Contemporaneamente, però, Milosevic aveva riconquistato l’area: fu proprio alla luce di questa azione che con la Risoluzione 1199 del 23 settembre 1998 venne riconosciuta la catastrofe umanitaria in Kosovo, additando Milosevic come unico colpevole. Fu così che, dopo numerose minacce di intervento della NATO, con la risoluzione 1203 del 13 ottobre 1998 venne riconosciuto il collegamento diretto tra Nazioni Unite e NATO; l’Alleanza Atlantica così, minacciò un’azione militare imminente, annunciando l’Activation Warning Order, ovvero l’ordine di attivazione di azioni militari contro la Serbia.
Nonostante l’intervento sembrasse ormai prossimo, venne fatto un ultimo tentativo diplomatico per fermare la repressione serba; il richiamo rimase però inascoltato, poiché Milosevic, forte anche di un rilevante consenso interno, era convinto di chiudere la questione in breve tempo. Il 15 gennaio del 1999 ci fu il primo massacro, quello di Racak, che portò alla morte di 45 civili kosovari, colpevoli – secondo Milosevic – di minacciare la sicurezza nazionale perché membri del movimento di rivoluzione kosovaro. A livello internazionale ormai la Serbia rimaneva completamente isolata, soprattutto perché a questi fatti si aggiungevano i ricordi ancora vividi del genocidio di Srebrenica del 1995. Il 24 marzo 1999 la NATO decise di intervenire senza l’avallo dell’ONU poiché, sia la Russia che la Cina, minacciarono di porre il veto per un’eventuale richiesta in seno al Consiglio di Sicurezza. Iniziò così l’operazione Allied Force, per imporre alla Serbia il rispetto degli accordi di Rambouillet.
La missione Joint Enterprise e K-FOR: cosa è cambiato dal 1999 ad oggi.
L’intervento NATO in Kosovo fu il primo con cui si mostrò tutto il potenziale bellico dell’arsenale, con l’azione di 80 velivoli, navi britanniche e statunitensi e lanci di missili continui dal Mar Adriatico. Alla luce della Dichiarazione del Consiglio atlantico del 5 marzo 1998, l’Alleanza atlantica modificò la sua prerogativa, trasformandosi da un’alleanza difensiva ad organizzazione promotrice di stabilità e pace anche oltre i propri confini. Questo divenne già visibile il 24 aprile, quando la NATO formulò un nuovo Strategic Concept, che permise l’ampliamento di nuove possibili azioni militari anche al di fuori dei territori di competenza dell’Alleanza. Anche l’analisi di Scotto e Arielli nel loro “L’intervento NATO in Kosovo: riflessioni su una escalation coercitiva”, mette in evidenza come l’azione militare voleva essere, inizialmente, una semplice dimostrazione di forza nei confronti di Milosevic; quando però il Presidente jugoslavo decise di non cedere, l’azione militare si trasformò in una vera e propria escalation “punitiva”, piuttosto che “esecutiva”. Il culmine di questa escalation si ebbe il 27 Maggio del 1999, con 714 attacchi in 24 ore.
In questo contesto divenne centrale l’azione diplomatica russa. Il 5 giugno – alle decisioni del G8 che si tenne a Petersberg, castello vicino a Bonn – seguì la discussione fra i vertici della KFOR e quelli dell’esercito serbo: i colloqui si conclusero il 9 giugno. I bombardamenti, tuttavia, continuarono anche il giorno seguente.
Dopo 78 giorni, gli attacchi terminarono e in 11 giorni le forze serbe furono costrette a uscire dal Kosovo in favore di quasi cinquanta mila unità dell’Alleanza. Da qui in avanti la presenza NATO – per mezzo della KFOR – sarebbe passata sotto il controllo americano, con una suddivisione in cinque unità, tutte quante appartenenti all’Unione Europea: Germania, Francia, Gran Bretagna ed Italia. Contemporaneamente all’azione dell’operazione KFOR, il Consiglio di Sicurezza approvò l’operazione con la risoluzione 1244, ponendo così il Kosovo sotto l’amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite.
In questi anni, l’azione della missione KFOR ha avuto una rilevanza sotto diversi punti di vista: se all’inizio ha limitato la repressione serba, successivamente la missione ha favorito il dialogo tra Belgrado e Pristina e supportato la gestione delle crisi economiche e sociali generate dal conflitto.
A partire dal 2006, dopo i colloqui che si tennero a Vienna tra Belgrado e Pristina, vi furono notevoli cambiamenti; nonostante la totale mancanza di giudici e tribunali dopo i bombardamenti venne fin da subito discusso lo status del Kosovo. Si creò, inoltre, una stretta collaborazione tra l’ONU e l’Unione Europea, attraverso l’UNMIK, per creare un processo di implementazione degli standard democratici previsti.
Sotto il comando italiano dal settembre 2013, la missione KFOR ha visto – nel corso degli anni – una progressiva riduzione della presenza militare a vantaggio di un’azione deterrente che garantisca la sicurezza del territorio. Tuttavia, già a partire dal 2011, l’Italia aveva incrementato la sua presenza nel Kosovo per il mantenimento di un difficile equilibrio nella zona balcanica, assumendo il ruolo di leadership di due unità. La prima è la Multinational Battle Group, divenuta a inizio 2019 Regional Command West, che comprende unità cinetiche per la sicurezza del territorio ed unità non cinetiche per un incremento della cooperazione con la popolazione locale; la seconda è la Joint Regional Detachment, che consiste nell’unità multinazionale comprendente militari di Italia, Slovenia, Ungheria, Finlandia e Turchia e responsabile di circa un terzo dell’intera superficie del Kosovo.
La situazione ad oggi: incertezza e difficoltà sanitaria
Gli sforzi della NATO nella lotta contro il Covid-19 sono stati fin da subito imponenti. In particolare, KFOR ha svolto un ruolo fondamentale nella lotta contro la diffusione della pandemia nella regione: l’Esercito italiano, ad esempio, ha inviato un team sanitario per poter capire il rischio di contagio all’interno di una missione militare così delicata e complessa e l’intero sistema di risposta sanitaria della Nato ha inviato tonnellate di apparati per la disinfezione e numerosi indumenti protettivi, come guanti e mascherine FFP3.
Dopo 21 anni, l’operazione KFOR risulta fondamentale in una zona che ancora oggi si dimostra essere ad alto rischio per le tensioni tra le comunità presenti, andando a svolgere però un ruolo essenziale non solo nella deterrenza militare, ma anche nel dialogo socio-culturale e nella prevenzione sanitaria contro la pandemia.