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La politica “zero ghetto” in Danimarca: la fine del welfare universalistico?

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“Nel paese ci sono società parallele. Molte persone con gli stessi problemi sono ammassate insieme. Questo crea una spirale discendente. Una contro-cultura. Dove le persone non assumono responsabilità, non partecipano, non fanno uso delle possibilità che abbiamo in Danimarca, ma rimangono fuori dalla comunità”.

Con queste parole il primo ministro danese, Lars Løkke Rasmussen, durante il discorso di fine anno, ha introdotto il nuovo piano “ingen ghettoer i 2030” (zero ghetto 2030). Il nuovo progetto del governo aspira a disincentivare la proliferazione di quartieri-ghetto, ovvero di quegli agglomerati urbani nei quali l’integrazione arranca o è inesistente. Per individuarli ci sono vari fattori, tra cui il tasso di disoccupazione, la percentuale di residenti di origine non occidentale, il livello di criminalità e di reddito. Sono state individuate 30 aree in cui il governo vuole attuare manovre mirate ad impedire la creazione di comunità diasporiche all’interno delle quali, a detta del primo ministro, si tradiscono i valori del paese. Il provvedimento include, per esempio, corsi obbligatori extracurriculari di cultura danese per i bambini dal primo anno di età, pene più severe per reati commessi all’interno del ghetto e l’interruzione dell’erogazione di benefici sociali come “punizione” per il mancato rispetto di queste disposizioni. Connesso al divieto di indossare il burqa emesso pochi mesi fa e agli ostacoli posti al ricongiungimento familiare, il decreto pone la Danimarca in continuità con molti paesi europei in termini di gestione della migrazione. Sebbene questo sia vero, il dibattito politico in Danimarca presenta delle peculiarità degne di una più ampia elaborazione. Da sottolineare è che il consenso dimostrato a questo decreto non si limita a coinvolgere il Dansk Folkeparti, il Partito del Popolo che si posiziona decisamente nell’ala destra dello spettro politico, ma anche il Socialdemokratiet, il partito di punta delle compagini di sinistra. Motore principale del progetto, come ripetuto in vari dibattiti, è il peso fiscale dei migranti sul sistema di welfare danese.

Il primo ministro, sempre durante il discorso di fine anno, descrive il quartiere-ghetto come “[…] un ambiente dove non è la regola che i genitori vadano al lavoro. Dove i soldi non sono un salario che deve essere guadagnato ma qualcosa che è fornito dal Comune o ottenuto attraverso attività criminali”. Appare chiaro che il consenso dimostrato al provvedimento di Rasmussen sia specchio della sua abilità nel toccare un nervo scoperto per la popolazione danese: il futuro del sistema di welfare. A partire dal Dopoguerra, è stato istituito un sistema basato su un alto coinvolgimento pubblico nell’erogazione di servizi sociali, come evidenziato dalla totale gratuità della sanità e dell’istruzione e dalla presenza di generosi sussidi di disoccupazione e previdenziali. Il livello di intervento pubblico e di tassazione in Danimarca è al contempo uno dei più alti al mondo e il meno contestato. Infatti, non è solo il godere dei benefici sociali che spinge i danesi ad accettare una tassazione elevata. Importante è soprattutto il fatto che il welfare si basi su un concetto ben preciso, l’egalitarismo sociale, determinante per il processo di costruzione dell’identità nazionale. Secondo questa visione, i benefici sociali sono connessi all’individuo e alle sue necessità e non alla sua situazione occupazionale o contributiva, considerando anche che sono accessibili a tutti i residenti in egual misura. In sostanza, le unità contribuiscono e traggono guadagno dalla collettività e, così facendo, tutelano quegli individui che hanno meno possibilità e meno accesso al mercato del lavoro. Numerosi ricercatori hanno sottolineato come questo sistema sia un acceso promotore dell’equità sociale, intesa anche come giustizia sociale. Premessa non negoziabile di quest’ultima, però, è l’uguaglianza, nella sua accezione culturale. Marienne Gullestad, a tal proposito, sostiene che le popolazioni scandinave possiedono nel loro immaginario collettivo l’idea che l’uniformità culturale sia un facilitatore dell’equità sociale e che il loro sistema funzioni solo grazie ad essa. Questo può essere frutto di una certa narrativa ricorrente collegata alla loro identità nazionale: la Danimarca è un paese piccolo, omogeneo e con poche interazioni esterne. Se questo era vero quando i legislatori hanno ideato il sistema di welfare, la situazione odierna è ben lontana da questo scenario.

Dalla fine dei programmi di importazione di manodopera degli anni ‘70, la portata del flusso migratorio è aumentata considerevolmente. Nel 1984 il numero di migranti (prima e seconda generazione) era circa 30.000, nel 2017 la stima è intorno agli 89.000. Questo incremento potrebbe produrre influenze positive in termini demografici e di soddisfazione della domanda di lavoro. Dagli anni Ottanta, la Danimarca continua a registrare una crescita negativa in termini di popolazione e di tasso di natalità. Considerando che il numero di persone che accederanno ai sussidi previdenziali sarà sempre più alto e che vi sarà una consistente riduzione della forza lavoro, la presenza di immigrati giovani potrebbe sopperirvi, secondo alcuni analisti (anche nel nostro Paese, il dibattito è aperto). Tuttavia, i risultati dell’integrazione economica sono ambigui e aperti a interpretazioni. Da una parte, i dati ci dicono che i meccanismi di redistribuzione del reddito hanno indebolito la partecipazione dei migranti nel mercato del lavoro; dall’altra, la presenza di barriere di ingresso nel mercato ha minato l’indipendenza economica degli stranieri, condizionata dal livello minimo di istruzione richiesta, dall’assenza di incentivi specifici e dalla discriminazione lavorativa. Nel corso delle ultime decadi, il mondo della politica ha sottostimato il problema, minimizzando l’insuccesso dell’inclusione sociale ed economica. L’integrazione economica è stata valutata attraverso il livello di reddito percepito. Come sottolineato da recenti ricerche, questo parametro non rispecchia pienamente le possibilità di emancipazione di un individuo e bisognerebbe analizzare il livello medio di benessere. Il benessere viene inteso come la capacità di accumulare e godere dei risparmi, al fine di potersi elevare dal proprio status sociale. Un livello di benessere alto è un’eredità per le future generazioni che potranno muoversi liberamente nel tessuto sociale. Se paragoniamo il livello medio di benessere delle famiglie straniere e danesi, quello che appare è una profonda iniquità nelle possibilità di emancipazione sociale. Questo potrebbe spingerci a pensare che le strutture attuali incentivano l’uguaglianza, in termini di pari allocazione di risorse, ma ignorano l’equità, ovvero un diverso trattamento dei cittadini in base alle loro possibilità di partenza. A livello sociale, integrarsi vuol dire interiorizzare e dimostrare conformità con lo stile di vita danese, le sue tradizioni e convinzioni. Il modello replicato è quello francese-assimilativo, in cui le differenze devono essere ridotte al minimo e relegate alla sfera privata. Con il tempo, questo obiettivo di omogeneità si è rivelato come un importante ostacolo all’inclusione sociale. L’egualitarismo sociale e le strutture universalistiche di distribuzione del reddito sembrano non poter coesistere quando nell’architettura fanno il loro ingresso culture e popolazioni straniere.

Intrecciando spinte assimilazioniste ed esagerazioni del fenomeno, il presente dibattito politico potrebbe stravolgere il sistema, mentre prova a mantenerne lo status quo. Queste misure lederanno alla base l’identità della nazione, stravolgendo la sua inerente solidarietà sociale? La risposta a questa domanda si troverà nel tempo e dipenderà dalla reazione del mondo politico. Una corretta integrazione non avviene in maniera aleatoria, ma attraverso un preciso intervento dello stato che spinga verso una sostanziale mobilità sociale.

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