Il 7 ottobre scorso è scattata l’operazione «Diluvio Al-Aqsa», un piano di assalto ordito da Hamas, formazione terroristica palestinese, ai danni di Israele, risvegliatasi all’alba con le esplosioni di circa 5.000 razzi. È un attacco imprevisto ed estremamente feroce, che cade a ridosso dei cinquant’anni dallo scoppio del conflitto dello Yom Kippur: anch’esso imprevisto ed egualmente sanguinoso.
Lo scontro tra Israele e Palestina non ha mai visto una conclusione definitiva, ma solo brevi periodi di pace inframmezzati da tensioni e attacchi militari. Dal 1948 al 2023, i vari accordi stipulati poco hanno fatto per mettere a tacere le armi; magre iniziative di pace che non hanno colpito il cuore della vicenda.
I fatti di questi giorni ci inducono a riproporre il pensiero di Aldo Moro, che tanto si spese per risolvere la situazione mediorientale; e che intuì, prima di tutti, la vera essenza delle tensioni tra israeliani e arabi.
Aldo Moro, nel corso del suo primo e terzo gabinetto, si preoccupò di risolvere l’annosa questione dei profughi palestinesi, emigrati prevalentemente nel Regno di Giordania dopo gli scontri del 1948. La disumana situazione in cui versavano i profughi arabi non poteva essere trascurata, secondo Moro, dalla comunità internazionale.
Il 21 giugno 1967, davanti alla quinta sessione straordinaria dell’ONU sulla guerra nel Medio Oriente, Aldo Moro, da Presidente del Consiglio, sostenne la necessità di considerare la questione dei profughi palestinesi non solo sul lato umanitario, ma anche su quello sociale e politico.
La politica estera dello statista pugliese venne definita dell’«equidistanza attiva»: da una parte si invitavano gli arabi a riconoscere Israele come entità statale con cui negoziare; dall’altra si cercava di correggere l’oltranzismo della classe politica israeliana.
L’azione morotea venne limitata al campo d’azione della Risoluzione 242 del 22 novembre, che sanciva un primo accordo tra Israele e Palestina, sebbene la questione dei profughi venisse trattata ancora solo sul lato umanitario.
La mediazione e il dialogo furono gli strumenti con cui Moro, da titolare della Farnesina, tentò di approdare ad una conclusione dello scontro mediorientale. Il leader DC si recò, nel febbraio e nel maggio del 1970, in Marocco e in Egitto, per ammorbidire la posizione degli arabi e rendere la loro politica estera più flessibile, disponibile a stipulare accordi con lo Stato ebraico. Tale sforzo di mediazione ebbe un certo successo: Abdellaoui, direttore generale degli Affari Politici dell’Algeria, si complimentò con Moro per aver spostato la questione palestinese dal piano umanitario a quello politico.
Il dialogo non serviva solo a favorire il disgelo tra Israele e i Paesi arabi, ma anche a risolvere conflitti interni all’Esecutivo. Compito arduo fu quello di correggere la posizione anti-israeliana della diplomazia italiana e combattere lo scetticismo di alcuni politici del tempo, riluttanti ad accogliere le istanze dei palestinesi. Pietro Nenni, Vicepresidente del Consiglio nel Governo Moro I, scrisse: «E’ facile ritrovarsi nelle cose dette, più difficile, temo, sarà ritrovarsi nelle cose fatte». Poi, riconoscendo gli esiti positivi della politica estera di Moro, rivide la sua posizione: il 9 gennaio 1969, in Commissione Esteri alla Camera, pose sullo stesso piano la sofferenza degli ebrei e quella dei profughi palestinesi.
L’operato di Moro, da Presidente del Consiglio prima, e da Ministro degli Esteri dopo, non fu mai staccato dal quadro internazionale del tempo: egli credeva, infatti, che la questione mediorientale dovesse essere sempre ricondotta allo scenario della Guerra Fredda, cioè al duopolio USA-URSS. L’equidistanza attiva, calata nel contesto geopolitico del tempo, comportava l’allontanamento della Palestina dalla propaganda sovietica e una maggiore distensione da parte degli Stati Uniti verso le rimostranze dei palestinesi.
Lo scoppio della Guerra dello Yom Kippur sancì la fine dell’equidistanza attiva. Aldo Moro, forte della Dichiarazione di Bruxelles resa dalla CEE, dichiarò dinanzi alla Commissione Esteri del Senato, nel gennaio del ’74, che «i palestinesi non cercano dell’assistenza ma una patria»: e la patria palestinese doveva essere costruita nel pieno rispetto dell’integrità israeliana. L’Italia, così, si disallineava gradualmente dagli Stati Uniti, elaborando – o tentando di elaborare – un rapporto tutto suo col Medio Oriente: sia per la dipendenza energetica dell’Italia dai Paesi arabi, sia perché si voleva perorare la causa araba.
La Risoluzione 242 aveva bisogno, secondo Moro, di un miglioramento: pertanto, propose il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati dopo il 1967 e la tutela dei diritti palestinesi.
Un soggetto politico cui Moro diede piena legittimità politica fu l’Olp di Arafat: di esempio fu l’accettazione di Nemer Hammad, membro dell’OLP, come rappresentante della Lega araba. A Moro si deve poi un accordo segreto stipulato tra Stato italiano e OLP che prevedeva la libera circolazioni di armi in Italia e il riconoscimento politico dell’organizzazione palestinese: in cambio, non sarebbe stato compiuto nessun attentato terroristico sul suolo italiano. L’accordo passò alla storia come il «Lodo Moro», confermato, peraltro, da una nota riservata del SID, datata 17 dicembre 1972 e scritta dal colonnello Stefano Giovannone.
Tanta era la stima nei confronti di Moro che, durante i 55 giorni del sequestro, i membri dell’OLP si prodigarono per salvare il Presidente DC, ventilando la proposta di un esilio nello Yemen del Sud.
I paradigmi dell’azione diplomatica morotea furono l’autodeterminazione dei popoli e la tutela della persona umana. L’8 ottobre 1969, nel corso dell’intervento all’Assemblea Generale dell’ONU, Aldo Moro affermò che la risoluzione del conflitto arabo-israeliano avrebbe portato alla riduzione della povertà e all’abolizione della discriminazione umana. Nel 1972, disse: «Il superamento dei gravi squilibri tra le diverse aree geografiche e tra i vari Paesi che sono tutti parte essenziale della comunità internazionale rappresenta un imperativo fondamentale, per aprire la strada ad un mondo in cui l’associazione e la cooperazione si sostituiscano alle tensioni ed alle crisi». E ancora: «Il Mare Mediterraneo diventi il crocevia della pace europea e l’Europa non si chiuda nei suoi stretti confini, immaginando che tutti i popoli del Mediterraneo per cultura, tradizione e storia possono e devono essere considerati amici nella rincorsa alla democrazia, alla libertà e allo sviluppo. Chiediamo agli italiani di volere la vostra libertà e la libertà dei popoli del Mediterraneo». Moro auspicava la fine della crisi in Medio Oriente per la stabilizzazione della pace nel Mediterraneo: il diritto dei palestinesi ad autodeterminarsi, nel solco del principio «Due popoli due Stati», avrebbe garantito una maggiore tutela della legalità internazionale.
Tuttavia, non poteva essere ignorata la condizione disumana in cui versavano i profughi palestinesi. Aldo Moro chiese più volte all’ONU di investigare sul rispetto dei diritti umani nei campi profughi; concesse borse di studio e inviò strutture sanitarie in Libano, dove erano presenti numerosi profughi palestinesi.
La «dottrina sulla pace» di Aldo Moro, così com’è stata ribattezzata, rimane ancora attuale: verrà costruito lo Stato della Palestina se verrà rispettata l’integrità politica d’Israele; Israele sopravviverà se riconoscerà ai palestinesi il diritto di avere uno Stato.