Cosa cambierà con l’Amministrazione Biden in politica estera? Quanto potrà cambiare la postura degli Stati Uniti verso competitor come le revisioniste Russia e Cina? Quali teatri finiranno in secondo piano? Tra aspettative e speculazioni, la politica estera di Biden dovrà prendere atto delle divisioni interne, delle conseguenze della pandemia e delle novità nell’assetto internazionale.
Cose che non cambiano
La politica estera statunitense si caratterizza per un obiettivo primario: prolungare la leadership degli Stati Uniti. In altri termini, l’America first è una costante. Ulteriormente riformulato, gli Stati Uniti non possono permettere che emergano dei competitors di pari livello che sfidino la superiorità statunitense; tuttavia sono emersi. Ciò è stato avvertito dall’Amministrazione Obama e ha costituito il leitmotif del primo e unico mandato del presidente Trump. Il rinnovamento del revisionismo da parte di alcuni stati è avvenuto all’ombra della Guerra al Terrore, catalizzatrice di tempo e risorse statunitensi.
Consapevole che la partita principale non si giocasse in Medio Oriente, l’Amministrazione Obama ha ritirato un cospicuo numero di truppe dall’Iraq e ha promosso il cosiddetto Pivot to Asia, ribilanciamento militare, politico, diplomatico ed economico. Successivamente, il repubblicano Trump, fortemente concentrato sulla Cina, si affrettò a concludere un accordo con i Talebani e a promuovere il dialogo intra-afghano per disimpegnare la maggior parte delle truppe.
Benché la Guerra al Terrore sia stata iniziata da un presidente repubblicano, non sfugge la considerazione che l’ultimo tassello è stato posto da un presidente altrettanto repubblicano, mentre l’interludio democratico non si è dimostrato propriamente pacifico. Nonostante le discontinuità, tutte le presidenze del XXI secolo hanno dovuto fronteggiare una realtà incontrovertibile, la crisi dell’ordine liberale, che si scontra con l’obiettivo cardine degli Stati Uniti. Allora come mantenere la superiorità nel sistema internazionale se non si può plasmare il mondo con democrazia e mercato, posto che tale sforzo costa uomini e risorse? Gli Stati Uniti si impegneranno solamente obtorto collo. La vaga formulazione obamiana “leading from behind” si estremizza nella parola d’ordine trumpiana: disimpegno. E l’amministrazione Biden?
Eredità passate
Il contesto interno statunitense è caratterizzato da divisione. La crescita economica registratasi durante l’Amministrazione Trump è considerata da molti osservatori come squilibrata e precaria. Su questa si è abbattuta una pandemia di portata globale, che l’Amministrazione uscente ha gestito lacunosamente. Sembra quasi scontato che le conseguenze della pandemia si riverseranno nell’economia. Se Trump ha governato un’America profondamente divisa, etnicamente, socialmente, economicamente e politicamente, altrettanto farà Biden che fronteggerà la sfida di riunificare gli Stati Uniti, come da lui ripetutamente caldeggiato.
Le tensioni sono divenute anche istituzionali. Alcuni dei poteri tradizionalmente neutrali si sono caricati di valori politici. Inoltre, l’Amministrazione ha sofferto di continui cambi nel team Trump con funzionari dimissionari, volenti o nolenti, con una frequenza inusitata. Un tale scenario interno finirà per avere delle ripercussioni nella politica estera di Biden. Ma anche l’Amministrazione democratica nutre delle aspettative.
Le scelte di Biden
La politica estera di Biden porterà ragionevolmente gli Stati Uniti a capo del tavolo negoziale attorniato da alleati e amici per fronteggiare le minacce globali. È convinzione del presidente eletto che il mondo non si organizzi autonomamente ma che solo gli Stati Uniti possano dargli ordine così come fanno almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale, quantomeno fino alla presidenza Obama. L’ex vicepresidente è consapevole che il ritiro dalla scena internazionale abbia comportato costi rilevanti, non solo in termini di risorse ma anche di credibilità per il Paese e che il conseguente vuoto creatosi potrebbe essere colmato da un’altra potenza, non incline a tutelare interessi e valori statunitensi, o da nessuno lasciando che l’anarchia faccia da protagonista nel sistema internazionale.
Tra gli strumenti fondamentali da rivitalizzare figura la diplomazia, mentre l’uso della forza dovrebbe essere relegato a ultima risorsa per fronteggiare la rinnovata sfida tra le grandi potenze. Per evitare derive nell’una e nell’altra direzione, l’amministrazione Biden tenterà di rilanciare il multilateralismo per salvare quel che resta del progetto di ordine liberale. Ciò non implica che le criticità che hanno spinto il presidente Bush a favorire l’unilateralismo siano scomparse, anzi. L’avversione dell’elettorato statunitense a spendere per missioni all’estero è cresciuta negli anni e il COVID-19 potrebbe gravare ulteriormente. Le risorse sono limitate e la paura per uno sforzo economico eccessivo è più viva che mai. Inoltre, la mancanza di un nemico comune potrà dare forma ad un multilateralismo più dinamico e fluido, ma forse meno affidabile per gli Stati Uniti.
Dunque, non si intravedono all’orizzonte nuovi cambiamenti, se non il rafforzamento di trend già inaugurati. Gli Stati Uniti sembrano aver concluso la stagione dell’interventismo. E se anche si concretizzasse un rilancio del multilateralismo sarebbe funzionale all’obiettivo di proseguire lo scontro con le nuove potenze revisioniste: Cina e Russia. In conclusione, gli Stati Uniti devono tornare a competere con le grandi potenze per prolungare il momento unipolare o abbandonarlo. Così cambiano definitivamente le aree di interesse degli Stati Uniti.
Grande Medio Oriente: verso un consolidamento dello status quo
L’area è stata di fondamentale importanza per oltre un ventennio ma sembra che il 46esimo Presidente degli Stati Uniti sia favorevole allo status quo. Il presidente eletto Biden è in disaccordo con il ritiro totale delle truppe incoraggiato da Trump perché potrebbe non essere funzionale all’interesse nazionale. Un ritiro completo dall’Afghanistan è utopistico al momento data la necessità di contrastare il terrorismo ma non c’è più spazio per dispiegamenti su larga scala in conflitti di lungo termine. Considerazioni analoghe valgono per l’Iraq oramai considerato longa manus dell’Iran, regime sponsor del terrorismo e destabilizzante per la regione che si è espanso anche in Siria e Yemen.
Tuttavia, il presidente eletto Biden si è detto a favore di una ripresa del Joint Comprehensive Plan of Action, anche noto come Piano sul Nucleare stipulato con l’Iran. Di contro, Israele spera che l’uccisione della figura senior di al Qaeda nonché scienziato nucleare Moshen Fakrizadeh e la morte del Generale Qasem Soleimani prevengano l’incontro tra Stati Uniti e Iran. Inoltre, la vicinanza alla lobby israeliana da parte di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fa vacillare il proposito di perseguire tale agenda. Di contro, l’Amministrazione Biden cercherà di deterrere Israele dall’implementare ulteriori politiche aggressive mentre sembra che non interverrà nel conflitto Israelo-Palestinese se non ricorrendo alla diplomazia. Non si profila un trasferimento di ambasciata per gli Stati Uniti. È invece il Segretario di Stato Blinken a invitare la Palestina a rafforzare la propria leadership.
Cina e Russia: competizione tra grandi potenze
La politica estera americana verso la Cina ha subito variazioni rilevanti legate al colore della presidenza. Bush Jr. sosteneva che il suo predecessore avesse commesso un errore, che la Cina fosse un avversario strategico e come tale doveva essere trattata. L’insediamento di Obama alla Casa Bianca aprì un tentativo di dialogo con Pechino considerato strategic partner, seppur in maniera debole e scarsamente credibile. Ma la Cina si consacra come il competitor per eccellenza durante l’Amministrazione Trump e così sarà trattata da Biden.
Il Dipartimento della Difesa considera contrastare le capacità militari della Cina come la priorità della sua agenda. È anche trapelato che l’Amministrazione non revocherà i dazi imposti dal presidente Trump. Bisogna prima costruire un leverage adeguato. Dunque, l’obiettivo di confrontarsi con la Cina permane, ma si cerca di farlo in maniera costruttiva. Gli Stati Uniti, secondo le dichiarazioni del National Security Advisor Jake Sullivan, inoltre metteranno pressione in materia di commercio e diritti umani mentre sperano di collaborare in materia di cambiamento climatico. Il coinvolgimento di Pechino in iniziative internazionali però è da considerarsi come l’ennesimo tentativo di contenere il Paese. Ciò si pone in continuità con l’atteggiamento tenuto da Biden ancora vicepresidente. Non si dimentichi il suo ruolo nel Pivot to Asia.
Per quanto concerne i rapporti con la Russia, si cercherà di rinnovare quel che rimane del trattato sulla riduzione delle armi strategiche nucleari, il NEW START, che terminerà sedici giorni dopo l’insediamento di Biden. La Russia ha già richiesto che sia esteso per un altro anno. L’estensione del trattato sarebbe un primo test per capire come trattare la Russia. Un possibile ambito di cooperazione riguarderebbe il cambiamento climatico, mentre rimarrà di grande attualità e rilevanza la questione delle sanzioni imposte al Paese da Obama e rafforzate da Trump. Biden, il cui primo viaggio in Russia è avvenuto nel 1973, potrebbe fare pressioni per la promozione della democrazia e dei diritti umani mentre denuncia la cleptocrazia globale. Tuttavia, Mosca potrebbe essere un considerevole elemento impediente per l’ex vicepresidente soprattutto in Libia, ove è il maggiore giocatore a supporto di Haftar mentre la comunità internazionale non ha un piano ben definito. Dunque, si profila una politica di confronto piuttosto che di ingaggio con il grande orso, soprattutto da parte del Segretario di Stato.
Inoltre il Dipartimento della Difesa, temendo che la superiorità statunitense nelle armi convenzionali sia a rischio, ha intrapreso numerose azioni quali il rafforzamento della ricerca e lo sviluppo per nuove tecnologie. La rinnovata competizione tra grandi potenze ha dato nuova enfasi negli Stati Uniti al dibattito sulle armi e la deterrenza nucleari. La Russia ha ripetutamente fatto menzione del suo status di maggiore potenza nucleare mentre la Cina gode di un arsenale molto più modesto sebbene in via di modernizzazione. Nondimeno, il Pentagono ha piani per acquisire missili balistici sottomarini e bombardieri a lungo raggio di nuova generazione. È un tema fondamentale dato il ritiro dal Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces (INF).
Conclusioni
Emerge dunque la figura di una potenza ancora grande ma forse non più super accanto ad altre grandi potenze, in un sistema multipolare. È stato difficile individuare, ammesso che questa fase della politica estera statunitense sia conclusa, le minacce principali foriere di grandi sfide per Washington. Tuttavia, si deve tenere in considerazione che se gli Stati Uniti sono ancora una potenza militare ed economica questo non vale né per la Cina, potenza economica ma non ancora militare, né per la Russia, potenza militare ma non economica.
La necessità di bloccare sul nascere stati economicamente potenti come la Cina è data dall’incapacità di individuare preventivamente quando il potere economico verrà impiegato per creare anche potere militare. È convinzione statunitense che alcune potenze economiche siano destinate a divenire militari. Questa trova fondamento in un precedente: gli Stati Uniti stessi. Ma se un competitor godesse di potere economico e militare sarebbe un competitore alla pari degli Stati Uniti e potrebbe sfidarli apertamente.
Le tensioni tra Washington, Pechino e Mosca, pur non sfociando necessariamente in aperto conflitto, potrebbero articolarsi diversamente perché mirano a conservare o conquistare uno spazio nel mondo, una sfera di influenza. Mentre le potenze in ascesa si affaccendano per crearla, la potenza unipolare in declino si sforza di impedirlo. Ciò dà rinnovata importanza alle alleanze poiché bisogna evitare che il revisionista crei un’alleanza, divenga un egemone regionale e quindi uno sfidante compiuto degli Stati Uniti.
Elisa Maria Brusca,
Geopolitica.info