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La morte di Liu Xiaobo e la pressione cinese sull’Europa

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La morte dello studioso, letterato e poeta cinese Liu Xiaobo deve necessariamente aprire un dibattito sul futuro dei rapporti tra i paesi occidentali, in particolare quelli europei e la Cina. I timidi tentativi di mediazione delle scorse settimane sono un chiaro segnale di un nuovo approccio, improntato al pragmatismo, dei paesi europei nei confronti delle tematiche dei diritti umani in Cina. I tiepidi appelli dell’Unione Europea, sovrastati dall’assordante silenzio dalle singole nazioni impegnate in trattative economiche bilaterali con Pechino, hanno segnato il definitivo abbandono del tentativo di difesa dei diritti civili in Cina.

All’attivista cinese, condannato con l’accusa di “incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato” era stato diagnosticato un cancro al fegato allo stato terminale a maggio 2017, appena pochi mesi prima della sua morte. Liu Xiaobo aveva ottenuto il trasferimento, rimanendo in stato di arresto, in una struttura ospedaliera fuori dal carcere il 26 giugno. La famiglia di Liu Xiaobo aveva fatto un appello pubblico al governo cinese per permettere all’attivista dei diritti di essere curato all’estero. La morte di Liu Xiaobo segna un tragico primato, si tratta del primo Nobel per la Pace a morire mentre si trova agli arresti dopo Carl von Ossietzky, l’attivista pacifista tedesco ricevette il premio nel 1935. Von Ossietzky morì nel 1938 in un carcere nazista dopo aver subito torture e maltrattamenti ma la Germania di quegli anni era già uno stato al di fuori delle principali organizzazioni internazionali e in procinto di dare il via all’Olocausto. Una realtà molto diversa dalla Cina di Xi Jinping che, oltre a trovarsi perfettamente integrata all’interno dell’ordine mondiale, ha esplicitamente mostrato negli ultimi mesi l’ambizione di voler guidare le spinte della globalizzazione orfane degli Stati Uniti di Donald Trump.

Le reazioni occidentali alle richieste di Liu, in particolari quelle europee, sono state ben diverse da quelle che fino a qualche anno fa erano riservate agli attivisti per i diritti civili cinesi. Le comunicazioni ufficiali sono state definite dai principali analisti come “velleitarie”, “timide” e “tiepide”. Lo stato finanziario di molte economie europee e la dipendenza sempre più forte dal mercato cinese hanno sicuramente influenzato questo inedito approccio. La realpolitik sembra essere la unica possibile cornice interpretativa dei rapporti bilaterali tra la Cina e le nazioni europee.

La storia personale di Liu Xiaobo è centrale nell’evoluzione della lotta per i diritti civili in Cina. Nel 1989, mentre si trova alla Columbia University di New York, impegnato nella redazione del libro Chinese Politics and China’s Modern Intellectuals, viene a conoscenza dell’inizio delle proteste studentesche a Pechino. Si reca immediatamente in Cina per fornire supporto morale agli studenti, molti dei leader erano stati suoi alunni negli anni precedenti. Liu sarà tra i promotori dello sciopero della fame e inciterà i manifestanti a cercare una soluzione pacifica e mai violenta. Insieme a Zhou Duo e Hou Dejian porterà avanti una trattativa con i primi carri armati che entrano a Piazza Tienanmen, riuscendo a convincere i militari a lasciar defluire gli studenti. Un gesto che probabilmente salvò la vita a centinaia di persone e riuscì a depotenziare inizialmente la repressione del Partito Comunista cinese. Verrà arrestato per il suo ruolo nelle proteste del 1989 e negli anni seguenti verrà detenuto più volte con accuse che vanno dalla propaganda controrivoluzionaria al disturbo della quiete pubblica. Dopo il rilascio nel 1991, fu licenziato dalla Università Normale di Pechino e la pubblicazione dei suoi scritti fu vietata in Cina.

Liu Xiaobo ha continuato negli anni la sua attività di sostenitore dei diritti civili ed è stato il promotore di “Charta 08” un manifesto redatto in occasione delle Olimpiadi di Pechino che sostiene la necessità di introdurre gradualmente delle riforme democratiche nel sistema politico cinese. Il documento aveva attratto l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, le richieste redatte dai 303 firmatari erano incentrate sulla necessità di un cambiamento nella gestione della cosa pubblica in Cina e sull’avvio di un processo di apertura nei confronti della libertà politica e dei diritti civili. Il governo cinese reagì da subito in maniera decisa e dura nei confronti di tutti i firmatari del documento, l’appello venne definito un attacco alla sovranità e un tentativo di sovversione alimentato da poteri stranieri. Il documento era stato ideato con un chiaro riferimento alla Charta 77 redatta in Cecoslovacchia nel gennaio 1977 da Václav Havel, Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Jiří Hájek e Pavel Kohout. Liu inizialmente non partecipò alla redazione del documento ma poi decise di partecipare e lo fece cercando di elimina o minimizzare tutte gli aspetti più controversi e diretti del manifesto

Liu fu arrestato e condannato nell’anno seguente a undici anni di carcere, la sentenza ebbe una grande risonanza nel mondo intero e l’anno seguente il dissidente cinese ricevette il Premio Nobel per la Pace.  La stessa Norvegia venne duramente criticata per la scelta del Nobel a Liu Xiaobo, Pechino si mobilitò immediatamente per boicottare la cerimonia di consegna del premio. Ben 19 nazioni, tra cui la Russia e l’Iran, declinarono l’invito per la serata a Oslo mentre altre cinquanta nazioni non risposero. Pechino vietò, nei mesi immediatamente successivi,l’importazione di salmone norvegese in Cina creando un grave danno all’economia del paese. Una situazione che è cambiata solo qualche mese fa, con un riavvicinamento tra i due paesi suggellato da una serie di dichiarazioni in cui Oslo cita la volontà di rispettare la sovranità della Repubblica Popolare cinese e promette di non attivare nel futuro nessun tipo di azioni che possano minare gli interessi di Pechino. Mentre la dichiarazione cinese si riferisce direttamente ad un riconoscimento, da parte di Oslo, delle ragioni che avevano portato ad un congelamento dei rapporti diplomatici e cita esplicitamente la volontà norvegese di non ripetere gli errori commessi nel passato. Il rifiuto del primo ministro norvegese Erna Solberg nelle scorse settimane di rilasciare un commento sulla vicenda di Liu Xiaobo o di sottoscrivere un appello pubblico può essere letto come un adempimento di Oslo all’accordo con Pechino.

Nel recente G20 tedesco nessuno dei leader ha nominato Liu Xiaobo, la Cina ha fatto chiaramente capire che non accetta alcun tipo di intromissione nelle sue vicende interne e anche la citazione di violazioni di diritti umani nel paese rappresenta una interferenza sulla sovranità nazionale per Pechino. Gli stati europei preferiscono lasciare le proteste e le obiezioni sulle questioni dei diritti civili all’Unione Europea per poter sviluppare accordi economici e politici bilaterali, Pechino ha sinora accettato questa condizione senza troppi problemi. La Cina da sempre ha privilegiato i rapporti bilaterali con i paesi europei, non riconoscendo un vero e proprio potere politico e decisionale a Bruxelles. Una situazione che non è destinata a perdurare, proprio a giugno 2017 la Grecia si è opposta ad una mozione dell’Unione Europea da sottoporre al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite riguardanti le violazioni dei diritti civili in Cina. Atene ha motivato la scelta sulla base di un “criticismo controproducente” e di una interferenza nella sovranità cinese, un gesto che ha immediatamente prodotto elogi e lodi a Pechino. La Grecia ha sviluppato negli ultimi anni degli intensi rapporti commerciali con Pechino, e gli investimenti cinesi nel paese sono aumentati vertiginosamente. Il porto del Pireo è stato acquistato dalla principale compagnia marittima cinese, un piano di 3 miliardi di dollari è stato stanziato per finanziare progetti navali congiunti e la Cina ha finanziato sia l’ampliamento dell’aeroporto di Atene sia di quello di Creta. I riferimenti alle conseguenze per il paese del progetto cinese One Belt One Road sono onnipresenti nei discorsi del primo ministro Tsipras. La scelta greca, che ha prodotto una condizione inedita con la UE che per la prima volta non ha fatto riferimenti a violazioni dei diritti umani di specifici paesi alla UNHRC, è stata direttamente interpretata dai principali analisti come una controparte richiesta da Pechino.

Già nel marzo 2017 l’Ungheria si è astenuta dalla firma di un documento comune dell’Unione Europea per un appello alla Cina dopo le denunce, credibili e verificate, di atti di tortura nei confronti di attivisti e avvocati arrestati nei primi mesi dell’anno. Solo sette paesi europei, Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Francia, Germania, Svezia e Regno Unito, hanno firmato il documento dopo che l’astensione ungherese ha determinato la mancata unanimità. Ad ulteriore riprova delle reticenze dei paesi europei di avviare richieste bilaterali alla Cina sul tema dei diritti umani. Un caso analogo al boicottaggio norvegese e alle spinte sulla Grecia è stato quello avvenuto in Spagna qualche anno fa. Nel novembre 2013, una corte spagnola ha ordinato l’emissione di mandati internazionali di arresto per l’ex presidente cinese Jiang Zemin, per l’ex primo ministro Li Peng e altri funzionari all’interno di una indagine su un presunto genocidio in Tibet.

La causa fu originata da una denuncia presentata da un gruppo di attivisti della causa tibetana, la legge spagnola permette di perseguire i crimini contro l’umanità commessi anche al di fuori del paese. La risposta di Pechino fu immediata, una serie di dichiarazioni espressero il malcontento cinese e i rapporti diplomatici tra i due paesi furono di fatto congelati. La visita del primo ministro Mariano Rajoy fu bloccata e i due principali investimenti spagnoli il Cina, l’impianto di desalinizzazione Abengoa nello Shandong e lo stabilimento di trasformazione del silicio di Ferroatlántica nel Sichuan, furono osteggiati da problemi burocratici. Nel febbraio 2014, il governo approvò una riforma del Congresso per limitare l’uso della giurisdizione universale, che aveva permesso negli anni passati l’incriminazione di Pinochet tra gli altri. L’accusa contro Jiang e gli altri funzionari fu dismessa appena quattro mesi dopo, con grande sollievo dei funzionari spagnoli a Pechino che avevano apertamente documentato il boicottaggio cinese di ogni iniziativa economica.

L’acquisizione cinese del debito pubblico spagnolo costituiva poi la principale fonte di preoccupazione per Madrid. La Cina deteneva nel 2014 il 20 per cento delle obbligazioni di Madridche non appartenevano a cittadini spagnoli, una situazione che esponeva fortemente l’economia del paese ad eventuali speculazioni finanziarie. Le numerose missioni italiane in Cina negli ultimi anni hanno determinato un importante incremento dell’interscambio economico e commerciale tra i due paesi, la Cina è un partner cruciale per l’Italia e l’implementazione del progetto One Belt One Road costituirà un ulteriore passo avanti nei rapporti bilaterali. Le stesse missioni hanno sempre evitato di toccare temi sgraditi a Pechino, praticamente le conferenze stampa sono state ridotte a semplici resoconti e relegate al margine degli incontri.

Il report di Human Rights Watch del 2017 cita una crescente preoccupazione per il futuro delle libertà civili in Cina: “Con la leadership del presidente Xi Jinping, che rimarrà al potere fino al 2022 e probabilmente anche dopo, le prospettive per i diritti umani fondamentali, incluse le libertà di espressione, di assemblea, di associazione e di religione, restano terribili”. La crescente recrudescenza della repressione politica in Cina contro gli attivisti per i diritti civili, la difficile situazione delle minoranze e della transizione democratica a Hong Kong richiedono un approccio equilibrato e misurato che possa dar conto, pur nel quadro complesso delle imprescindibili relazioni politiche e commerciali con Pechino, anche delle voci di protesta della società civile cinese.

 

 

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