Le missioni mediche e militari che alcuni Paesi hanno realizzato in Italia per contribuire alla lotta al Coronavirus hanno reso evidente come la loro componente solidaristica sia difficilmente separabile da quella politico-strategica. A costo di passare per dei cinici realisti, è necessario ricordare come – soprattutto nella dimensione internazionale – nessuno faccia niente in cambio di nulla o, meglio, faccia qualcosa in nome del più alto valore della solidarietà. Sarebbe sicuramente una storia bella da raccontare e da raccontarci ma, se ci cascassimo, rischieremmo di non essere in grado di guardare dentro alla realtà e di interagirvi efficacemente.
Articolo pubblicato il 7 maggio 2020
L’emergenza COVID-19, infatti, si è attestata come un nuovo terreno di confronto tra i garanti dell’ordine liberale – gli Stati Uniti e i loro alleati (al netto delle crepe che tra questi stanno emergendo) – e quelle che la National Security Strategy 2017 ha definito come potenze “revisioniste” – in primis la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa.
L’invio di personale medico e materiale sanitario di Pechino, così la missione From Russia with Love di Mosca, hanno sollevato un dibattito a cui abbiamo preso parte anche dalle pagine di Geopolitica.info. Questo ha toccato alcuni dilemmi irrisolti degli aiuti esterni, come le loro conseguenze materiali (utili o inutili?), i loro costi (donazioni o vendite?) e le loro ragioni (umanitarie o strategiche?), culminando nel botta e risposta tra il quotidiano torinese La Stampa e l’Ambasciatore della Federazione Russa, così come nella denuncia del ritorno in Italia “a pagamento” delle mascherine precedentemente donate alla Cina.
I commentatori hanno sottolineato più o meno esplicitamente un doppio ordine di obiettivi che avrebbe ispirato sia Mosca che Pechino. Quello più citato è legato alla dimensione del soft power. In tal prospettiva, la Russia avrebbe prestato soccorso all’Italia per crearsi un credito da spendere sulla questione delle sanzioni e su quella della Enhanced Forward Presence della NATO nell’Europa settentrionale. La Cina, dal canto suo, lo avrebbe fatto per preparare il terreno a un’ulteriore accelerazione del progetto One Belt, One Road, che potrebbe tradursi nell’acquisizione di alcuni asset strategici italiani (in particolare, le infrastrutture portuali) sul modello di quanto già fatto in Grecia (si pensi al porto del Pireo). Il secondo obiettivo, meno citato ma sempre strisciante in tutti i ragionamenti, è quello legato alla componente di hard power, ovvero alle informazioni militari che tanto l’equipe medica cinese quanto il contingente russo avrebbe potuto carpire in Italia.
Entrambe le criticità, sebbene da non sottovalutare, sembrano legate a un paradigma strategico da Guerra fredda, fondato su una propaganda volta a rovesciare gli allineamenti consolidati e la ricerca di una superiorità militare in vista di un confronto apocalittico e decisivo. Tuttavia, fanno sì che non siano tenuti in dovuto conto due elementi essenziali delle dinamiche internazionali odierne. Da una parte, il fatto che il confronto tra grandi potenze prende forma su terreni nuovi (biotecnologie, calcolatori quantistici, intelligenza artificiale, reti di comunicazione, big data) che non possono essere ridotti a degli epifenomeni delle dimensioni “tradizionali”. Questi hanno una loro autonomia e devono prevedere una riflessione strategica, dei modelli di comportamento e degli obiettivi specifici. Dall’altra, a causa del differenziale di potenza con gli Stati Uniti che ancora li vede sfavoriti nel settore militare, la Federazione Russa o la Repubblica Popolare Cinese potrebbero essere interessate a compiere salti di paradigma strategico proprio su terreni “nuovi” della competizione internazionale. Se questo fosse vero ne potrebbero discendere due obiettivi principali che affiancherebbero – o sopravanzerebbero – quelli precedentemente discussi.
Il primo, relativo alla dimensione del potere nelle relazioni internazionali, riguarda le future evoluzioni della competizione tra le grandi potenze. Fondati o meno che siano i sospetti dell’Amministrazione Trump sulla fuoriuscita del virus dal laboratorio di Wuhan, la crisi innescata dal COVID-19 ha dimostrato che l’arma batteriologica può rappresentare uno strumento efficace per infliggere perdite umane ed economiche, oltre che per piegare il morale della popolazione dei Paesi nemici. Occorre ricordare, d’altronde, che i documenti strategici americani parlano della necessità di sviluppare una capacità di risposta alle pandemie e agli attacchi alla salute pubblica sin dalla National Security Strategy del 2006. Pertanto, occorre essere pronti a farvi fronte, avendo sviluppato quelle conoscenze che saranno indispensabili nel momento del bisogno. Dalla prospettiva russa e cinese, l’Italia potrebbe avere rappresentato un laboratorio a cielo aperto dove addestrare e testare equipe mediche e reparti dell’esercito specializzati nei settori della difesa chimica, radiologica e biologica.
Il secondo obiettivo, relativo al tema del prestigio nelle relazioni internazionali, chiama in causa l’utilizzo di quelle informazioni strategiche che potrebbero essere state carpite sul nostro territorio. Si fa naturalmente riferimento a quelle relative al Coronavirus, dagli studi in corso nel nostro Paese (ricordiamolo, ancora all’avanguardia in campo medico) alla casistica dei pazienti italiani, passando per le procedure e i protocolli attivati. Ma anche, più in generale, a quelle custodite dal nostro sistema sanitario nazionale. In altre parole, missioni ufficialmente realizzate in nome della solidarietà potrebbero rivelarsi, nella migliore delle ipotesi, delle grandi operazioni di data mining. In tal prospettiva, sarebbe interessante sapere quale livello di accesso abbiano avuto i team inviati da Mosca e Pechino ai big data custoditi nei nostri ospedali, aziende sanitarie e RSA. In tal prospettiva, non si dimentichi che la conferenza stampa della missione cinese si è tenuta in una struttura strategica al giorno d’oggi come l’INMI Lazzaro Spallanzani che, tuttavia. non è pensata – come le altre – per doversi difendere da qualcuno o da qualcosa.
Se ciò fosse vero, l’utilizzo immediato che si potrebbe fare delle informazioni reperite in Italia sarebbe quello ai fini della scoperta di un vaccino russo o cinese per il COVID-19. Questo risultato sarebbe fondamentale in termini di potere e di prestigio per gli sfidanti dell’ordine internazionale, così come per i suoi garanti. Tale sfida in nome del progresso scientifico trova un illustre precedente in un altro momento critico della storia contemporanea che, oltre a essere denso di suggestioni, può risultare utile per comprendere quale modello di conoscenza e contrasto del Coronavirus potrebbe essere necessrio adottare.
Il salto indietro ci porta nella Copenaghen del 1941, occupata dalle truppe della Germania nazista. Qui il fisico tedesco Werner Karl Heisenberg (nazista più per opportunità di carriera che non per convinzione ideologica) fa visita al suo vecchio maestro Niels Bohr (ebreo da parte di madre). Entrambi sono attivamente coinvolti, su fronti opposti, nella ricerca scientifica che mira a realizzare la bomba atomica. I due hanno una conversazione nel giardino della casa di Bohr. La maggior parte degli storici ritiene che Heisenberg – a capo del programma nucleare militare tedesco – volesse capire a che punto fossero gli alleati nello sviluppo dell’arma suprema, perché riteneva che Bohr ne avesse contezza (nel 1943 il fisico danese riparerà negli Stati Uniti dove parteciperà attivamente al Progetto Manhattan insieme a molti altri ebrei fuggiti da un’Europa in fiamme). I due fisici (diventati anche i protagonisti di una fortunata pièce teatrale di Michael Frayn) rappresentano due visioni contrastanti della scienza. Da un lato Heisenberg, fautore dello sforzo titanico di un solo Paese e disponibile a piegare la scoperta scientifica alla politica di potenza di una nazione. Dall’altro Bohr, fautore del progresso scientifico per accumulazione e dell’idea di società aperta.
Anche oggi sembra consumarsi lo stesso confronto, con le società aperte identificabili – nonostante qualche sbandamento sia da parte americana che europea – nelle potenze garanti dello status quo emerso dalla fine della Guerra fredda e le società chiuse nelle potenze revisioniste. Nell’ambito di tale dinamica di interazione, è inverosimile che l’Italia, al netto delle stravaganti uscite di qualche politico (senza distinzione tra partiti), possa disallinearsi dal primo campo nel breve-medio periodo. Il fronte euro-atlantico, d’altronde, è contraddistinto dalla presenza di un sistema di vincoli reciproci altamente istituzionalizzati che, congiuntamente a questioni di ordine economico e culturale, rendono i rapporti tra i Paesi che vi partecipano particolarmente “vischiosi”. Tuttavia, alcune scelte compiute in questa fase dal nostro Paese – non è dato sapere se intenzionali o meno – potrebbero comunque contribuire a rafforzare il fronte dei Paesi revisionisti in questo nuovo terreno di contestazione dell’ordine liberale. Come sistema-Paese dovremmo esserne coscienti, magari dibattendone pubblicamente senza pregiudizi e sensazionalismi, e agire di conseguenza. Per decidere insieme dove, come e in compagnia di chi immaginiamo l’Italia da qui ai prossimi vent’anni.
Gabriele Natalizia,
Geopolitica.info e Sapienza Università di Roma
Salvatore Santangelo,
Geopolitica.info e Università degli Studi di Roma Tor Vergata