Ad una conferenza a New York dell’Asia Society Policy Institute il 5 dicembre, l’ex primo ministro australiano Kevin Rudd ha affermato che in merito alla libertà religiosa, la Cina fosse “molto meglio ora di prima”, scatenando un’ondata di indignazione sui social media e la disapprovazione di molti netizen. Non prendendo in esame il caso delle persecuzioni contro la popolazione uigura musulmana, in effetti oggi milioni di cinesi possono praticare il culto delle proprie religioni in istituzioni e sedi approvate dal governo e il numero di credenti in Cina sta crescendo notevolmente.
Eppure, la situazione dei fedeli delle cinque religioni riconosciute nella Repubblica Popolare Cinese può essere considerata “migliorata” solo perché il governo è riuscito nel suo intento di subordinarle ad uno stretto controllo organizzativo e ideologico e, contemporaneamente, di colpire i gruppi e le fedi che Pechino considera divergenti e pericolose. Nel non cogliere la differenza tra libertà di culto e libertà di religione risiede l’errore di Rudd: in Cina, infatti, milioni di persone sono autorizzate a praticare il proprio culto in congregazioni e spazi accordati dall’autorità centrale ma una libertà di religione, ovvero la libertà di credere e praticare senza l’interferenza del governo, non è garantita. Un approfondimento della natura e degli scopi della politica religiosa del Partito Comunista cinese può aiutare a valutare la veridicità dell’affermazione di Rudd.
Nella Cina imperiale, lo stato incoraggiava il culto popolare di quelle divinità che promuovessero una condotta rispettosa delle leggi mentre contrastava quello che fomentasse instabilità e dissidi sociali. In sostanza, l’imperatore, che tra i tanti appellativi era anche chiamato “figlio del Cielo”, pretendeva che le fedi religiose giurassero fedeltà alla sua autorità e riconoscessero la sua giurisdizione in materia religiosa così da poter essere incaricate del benessere spirituale della popolazione. Coerentemente con questo primato dello stato sulla religione, il potere civile esercitava l’autorità in materia di sicurezza senza alcun riguardo per le questioni religiose.
Dopo aver preso il potere nel 1949, i comunisti cinesi aggiunsero al tradizionale approccio imperiale la visione negativa delle religioni tipica del Marxismo facendo sì che patriottismo e socialismo vincolassero tanto i credenti quanto i non credenti. La libertà religiosa concessa rimaneva, quindi, condizionata all’obbedienza alle leggi dello stato e alla subordinazione alle politiche e alle decisioni governative.
La politica religiosa del Partito è fondamentalmente duplice: da un lato punta a coinvolgere i gruppi religiosi per trasformarli in forze sociali utili al raggiungimento di fini politici e dall’altro mira a contenerne lo spazio di manovra. La sottomissione delle organizzazioni alla guida politica del Partito e la supervisione delle loro attività da parte di istituzioni governative sono requisiti fondamentali perché la religione funga da strumento socio-culturale per raccogliere consenso e perseguire l’agenda politica cinese. Se nazionalizzato e edulcorato politicamente, “l’oppio dei popoli” può, quindi, servire a supportare il potere del Partito. Ciononostante, dal punto di vista di Pechino, il contenimento della religione è un requisito essenziale che si deve fondare su tre concetti: adattamento, legislazione e indipendenza.
Il concetto di adattamento delle religioni al sistema socio-politico viene ripetuto in molti documenti nell’ultimo decennio. Nonostante sia presentato come reciproco, appare chiaro come il Partito pretenda che questo processo di adattamento si svolga in maniera unidirezionale, ovvero che le fedi religiose si mostrino flessibili, soddisfacendo i criteri imposti dal governo, e si conformino alla volontà politica centrale.
L’attività legislativa è lo strumento principale per ottenere questo “adattamento”. In sintesi, il Partito utilizza misure legislative e repressive per rendere le religioni e le attività religiose innocue. Analogamente a quanto fatto dagli imperatori nei secoli passati, il governo comunista si è arrogato l’autorità legislativa di decidere quali siano le fedi permesse e quali attività religiose siano da considerare “normali” e quali no, per, infine, emarginare e bandire quelle che resistono al controllo centrale. Inoltre, le autorità civili hanno stretto un cordone sanitario intorno ai gruppi religiosi per tagliarli fuori dai settori della vita pubblica su cui lo stato ambisce ad esercitare un monopolio: educazione, matrimonio, politica demografica, pubblica morale etc.
Il terzo elemento della strategia di contenimento è il concetto di indipendenza, ovvero il riconoscimento da parte delle organizzazioni religiosa che nessuna autorità è superiore al governo centrale. Pur essendo un leitmotiv della politica religiosa comunista già dai tempi di Mao, la leadership attuale ha ritenuto che il nuovo contesto sociale richiedesse un aggiornamento del concetto di indipendenza in modo tale da frenare la penetrazione nel paese di culti esogeni e limitare, per quanto possibile, l’influenza che organizzazioni e personalità religiose straniere possono esercitare sui fedeli in Cina. La crescente intensità degli scambi culturali favorisce, infatti, la diffusione di nuove idee religiose tra i fedeli di tutto il mondo rendendo il confine cinese più poroso alle influenze culturali. Secondo il governo di Pechino, ciò starebbe aumentando i rischi che i credenti cinesi vengano etero-diretti da parte di soggetti stranieri, invece di lasciarsi “guidare” e perseguire l’agenda politica del Partito e, perciò, il Partito sta tentando di mantenere questi gruppi “indipendenti”, ovvero di costringerli alla sinizzazione.
In sintesi, sembra che per il governo cinese libertà religiosa significhi piuttosto soggezione al controllo statale secondo il dogma “tutto per lo stato; nulla al di fuori dello stato; nulla contro lo stato”. Secondo questa visione statolatrica, la religione deve rimanere un appalto statale e rinunciare alla propria natura per essere ridotta ad un mero cerimoniale diretto dal governo. Anche il “molto meglio ora di prima” di Kevin Rudd ha, quindi, “caratteristiche cinesi”.