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TematicheItalia ed EuropaLa guerra in Afghanistan: perché siamo andati e cosa...

La guerra in Afghanistan: perché siamo andati e cosa abbiamo imparato. Parla il Gen. Cuzzelli

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Il 30 giugno il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, ha annunciato il ritiro dell’ultimo militare italiano dall’Afghanistan. Si è così concluso un impegno ventennale per l’Italia, che ha visto le nostre forze armate massicciamente impiegate in combattimento nell’ambito della coalizione internazionale agente sotto il cappello della NATO. In occasione di questo evento, abbiamo raggiunto il Dott. Cuzzelli, Generale di Brigata in congedo dell’Esercito Italiano e docente di Sicurezza Internazionale. Nel corso della sua carriera il Dott. Cuzzelli ha prestato servizio in Afghanistan, dove ha comandato un’unità multinazionale della NATO dedicata alla formazione e all’assistenza in operazioni delle forze di sicurezza locali. Abbiamo discusso con lui del lunghissimo conflitto afghano, analizzandone le cause, gli sviluppi e la conclusione, da una prospettiva americana e, ovviamente, anche italiana.

Il 14 aprile il presidente Joe Biden ha annunciato che gli Stati Uniti lasceranno l’Afghanistan entro l’11 settembre di quest’anno. Per Washington termina così l’impegno militare più lungo della storia americana. Perché la guerra è durata così a lungo? Cos’è cambiato con Biden?

Questa domanda ci permette di comprendere la posizione degli Stati Uniti, che sappiamo essere stati i primi ispiratori di questo intervento della comunità internazionale in Afghanistan a seguito degli attacchi alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001. Dal punto di vista statunitense questa è certamente la guerra più lunga che il paese abbia mai affrontato nella sua storia, una guerra dall’esito estremamente incerto, quando non addirittura totalmente negativo, a parere di alcuni commentatori. Una guerra, soprattutto, che andava conclusa, in un modo o nell’altro.

Nel 2003, con l’avvio delle operazioni in Iraq, si capì subito che l’Afghanistan sarebbe uscito dal focus degli sforzi americani all’estero, poiché questo nuovo teatro avrebbe preteso e richiesto maggiore attenzione. L’intervento in Afghanistan si è quindi in qualche modo trascinato nel tempo. Già nel 2008 il generale Carleton-Smith, comandante di una brigata britannica nella provincia di Helmand, dichiarava al Sunday Times che la guerra non poteva essere vinta militarmente. In effetti, un conflitto di quel tipo doveva prima di tutto essere vinto politicamente. Obama in qualche modo ci ha provato. Il presidente democratico è stato eletto con una piattaforma elettorale molto chiara su questa guerra, così come per quella irachena, dove in entrambi i casi si voleva un disimpegno. Mentre il disimpegno dall’Iraq è avvenuto senza troppe remore, e con le conseguenze che abbiamo potuto vedere, le cose in Afghanistan sono andate diversamente, probabilmente perché le pressioni degli alleati, soprattutto della NATO, che in Afghanistan era massicciamente impegnata, in qualche modo hanno fatto sì che si seguisse il consiglio di una certa parte dell’establishment politico-militare statunitense, ancora convinta che la guerra potesse essere vinta. Obama ha provato il surge, che ha conseguito determinati risultati, i quali però non sono durati per il semplice motivo che al surge è seguito un ritiro che ha avuto effetti molto sfavorevoli sulla condotta della campagna nel suo complesso.

Quella in Afghanistan è divenuta quindi una guerra continuata di malavoglia, che ha pesato come un macigno sull’opinione pubblica, sull’economia e sullo strumento militare. Sono convinto che proprio l’establishment politico-militare abbia questa volta colto la palla al balzo del cambio della presidenza – già Trump aveva dichiarato di volersi ritirare, e aveva agito per farlo, anche se in modo particolarmente irruento, associando i talebani alle trattative ed escludendo il governo legittimo afghano – per mettere fine a questa guerra.

Biden ha spostato la teoria della contrapposizione tra grandi potenze che fa sì che questi conflitti insurrezionali non facciano più parte del vocabolario politico-militare statunitense. In buona sostanza, gli Stati Uniti, che risentono pesantemente della crisi pandemica, adesso devono cominciare a risalire la china e preoccuparsi di un contesto geopolitico globale in cui le cosiddette “potenze revisioniste” sono diventate da un lato gli interlocutori e dall’altro gli oppositori principali. Insomma, non c’è più tempo di fare counterinsurgency: bisogna preoccuparsi della Cina e bisogna preoccuparsi della Russia, quindi ripiegare e consolidarsi, in attesa di un futuro che è quanto mai incerto.

Da più parti, in occasione del ritiro occidentale dall’Afghanistan, si è paventata la sconfitta del governo di Ghani e il ritorno dei Talebani. Il paragone più frequente evocato da media e commentatori anche qualificati è con Saigon nel 1975. È questo il rischio che corriamo? Si tratta veramente di una sconfitta? E se di sconfitta si tratta è politica, militare, o entrambe le cose? E che cosa si poteva fare per evitarla?

Qui il problema fondamentale è duplice: da un lato quello della legittimità e delle ragioni profonde di questo intervento, dall’altro quello dei suoi sviluppi e della sua articolazione. Dal punto di vista dottrinale e accademico, quando studiamo un intervento internazionale ci poniamo quattro condizioni per il successo. La prima è quella della giusta causa: intervengo perché è giusto farlo, perché vi è una ragione di ordine superiore che legittima il mio intervento. La seconda è quella delle modalità con cui intervengo: se devo intervenire, devo farlo in modo risoluto. La risolutezza è il modo migliore per evitare ricadute e risolvere il problema, altrimenti la situazione si incancrenisce. La terza condizione è la presenza dello sforzo collettivo: bisogna portare con sé la comunità internazionale. La quarta è quella dell’exit strategy: in assenza di una strategia di uscita valida, ovvero senza conoscere le condizioni che mi permetteranno di ritirarmi, difficilmente riuscirò a farlo. Io aggiungerei una quinta condizione, collegata alla prima, ovvero la determinazione chiara di un end state, cioè di un risultato finale, di un obiettivo che voglio conseguire.

Non sono affatto sicuro che in Afghanistan queste condizioni siano state tutte rispettate. Forse l’Occidente vi si è impegnato senza avere le idee ben chiare né di ciò che si voleva ottenere né di come uscirne. Questo è l’aspetto fondamentale: si è entrati con premesse poco chiare. Gli Stati Uniti sono intervenuti, inizialmente, per colpire duramente al Qaeda, e solo dopo si sono concentrati sul nation building, ma in questa fase avrebbe dovuto essere l’ONU a intervenire. L’approccio che questa organizzazione ha nel nation building è assolutamente diverso da quello della NATO, un’organizzazione internazionale che, anche se probabilmente rappresenta quella di maggior successo del dopoguerra, nasce come alleanza militare, dunque non ha in sé gli strumenti per fare nation building come sa e può fare l’ONU. Ciò che ne è venuto fuori è stato uno sforzo di coalizione abbastanza improvvisato. Abbiamo inteso far fare alla NATO un lavoro per il quale quest’organizzazione non è nata, essendo un’alleanza militare con scopi difensivi. Lo sforzo principale non doveva essere quello militare, ma quello di ricostruzione statuale. Questo è stato indubbiamente affrontato dalla comunità internazionale, con ampi sforzi, e non solo economici – si pensi solo a quelli italiani dal punto di vista giuridico, per dare un nuovo corpus di leggi agli afghani – ma non dall’ONU. Né vale come giustificazione l’evocare la necessità di ripristinare condizioni minime di sicurezza per avviare il processo politico, perché non si può aspettare in eterno. Tant’è che il processo politico di nation building è stato avviato comunque ma – occorre ammetterlo – non sembra aver convinto appieno il principale destinatario, ovvero il popolo afgano. Non si spiega altrimenti il consenso – è inutile nasconderlo – di cui hanno continuato a godere in questi anni i Talebani, né l’apparente favore che incontrano oggi presso la popolazione.

Veniamo all’insuccesso militare. I talebani oggi sembrano essere incontenibili e in effetti pare che stiano assumendo il controllo di un distretto dopo l’altro. Come accennato in precedenza, questo accade verosimilmente perché il governo non è del tutto legittimato agli occhi dei cittadini afgani. Chi ha combattuto fino ad ora dalla parte delle istituzioni da un lato non si sente appoggiato dall’Occidente, dall’altro non è convinto al cento per cento che questo governo lo rappresenti, e ciò ci deve far riflettere.

Nel contempo, tuttavia, non sono convinto che la partita sia chiusa, a costo di essere smentito dai fatti. Si pensi all’intervento sovietico, fallito soprattutto perché non riuscì a ottenere il consenso del popolo afghano, mancando una classe operaia che sostenesse le teorie marxiste proposte dai sovietici. Una volta cessato l’intervento e ritirate le truppe sovietiche, tuttavia, ciò che tutti si aspettavano, cioè la caduta immediata di Kabul, non avvenne. Quando i mujahedin passarono alla controffensiva convenzionale contro le forze comuniste afghane furono sonoramente sconfitti. Le forze del regime, nonostante fossero in stato d’assedio, non cedettero, e caddero solo quando – dissolta l’Unione Sovietica – Eltsin decise di chiudere i rubinetti, cioè di interrompere assistenza diretta e finanziamenti a favore del governo afghano. Questo la dice lunga su quello che sta accadendo e che potrebbe accadere in futuro.

Non credo in sostanza che il governo afghano attuale sia spacciato. Molti afghani e molte afgane rifiutano i talebani e sono disposti a combattere per un paese libero. È su costoro che occorre puntare, senza abbandonarli. Quello che non dobbiamo fare è gettare la spugna. L’Occidente si è ritirato militarmente, ma deve continuare a far sentire il suo aiuto concreto.

Il Pentagono sta valutando le migliori opzioni da presentare al presidente per evitare che l’Afghanistan possa divenire, dopo il ritiro delle forze americane, una base di partenza per il lancio di azioni di terrorismo da parte di organizzazioni come al Qaeda e ISIS. Washington sta cercando di ottenere il consenso, da parte dei paesi vicini, per realizzare una base militare da cui lanciare operazioni di controterrorismo. L’efficacia della condotta di queste operazioni contro gruppi armati terroristici è stata dimostrata più volte, come in occasione della campagna di attacchi aerei contro al Qaeda condotta dagli Stati Uniti in Pakistan. E’ possibile condurre con efficacia operazioni di controterrorismo in Afghanistan, contenendo al Qaeda, senza la presenza di un corposo contingente schierato sul terreno?

Qui parliamo di due cose molto diverse. La NATO aveva messo in atto uno sforzo controinsurrezionale per garantire condizioni minime di sicurezza entro le quali costruire uno stato afghano democratico. Era uno sforzo mirato a consentire al governo di allargare progressivamente la propria sfera d’azione fino a coinvolgere tutti i cittadini afghani, un lavoro di counterinsurgency. Quello di cui parla lei, il controterrorismo, è un discorso molto diverso. Un discorso complesso, perché non riguarda in realtà la presenza di truppe sul terreno, assolutamente fondamentale per la counterinsurgency, ma la disponibilità di informazioni che consentano di colpire con azioni preventive le formazioni terroristiche. L’azione di controterrorismo è un’azione preventiva, non repressiva. Essa può essere condotta da remoto, ma necessita di assetti sul posto. Applicando una politica simile a quella delle cannoniere di inizio ‘900, si possono condurre operazioni dall’estero contro eventuali avversari, ma per farlo bisogna possedere in primo luogo assetti informativi per individuare e discriminare con certezza gli obiettivi. Parliamo, in questo caso, soprattutto di assetti humint, elint e imint. Quando si parla di terroristi, poi, il grosso delle informazioni proviene da fonti umane, che si raccolgono a livello locale. Per poter colpire con sicurezza, occorre quindi gente sul posto. Prendiamo il caso di bin Laden. Il leader di al Qaeda è stato eliminato solo quando gli americani sono riusciti ad ottenere la conferma fisica della sua presenza in Pakistan. Per poter adottare questa politica, tra l’altro, bisogna operare in un quadro di legittimità internazionale, che è ben difficile da ottenere quando si opera in casa d’altri.

Vorrei però sottolineare un altro aspetto. Siamo proprio sicuri che i talebani vogliano al Qaeda e ISIS in Afghanistan? I talebani combattono per due motivi: per il potere e per avere la sovranità sul paese. I talebani non sono interessati ad avere concorrenti sul posto. Già l’alleanza con al Qaeda era una cosa sfumata, molto nebbiosa. Il rapporto tra bin Laden e il mullah Omar, ad esempio, non era perfettamente trasparente ed amichevole. Dopo l’11 settembre gli USA hanno inizialmente negoziato con Omar, e per un certo periodo sembrava che il leader talebano volesse consegnare bin Laden. Io non credo quindi che ci sia una grande consonanza di obiettivi tra questi due attori. Soprattutto ora, i talebani hanno bisogno della pace sociale, di tranquillità, di dare sicurezza alla propria gente, di costruire e mantenere il consenso.

Mi faccia aggiungere una piccola parentesi che lei non ha citato. Esiste una soluzione molto intelligente che, sono certo, gli Americani percorreranno, o perlomeno tenteranno di farlo. Faccio riferimento alla cosiddetta “war by proxy”, cioè la guerra per procura. Ormai la tendenza è quella di evitare di impiegare le forze proprie, se non con funzioni di sostegno e supporto, e di impiegare invece milizie locali o contractors. Credo ad esempio che la comunità internazionale, oltre a sostenere il governo legittimo, abbia tutto da guadagnare dallo sfruttamento delle milizie locali. La Turchia, invece, già parla di contractors.

L’Italia ha partecipato alle operazioni della NATO in Afghanistan fin da subito. Abbiamo preso parte a Enduring Freedom, a ISAF e a Resolute Support. Abbiamo schierato fino a 5.000 uomini in Afghanistan e ne abbiamo persi 53, subendo centinaia di feriti. Non tutti gli alleati si sono impegnati in questa misura. I francesi, ad esempio, si sono ritirati nel 2013. Cosa ci ha spinto a contribuire in maniera così rilevante all’intervento americano?

Ricordiamo innanzitutto che l’intervento della NATO in Afghanistan non è propriamente un intervento americano, ma un’operazione sotto l’egida della comunità internazionale. Non è un Kosovo, né una Libia né tantomeno un Iraq. Dal punto di vista politico internazionale sono stati rispettati tutti i crismi dell’intervento.

Credo che la ragione della straordinaria partecipazione dell’Italia dal punto di vista politico vada individuata nel tentativo di ricerca di una contropartita della nazione in cambio di un ruolo ben preciso nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. In un momento in cui la NATO, ma soprattutto gli Stati Uniti, chiedevano tantissimo all’Italia in termini di burden sharing. Abbiamo sostanzialmente scambiato il nostro impegno in operazioni per quel ritorno politico che ritenevamo ci spettasse nonostante il nostro contributo economico alle fortune dell’Alleanza Atlantica non fosse quello che i nostri alleati desideravano. Questo discorso è stato fatto in più occasioni a livello politico. Più volte Trump ha ribadito che non si faceva abbastanza nell’Alleanza in termini economici, un discorso a cui noi italiani abbiamo spesso risposto che il contributo della nazione andava misurato anche in termini di condivisione degli scopi e partecipazione alle missioni e non solo di quattrini.

In vent’anni di conflitto armato, come si sono comportate le nostre forze armate in Afghanistan? Quanto siamo cambiati rispetto al giorno in cui ci siamo stati schierati per la prima volta nel paese?

Per le nostre forze armate, soprattutto la componente terrestre e aerea, questa è stata un’opportunità per confrontarsi sul campo con gli strumenti militari più moderni e più addestrati al mondo, come quello britannico e quello francese, oltre a quello americano. Tutto nell’ambito di un intervento che non è americano, ma della comunità internazionale.

Il nostro è stato un comportamento di grande professionalità. Non bisogna negare che, almeno all’inizio, le nostre forze si sono trovate in grande difficoltà, perché hanno dovuto affrontare condizioni di combattimento anche molto intenso, ancorché all’inizio dell’intervento la situazione non fosse così compromessa come quella degli anni 2008-2012.

I soldati italiani hanno combattuto e lo hanno fatto bene, come ogni soldato ben comandato, e in Afghanistan abbiamo schierato comandanti coi fiocchi. Ci siamo comportati bene soprattutto perché, in un contesto molto particolare, quello contro-insurrezionale, dove tutto si gioca sul favore della popolazione, i nostri sono riusciti a farsi apprezzare dagli afghani, allo stesso tempo portando avanti la narrazione del governo di Kabul.

Per le forze armate italiane l’esperienza afghana è stata straordinaria. Siamo entrati che sapevamo fare peacekeeping e ne siamo usciti con grande esperienza nella controinsorgenza. Quello che ha lasciato l’Afghanistan è un Esercito che io definirei “di serie A”, sia dal punto di vista dell’addestramento che da quello dell’equipaggiamento. Ci si è aperti un mondo che conoscevamo solo teoricamente. Il comparto delle forze speciali, poi, ha sfruttato appieno l’opportunità, guadagnando moltissimo in termini di capacità e prestigio.

Purtroppo, non è tutto oro quello che luccica, e c’è un altro aspetto da considerare, questo in realtà meno positivo. L’impegno afghano, con i rischi che ha implicato, ha promosso nel nostro strumento militare – come negli altri, del resto – una mentalità che io definirei “catafratta”, che conduce talvolta a prediligere la protezione delle forze a scapito dell’efficacia in operazioni. Questo avviene, paradossalmente, in un paese, il nostro, il quale ogni volta che si sono manifestate perdite ha reagito positivamente, stringendosi attorno alle sue forze armate.

Infine, un’ultima riflessione. L’attività militare del nostro strumento bellico in Afghanistan è stata di tipo controinsurrezionale. Questo ci ha senza dubbio insegnato molto, ma ci ha fatto mettere in secondo piano le operazioni convenzionali. Di questa dinamica si è resa conto anche la NATO, soprattutto nel momento in cui si è palesata l’assertività russa in Europa Orientale. L’Alleanza Atlantica ha ripreso le attività convenzionali e così ha fatto e sta facendo l’Italia, ma il processo di riadattamento sarà lungo.

L’impegno italiano in Afghanistan sembra dunque ufficialmente chiuso. In Iraq, tuttavia, sembra che Roma stia agendo in senso opposto. Qui gli italiani prenderanno il comando dell’operazione a guida NATO, un impegno importante, soprattutto perché, nei prossimi mesi, questa operazione verrà allargata a tutto l’Iraq e arriverà a comprendere più di 4.000 uomini. Ci spiega il motivo di questa scelta? I nostri aumentano la loro presenza in Iraq perché gli interessi da tutelare sono troppo importanti per Roma?

In effetti la politica che Roma sta perseguendo oggi in questo quadrante non è di immediata comprensione. La verità è che il discorso è molto complesso. Credo che l’impegno in Iraq sia frutto di una strategia che si fonda su due ragionamenti. In primo luogo, l’Iraq è la naturale prosecuzione dello sforzo in Afghanistan. Da un punto di vista militare, così come ci siamo impegnati in Afghanistan, dimostrando grandi capacità dal punto di vista addestrativo e della vicinanza alla popolazione, siamo convinti di poter fare lo stesso in Iraq. In parte in passato lo abbiamo già fatto e lo stiamo facendo, con l’addestramento in favore dei Curdi, a suo tempo con la NATO Training Mission Iraq e più di recente con il contributo alla Coalizione anti-ISIL.  Qualcosa adesso però è cambiato. Ora abbiamo un capitale da spendere, delle grandi capacità, oltre che delle posizioni utili nella NATO nel senso della credibilità maturata nei confronti degli alleati. Tutto ciò ci permette oggi di assumere la guida di una missione, ancora una volta contribuendo al burden sharing dell’Alleanza con il savoir faire dei nostri soldati.

L’Iraq è poi una scommessa. In questo teatro il vero discorso è quello della ricostruzione. Il paese, ricchissimo di risorse energetiche, prima o poi si dovrà ricostruire. L’Italia lo sa bene, come sa anche che avere una leadership della missione favorirebbe moltissimo il coinvolgimento di Roma nella ricostruzione delle infrastrutture, dei servizi ecc. Questo fa parte dell’efficace sinergia dell’iniziativa diplomatica, politica, economica e militare, che finalmente, forse per la prima volta, sembra si stia affermando in questo paese.

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