Con il rifiuto della Russia di aderire alla proposta saudita, formulata in sede Opec, di tagliare la produzione di petrolio nel tentativo di arrestare il crollo del prezzo del greggio, si apre un (nuovo) fronte di scontro tra Mosca e Riad, che potrebbe portare alla definitiva sepoltura dell’Opec Plus, l’alleanza tra il cartello dei principali paesi produttori di petrolio e la Russia, il maggiore esportatore di greggio non appartenente all’organizzazione.
Il mancato accordo tra Opec e Russia sui tagli alla produzione di petrolio ha innescato uno scontro tra Riad, Mosca e Washington che sta sfociando in un vero e proprio “tutti contro tutti”, con conseguenze immediate sul mercato dell’energia senza escludere però, nel lungo periodo, effetti sul piano strettamente geopolitico e non ristretto al solo mondo arabo. Ma come si è arrivati alla rottura di quella che si presentava come la nuova architettura di riferimento per la gestione del mercato petrolifero?
La nascita dell’Opec Plus
Nel novembre 2016 l’Opec decise di tagliare la produzione di petrolio di 1,2 milioni di barili al giorno, con l’obiettivo di risollevare le quotazioni che all’inizio dell’anno erano precipitate sotto i 30 dollari al barile a causa dell’eccesso di offerta sul mercato. Per la prima volta ai tagli si unirono anche altri paesi esterni al cartello, Russia in primis. Nasceva così l’Opec Plus, l’alleanza tra il cartello dei principali paesi produttori di petrolio e la Russia, il maggiore esportatore di greggio non appartenente all’organizzazione, che prevedeva un piano di tagli concordati della produzione allo scopo di mantenere i prezzi del petrolio sopra i 50-60 dollari al barile. Ma, soprattutto, con l’obiettivo, neanche troppo nascosto, di mettere in difficoltà l’industria dello shale oil americano, che stava trasformando gli Stati Uniti da importatore a paese esportatore di petrolio.
Russia e Arabia Saudita, una relazione controversa
L’alleanza tra Mosca e Riad si è quindi basata, sin dall’inizio, su una reciproca convenienza. Troppo diversi, se non opposti, gli interessi geopolitici dei due paesi. Da un lato, infatti, l’Arabia Saudita è il tradizionale alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo mentre, dall’altro lato, la Russia in Siria combatte a fianco del peggior nemico di Riad, l’Iran sciita, contro il quale il regno saudita combatte da anni una guerra a distanza in Yemen. Ma a fare la differenza, soprattutto in questo frangente, è la diversa tenuta del sistema paese a fronte di una eventuale crisi economico-petrolifera. Russia e Arabia Saudita appartengono entrambe a quella categoria di nazioni la cui capacità di tenuta del budget statale dipende dagli introiti petroliferi. Anni di sanzioni internazionali e conseguenti politiche di autarchia hanno consentito a Mosca di abbassare in maniera significativa il proprio break-even point, che si aggira oggi intorno ai 42 dollari al barile. Diverso il caso dell’Arabia Saudita, che, anche se meno dipendente di un tempo dai ricavi petroliferi, necessita di un prezzo del greggio intorno agli 80 dollari.
Il recente scontro tra Mosca e Riad
Nel mezzo della crisi globale causata dal coronavirus, che ha portato l’Agenzia internazionale per l’energia a rivedere al ribasso le stime sulla domanda di greggio nel mondo (previsione negativa per il 2020), e a fronte del continuo crollo del prezzo del petrolio, il regno saudita ha proposto un taglio di 1-1,5 milioni di barili al giorno: una riduzione della produzione mondiale di circa il 3,6%, di cui 500.000 barili in capo ai paesi non OPEC. Di fronte al rifiuto di Mosca di aderire alla proposta saudita, Riad ha deciso di aprire i rubinetti del greggio, inondando il mercato di offerta, e vendendo con sconti di listino soprattutto ai partner commerciali europei. Immediata, a quel punto, la risposta di Mosca, che ha annunciato di essere pronta a bruciare tutte le riserve valutarie del fondo sovrano pur di non cedere terreno agli avversari e di essere in grado di resistere fino a dieci anni con il petrolio a 25-30 dollari. E’ così che ha avuto inizio una vera e proprio guerra dei prezzi, che ha causato il maggior crollo del prezzo del petrolio (arrivato a poco meno di 30 dollari al barile) dai tempi della Guerra del Golfo del 1991.
Le ragioni di Putin
Due sono essenzialmente le ragioni che hanno spinto la Russia a rompere la relazione con l’Opec. Innanzitutto, Putin non ha gradito l’atteggiamento di Riad che ha cercato di mettere Mosca davanti al fatto compiuto: una sorta di “prendere o lasciare”, con il chiaro intento di costringere di fatto Mosca, trattata alla stregua di un partner di “serie b”, a ulteriori tagli di produzione. Ma, soprattutto, alla base della decisione del presidente russo vi è il desiderio di colpire gli interessi dei produttori shale americani, soffocati da un alto livello di indebitamento accumulato negli anni precedenti. E non va dimenticato che per gli Usa questo è un anno elettorale. Mosca potrebbe infatti avere accarezzato con il suo rifiuto il proposito di indebolire il presidente Donald Trump, uno dei principali sostenitori delle sanzioni contro la compagnia petrolifera nazionale russa Rosneft (per gli affari con il Venezuela) e forte oppositore del gasdotto Nord Stream 2. Una scommessa, quella di Mosca, dovuta alla propria capacità di poter sopportare un prezzo del petrolio relativamente basso in un contesto, tra l’altro, dove l’interscambiabilità tra petrolio e gas è molto limitata, sebbene storicamente il prezzo del gas sia stato spesso indicizzato a quello del petrolio, specialmente proprio dai russi.
La reazione degli USA
Dinanzi all’offensiva russa, il presidente Donald Trump ha cercato di minimizzare l’accaduto, rimandando il tutto ad una semplice diatriba tra Mosca e Riad. In realtà, Trump è fortemente combattuto tra il difendere uno dei più importanti settori dell’industria nazionale e guadagnare il consenso degli elettori per i prezzi ribassati della benzina. Formalmente, dalle dichiarazioni rilasciate di recente, sembra aver scelto la seconda ipotesi, forte anche delle affermazioni del capo dell’Agenzia internazionale dell’energia, Fatih Birol, per il quale i produttori shale americani, divenuti negli anni sempre più efficienti, potrebbero resistere fino a un livello di 25 dollari al barile prima di andare in crisi finanziaria. Ma nulla esclude che possa cambiare idea. Perché il crollo della produzione di greggio estratto dalle rocce viene visto come uno dei tre elementi che potrebbero scatenare una recessione economica negli Stati Uniti. E a novembre Trump correrà per un secondo mandato, con ben scolpite nella mente le famose parole dell’allora candidato Bill Clinton: “It’s the economy, stupid”.
Vincitori e vinti
L’intento saudita è chiaro: costringere i russi a tornare sui propri passi e a raggiungere così un accordo. Ed in effetti, proprio nei giorni scorsi, Mosca ha proposto di fissare un nuovo incontro dell’Opec Plus nel mese di maggio o di giugno. Ma cosa potrebbe succedere nel frattempo in assenza di una tregua? L’attuale prezzo del greggio risulta essere al di sotto del break-even point di chiunque: ad esserne quindi maggiormente colpiti, oltre ai produttori americani, sarebbero soprattutto i paesi caratterizzati da un bilancio statale dipendente dalle entrate petrolifere come tutti i paesi Opec e i principali produttori al di fuori del cartello, soprattutto la stessa Russia, l’Azerbaigian e il Kazakhstan. Chi potrebbe invece trarre giovamento dai prezzi favorevoli sono i paesi asiatici, per lo più importatori netti di petrolio, come Cina, Giappone e Corea del Sud. Ma ad esserne soprattutto intaccata sarebbe la stabilità e, soprattutto, la credibilità dell’Opec, già orfana da oltre un anno del Qatar, e che in quel novembre 2016, ricorrendo al supporto di Mosca, ha già dovuto ammettere la propria incapacità di stabilizzare, da sola, il mercato del petrolio.