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NotizieLa guerra congelata del Nagorno Karabakh

La guerra congelata del Nagorno Karabakh

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Il Nagorno Karabakh è una regione del Caucaso meridionale protagonista della guerra più lunga della storia dell’ex Unione Sovietica e non ancora conclusa. Il conflitto è caratterizzato anche dalla presenza di attori esterni come la Russia e l’Unione europea, entrambi criticati per il loro approccio: da una parte Mosca appoggia entrambi i fronti attraverso la fornitura di armi, dall’altra Bruxelles ha intrapreso una politica neutrale. Tuttavia, i contatti diplomatici degli ultimi anni fanno pensare che si sia aperto uno spiraglio per il dialogo.

Riepilogo degli eventi 

Durante il periodo sovietico il Nagorno Karabakh era una provincia autonoma della Repubblica Socialista dell’Azerbaigian. Tuttavia, il 76% degli abitanti si considerava etnicamente armeno. Nel 1988 sulla scia di movimenti indipendentisti che attraversavano lo Stato sovietico, il Nagorno Karabakh dichiarò la sua indipendenza e perseguì l’unificazione con l’Armenia. Baku e il governo centrale di Mosca rifiutarono l’istanza: ci fu un’escalation di tensioni tra armeni e azeri che richiese l’intervento dell’esercito sovietico.

Con la caduta dell’URSS e la nascita della repubblica azera, il Nagorno Karabakh proclamò la sua separazione attraverso un referendum nel 1991 istituendo la “Repubblica del Nagorno Karabakh” (NKR). Baku lo considerò illegale, mentre Yerevan dichiarò il suo supporto ai separatisti. Nel 1992 il conflitto si intensificò diventando una vera e propria guerra civile, che, con la caduta dell’URSS, mutò in una guerra tra Stati. Visto il perpetrarsi delle violenze, il gruppo di Minsk dell’OSCE (Russia, Stati Uniti e Francia) trattò il cessate il fuoco con la firma del protocollo di Biškek nel 1994. 

Yerevan però non controllava solo la regione del Nagorno Karabakh, ma anche i territori circostanti formando così una “zona cuscinetto” che comprendeva tra il 10 e il 20% del territorio azero. Questo fu uno dei motivi per cui, nonostante il cessate il fuoco, nell’aprile 2016 scoppiò la “guerra dei quattro giorni” in cui l’Azerbaigian riguadagnò il controllo su alcune parti del territorio violando gli accordi del 1994. In quasi trent’anni di guerra si contano circa 25 mila vittime e più di un milione di sfollati, di cui 400 mila armeni e circa 700 mila azeri.

Nel 2018 la rivoluzione di velluto in Armenia ha portato all’elezione del primo ministro Nikol Pashinyan, primo leader non originario del Karabakh.  Il cambio di vertice corrisponde anche ad un cambiamento nell’approccio verso la risoluzione del conflitto. Tuttavia, la complessità della situazione è aggravata dalla contrapposizione di due principi della legge internazionale: l’integrità territoriale e il diritto all’autodeterminazione dei popoli. A causa di questo, il conflitto è congelato e si protrae da tre decenni

I principali attori esterni

Il conflitto del Nagorno Karabakh vede anche la partecipazione di attori esterni, in particolare la Federazione russa e l’Unione europea; tuttavia il loro coinvolgimento ha suscitato numerose critiche. 

Il congelamento del conflitto è negli interessi russi perché, da una parte, Mosca riesce a limitare le influenze turche e iraniane inviando truppe nelle basi armene, dall’altra, si assicura il mantenimento della stabilità delle zone russe particolarmente problematiche come il nord del Caucaso, supportando entrambi i fronti sia quello armeno che quello azero. Il principale obiettivo per il Cremlino è ridurre il numero degli incidenti militari sulla linea di confine. In questo modo si scongiura l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) che prevede la difesa di un paese membro (l’Armenia) in caso di attacco. 

L’Unione europea al contrario ha sempre perseguito una politica neutrale, talvolta contraddittoria, verso l’Armenia e l’Azerbaigian. La politica europea di vicinato (PEV) riguarda la prevenzione dei conflitti e la ricostruzione post-bellica piuttosto che una partecipazione attiva nella risoluzione. 

Un elemento fondamentale nelle negoziazioni sono i Principî di Madrid stipulati nel settembre 2009 tra Armenia e Azerbaigian, senza il NK, escluso poiché privo di rappresentanza. Questi principi si trovano anche nel “6D plan”promosso da Baku: De-occupation, De-Militarization, De-mining, Deployment, Dialogue and Development.

Recenti meeting

Il 12 maggio è stato l’anniversario dell’accordo del cessate il fuoco che nel 1994 ha aperto al dialogo tra Armenia, Azerbaigian e NK. Questo è stato il principale risultato tangibile del processo di risoluzione del conflitto, anche attraverso il coinvolgimento attivo della rappresentanza del NK. Successivamente, la guerra dei quattro giorni del 2016 ha reso la soluzione militare più probabile, eppure negli ultimi anni si è aperta una nuova possibilità di dialogo. Infatti, il 29 marzo 2019 a Vienna, c’è stato il primo vertice ufficiale tra il premier armeno Pashinyan e quello azero Aliyev, che si sono impegnati a ridurre le ostilità lungo la linea di confine.

I due presidenti si sono poi incontrati nuovamente durante la Conferenza sulla Sicurezza lo scorso 15 febbraio a Monaco, dove sono stati in disaccordo sulla presenza dei rappresentanti del Nagorno Karabakh al tavolo delle trattative. Yerevan sostiene Arayik Harutyunyan, eletto presidente del NK il 14 aprile 2020, ritenendolo necessario per raggiungere una soluzione duratura. Baku invece condanna le recenti elezioni, dichiara il NK un’entità illegale, inoltre per l’Azerbaijan è prioritario il ritiro delle truppe armene dal proprio territorio.  

In conclusione, per uscire dalla attuale situazione di stallo è necessario operare in due direzioni: sul piano militare il primo obiettivo è ridurre le violazioni del cessate il fuoco; dal punto di vista politico-diplomatico, invece, è indispensabile costruire la fiducia tra i popoli. Infatti, negli anni la retorica di guerra ha comportato una manipolazione storica da entrambe le parti; senza avere occasione di dialogo e confronto tra le varianti storiche, ne è conseguito un allontanamento culturale e quindi lo stallo del processo di pace. Perciò è fondamentale continuare a promuovere incontri costanti per instaurare un dialogo con tutte le parti coinvolte così da costruire la pace su basi solide senza lasciare questioni irrisolte.

Chiara Minora,
Geopolitica.info

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