Credere che il mondo non sia in guerra è un’illusione: la convenzionalità degli scontri nasconde il lato non meno letale dell’attrito ibrido; le mutevoli e complesse strategie puntano a ridefinire l’equilibrio, rimasto in stallo dal 2 dopoguerra con l’arrivo della MAD [1], scomparso dopo il 1989. Oggi la supremazia tecnologica non potendo assicurare facili conquiste, vede invece un’infinità di soggetti privati che perseguono interessi spesso non coincidenti con quelli statuali.
La politica monetaria degli ultimi 10 anni ha avuto esiti incerti, con USA e Cina parti attive di un conflitto che, per il Dragone, ha contemplato l’incremento dell’interscambio con l’Ucraina. In Russia, negli ultimi anni si è assistito all’adozione di una politica fiscale restrittiva [2], con una politica monetaria dello stesso segno, volte a contenere l’inflazione, in un contesto economico quasi immobile che ha determinato il fallimento di piccole e medie imprese. L’attività cinetica che si è aggiunta nelle ultime settimane, è anche il frutto della miopia occidentale che non ha consentito la comprensione di quel che stava avvenendo dietro i resti della Cortina di Ferro, con la NATO che ha continuato a vedere nella Russia una naturale antagonista, pur annoverando i conflitti in ex Jugoslavia, Iraq, Libia e l’esportazione forzata del modello democratico occidentale. Rimane forte il convincimento che Kissinger, Brzezinski e Kennan avrebbero analizzato preventivamente e a lungo l’iperestensione della NATO e le rivoluzioni colorate in Georgia o in Ucraina.
Imparare ad imparare
Non c’è dubbio che l’Occidente dovrà nuovamente imparare ad imparare, ricordando la nonchalanche con cui venivano derubricati i timori baltici per una violenta revanche russa, puntualmente materializzatasi in Transnistria, Ossezia, Abkhazia, Georgia, Crimea, Donbass. E Ucraina; senso di rivalsa e timore di un accerchiamento da ovest hanno completato un quadro già critico dal 1997, caratterizzato dalle richieste moscovite di preservazione di uno spazio securitario. Divisioni politico-economiche e carenze difensive ora puniscono con severa equità il vecchio continente, primo teatro degli scontri con l’Orso russo, che rimane sempre e comunque attore ingiustificabile. Se da un lato l’Ucraina è terreno di conquista difficilmente gestibile in termini di perdite e di risorse da impiegare, un conflitto portato solo al Donbas ed alle coste del Mar d’Azov e del Mar Nero, non avrebbe fatto che rimandare l’ennesima proiezione russa, parzialmente sostenuta dalla Cina che, impegnata in un matrimonio di comodo, al momento si è ben guardata dall’aprire un secondo fronte nell’Indo Pacifico. Torniamo sull’aspetto ibrido, quello economico. La Russia è debole, le autorità locali governano con difficoltà; finora il vertice si è avvalso di una verticale di potere che ha supplito manualmente al collasso statuale, aggravato dal prolungato venir meno dell’eredità sovietica delle risorse tecnico scientifiche; è mancata la diversificazione economica dell’unico settore strategico, l’energetico [3], bisognosa di un volume di investimenti difficile da quantificare, penalizzata dal fatto che i profitti hanno dovuto essere reinvestititi altrove, lasciando introiti sufficienti per non compromettere il mantenimento della produzione; è dunque mancato un cambiamento politico-economico capace di compendiare le necessità congiunturali globali con le esigenze di diversificazione di lungo periodo.
Poteri cristallizzati, verticalizzazioni, diversificazioni mancate
Successivamente al crollo sovietico, quella russa si è trasformata in un’economia in cui il settore principale è divenuto quello dei servizi, con un ridimensionamento del settore industriale. La modernizzazione russa, dipendendo dalla crescita del settore energetico, è rimasta debole, viste le difficoltà incontrate da una politica industriale che avrebbe dovuto creare strutture produttive in grado di realizzare diversificazioni circa l’export, di volta in volta relative alle differenti contingenze; la necessità di adeguamento produttivo è stata poi evidenziata dalla crescita tecnologica di Cina e India, una crescita bisognosa di sinergie tra stato e privati. La modernizzazione ha toccato gli aspetti economico, politico, istituzionale secondo dinamiche non più sostenibili dal modello oligarchico – e poco weberiano – esistente, e che non possono più supportare la logica della verticale di potere. Sotto il segno dell’economia l’invasione ucraina esalta dunque l’arrivo dell’era della guerra economica, capace di spezzare l’economia globale. L’interruzione delle forniture di energia e materie prime dalla Russia, oltre ad impoverire il fondo sovrano russo, sta determinando lo shock dei prezzi, e sta costringendo l’Europa a trovare alternative alla dipendenza energetica. Se le sanzioni non hanno fermato le truppe, hanno però bloccato le operazioni delle principali banche russe, spingendo verso il precipizio l’economia. La capitolazione di un sistema nazionale in questi termini non ha precedenti [4] e si ritiene possa aver contribuito ad un ripensamento cinese circa una possibile impresa a Taiwan. Basti pensare che le sanzioni americane già ora colpiscono persone o imprese in oltre 50 paesi per una quota del PIL globale che sfiora il 27%. Ipotizzando un perdurare dell’instabilità fino al 2023, si può presumere un calo del 7% del PIL russo [5] e del 3,2% della zona euro. La dedollarizzazione applicata dal 2014, inoltre, se crea uno scudo verso Washington, apre però una vulnerabilità verso l’UE.
Geopolitica, Geoeconomia, potenza disgregante delle sanzioni
Se è vero che il gruppo dirigente russo valuta l’Occidente come geopoliticamente debole ma economicamente aggressivo, potrebbe considerare l’Ucraina come un’opportunità per tracciare un limes invalicabile. Se il percorso russo è distruttivo, sarebbe opportuno massimizzarne i costi mantenendo le sanzioni quale deterrente credibile. Ad una prima analisi, entro questa accezione rientrano sia le decisioni assunte dalla Germania circa la sospensione dell’approvazione per il gasdotto Nord Stream 2, sia le determinazioni americane riguardanti le ulteriori sanzioni comminate a 4 delle principali banche statali russe. Sebbene Mosca sia più preparata del 2014 a gestire le sanzioni, la situazione sociale, con reddito calante e inflazione in aumento, ne sarebbe aggravata, malgrado i tentativi di spingere la ripresa con misure che ricordano il trend di Ankara, ovvero tassi agevolati per mutui e altre misure sociali introdotte dal governo. Se la rimozione dal sistema SWIFT [6] non farà collassare l’economia russa, rimane comunque una volatilità che condiziona una geostrategia già intaccata da anni di tensioni e crisi che, ora, hanno portato al deprezzamento del rublo fino al 20%, con la repentina polverizzazione di un quinto del potere d’acquisto della divisa sui mercati internazionali, e con la CBR che ha tentato di alzare lo scudo dei tassi di interesse dal 10,5 al 20% riducendo la liquidità. Ma quel che è peggio, rimane il congelamento degli asset valutari all’estero, più di 630 miliardi, di cui il 16% è in dollari [7], di riserve fondamentali per la difesa delle importazioni; a questo si accompagna il tentativo di evitare fughe di capitali all’estero e l’acquisto di oro, il valore delle cui scorte ha superato quello degli asset in dollari.
Default e realtà interconnesse, malgrado tutto
La crisi del 2008 ha evidenziato l’impossibilità russa di non dipendere più dai mercati mondiali; quella ucraina del 2014 ha indotto all’adozione di una politica avente l’obiettivo di aumentare la sovranità economica; gli ultimi avvenimenti dimostrano che il tentativo di creare un bastione custodito dalla Banca Centrale, capace di isolare il sistema dagli andamenti esogeni, non ha avuto successo. La mancata crescita annua del PIL di almeno il 3%, il reddito pro capite non rivalutato da anni e la carenza di risparmi da parte delle famiglie russe, confermano il difficile trend. All’ombra di un incombente default [8] e con l’imminente tempesta perfetta della stagflazione [9], si somma il costo quotidiano della guerra ucraina; insomma la combinazione ideale per arrivare ad impattare recessivamente sull’economia reale. Con l’inflazione al 9% ante guerra, una moneta arrivata a perdere il suo potere di acquisto del 30% in pochi giorni, lo stop americano alle esportazioni di greggio, sembra essere arrivata la forca caudina per l’accesso a beni di consumo ed investimenti. Come uscirne? Intanto scaricando la colpa su chi ha comminato le sanzioni, che peraltro ne subisce parzialmente l’impatto, alimentando la sindrome russa da accerchiamento anche su questo fronte. Per quanto riguarda la BCE, con l’Europa alle prese con l’aumento dei prezzi energetici, lo scenario bellico riduce la possibilità di uno stop del QE con un aumento della liquidità del mercato ed un incremento dell’inflazione. Primi risultati? Gli investitori per ripararsi acquistano gli asset sicuri, ovvero titoli americani, tedeschi, dollari e oro. Tutto solare? Non tanto; tra l’annuncio dell’esclusione dallo SWIFT e l’entrata in vigore sono decorsi 10 giorni, mentre Shell ha acquistato stock di greggio pur in attesa del blocco delle importazioni. State pensando di ricorrere alle criptovalute? Aspettate: tutte le piattaforme di scambio con sede negli USA rispetteranno le sanzioni, inoltre le criptovalute hanno una tracciabilità tale che rende agevole punirne l’uso illecito.
Comunità poco coese e miopie energetiche
Insomma, l’argent fait la guerre, con il rischio di crollo non solo russo ma anche di un’Europa provata da discutibili politiche energetiche e mai come ora sotto la lente cinese. Malgrado i fondamentali macroeconomici non così negativi ad inizio conflitto, la Russia ha visto il suo rating sovrano abbassarsi repentinamente con una contestuale crescita dello spread rispetto ai titoli tedeschi. Un’eccezione al coro dei partner sanzionatori statunitensi è arrivata da Israele, attento nel criticare Mosca, arbitra del coordinamento difensivo in Siria; in ogni caso la multilateralità delle sanzioni sembra aver dissuaso la CBR dal sostituire le attività in dollari con attività in euro [10]. Da parte americana l’impasse ucraina offre la possibilità di allineare gli interessi securitari superando le divisioni politiche interne riaffermando la necessità di catene di approvvigionamento sicure.
Welcome to the economic warfare
Se a Mosca, da un punto di vista economico, si imputa una visione limitata che ha impedito il corretto apprezzamento di una diversificazione insufficiente, a carico dell’Europa non si può non prendere atto di iniziative politico economiche come quella tedesca del Nord Stream 2, che nella sua gestione ha finito di frammentare la già incerta coesione politica comunitaria, ed una colpevolmente assente visione d’insieme che ha abbandonato a sé stesso il management energetico continentale che, solo ora, contempla l’impellente necessità di intervenire. Mentre i prezzi di gas e petrolio raddoppiano, riprende quota l’ipotesi nucleare, allo studio tassonomico verde della Commissione Europea, specialmente in assenza di valide e celeri alternative che assicurino rifornimenti energetici di portata tale da garantire normali condizioni di vita e produttività industriale. Secondo alcuni analisti l’Europa è arrivata al collo di bottiglia determinato da decenni di errori strategici, come sottolineato anche da Bloomberg, dove avevano evidentemente ben presenti le proiezioni del costo del greggio per barile cui non è estraneo il mancato aumento di produzione da parte di Sauditi ed Emiratini, che certo non si priveranno della possibilità di maggiori introiti in arrivo anche dalle casse del Dragone, che dovrà altrimenti affidarsi alla benevola produzione russa a minor prezzo. L’invasione ucraina è la punta di un iceberg, un tavolo verde dove i player hanno puntato su diplomazia, scontro convenzionale, resilienza, deterrenza, e l’asimmetria della guerra economica. L’economia ha determinato lo spostamento dell’equilibrio della politica di potenza da un ambito geopolitico ad uno geoeconomico; non a caso Luttwak ha stabilito che la pace poteva considerarsi la continuazione della guerra dove scemava la valenza militare e si passava a dinamiche economico-finanziarie. Se è praticamente impossibile determinare quando il conflitto terminerà davvero, quel che è certo è che bisognerà attendersi un accordo di certo sollecitato dall’impatto delle sanzioni.
Note:
[1] Mutual Assured Destruction
[2] La politica macroeconomica russa sembra ispirarsi al Washington Consensus, che già negli anni 80 richiedeva agli stati in difficoltà, politiche monetarie e fiscali restrittive, con la diminuzione del ruolo dello stato e l’implementazione del mercato.
[3] Il predominio dell’industria degli idrocarburi impedisce lo sviluppo di settori più sostenibili, ingenerando il male olandese.
[4] Valutazione di Fitch.
[5] Moody’s stima una contrazione del PIL russo dell’8% quest’anno, malgrado regni una sensibile incertezza. IN ogni caso questo non avrà un impatto globale rilevante poiché l’economia russa rappresenta meno del 2% del PIL globale.
[6] La Russia ha sviluppato un’alternativa chiamata Sistema per il trasferimento di messaggi finanziari (SPFS); tuttavia la rete è operativa solo durante l’orario lavorativo e presenta limiti di capacità. La Russia aveva pianificato di integrare l’SPFS con il sistema cinese di pagamenti interbancari transfrontalieri.
[7] Al 2020 gli asset risultavano ancora USA, in UK, in Francia e Germania.
[8] Dopo i declassamenti operati da Moody’s e Fitch, anche S&P ha tagliato il rating.
[9] Concomitanza di recessione ed inflazione.
[10] Alcuni dei suoi partner commerciali (Cina, India, Brasile) cercheranno di regolare il commercio in valute locali senza toccare il dollaro o l’euro.