Ogni grande potenza ha bisogno di un mito fondativo, di un evento che rappresenti la propria identità e il proprio passato e che possa fungere da base per il proprio futuro. Se alcune potenze hanno potuto attingere ad un passato grande e glorioso ed altre ad uno più recente ma ugualmente significativo, per la Russia post-sovietica il processo di costruzione della propria identità è passato attraverso il confronto con la propria storia, un confronto a volte inglorioso che non può che portare a camminare in avanti senza guardare indietro.
All’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, la crisi affrontata dalla Russia negli anni Novanta non fu unicamente una socioeconomica ma anche e soprattutto identitaria. La Russia rinasceva, nel 1991, con confini che non gli appartenevano dal XVIII secolo, priva di una unificante narrazione imperiale o nazionale in un contesto in cui le spinte centrifughe provenienti dalle minoranze non russe alimentarono il pericolo, percepito come reale, di un prossimo disfacimento della Federazione alla metà degli anni Novanta. Con l’avvento di Vladimir Putin, la costruzione della verticale del potere e il mito dell’edificazione di uno “stato autorevole” che potesse non solo mantenere l’ordine interno ma ambire a ricoprire un ruolo centrale nel sistema internazionale, si è nutrito di un nazionalismo volto alla ricostruzione dell’immagine della Russia come grande potenza.
Essere una grande potenza: la costruzione dell’identità russa nella Russia post-sovietica
Nella ricostruzione dell’immagine della Russia come grande potenza, la Grande Guerra Patriottica, ovvero i termini con i quali la Seconda Guerra Mondiale è ricordata nella storiografia russa, è chiaramente il momento fondamentale, in quanto simbolo della consacrazione della Unione Sovietica/Russia allo status di super potenza alla metà del Novecento. Di conseguenza, in una Russia che, secondo Vladimir Putin, rischiava di scivolare ad uno status di “potenza di terzo o quarto rango”, l’immagine di forza proveniente dalla vittoria nel 1945 e lo status acquisito con la Seconda Guerra Mondiale non potevano che richiamare un’immagine forte e, appunto, autorevole dello stato russo, funzionale a risollevare la Russia in un momento di grave difficoltà come gli anni Novanta, che videro un sistematico susseguirsi di crisi economiche e politiche lungo tutto il decennio.
Inoltre, nel tentativo di ricomporre l’unità della nazione, la drammatica esperienza della Seconda Guerra Mondiale è l’unica vera esperienza collettiva riabilitabile della storia sovietica, attraverso la quale ricreare non solo un mito di grande potenza ma anche di unità nazionale, essendo stata una guerra che ha visto direttamente coinvolto tutto il popolo russo nell’affrontare il nemico. Le celebrazioni del 9 maggio sono quindi divenute il palcoscenico delle grandi sfilate militari, durante le quali troviamo perfettamente integrati i nuovi simboli della potenza militare russa e i vecchi stendardi sovietici, come manifestazione di un’unità che non è solo nazionale ma anche temporale. Nella narrazione del Cremlino, coloro che sono morti e hanno combattuto nella Grande Guerra Patriottica sono i fondatori della Russia moderna e il loro sacrificio sopravvive nel rispetto della tradizione e dei valori russi quali il patriottismo, la solidarietà, la centralità dello stato e l’ambizione ad essere una grande potenza, più volte ribaditi dal Presidente russo. Tale legame temporale è rappresentato dalla “sfilata del reggimento immortale” ovvero dalla manifestazione, introdotta nel 2013 e diffusa in molte grandi città della Russia, durante la quale i partecipanti portano in strada le foto dei cari che hanno combattuto o sono morti durante la guerra, mostrando plasticamente l’unità tra il passato e il presente.
Da ultimo, insieme alle altre festività che celebrano l’indipedenza russa dalla dominazione/ingerenza straniera, quale il 4 novembre che commemora la cacciata dei polacchi da Mosca nel 1612, il 9 maggio celebra l’affermazione della Russia come grande potenza alla pari dei grandi stati europei, che avevano invece considerato l’Impero degli zar un regime asiatico piuttosto che una delle civili nazioni occidentali, ostracizzando, dopo il 1917, l’Unione Sovietica dalla politica europea. Tale elemento è riscontrabile nell’assoluta importanza attribuita a tali celebrazioni non solo dal punto di vista interno ma anche, e soprattutto, dal punto di vista internazionale. Vladimir Putin ha sempre richiesto la partecipazione dei grandi leader occidentali, quasi a voler chiedere il riconoscimento dello status di potenza da parte dell’Occidente, come avvenne nel 2005, quando alla parata per i 60 anni dalla vittoria parteciparono 80 Capi di Stato e di Governo, tra i quali George Bush, Gerard Schröder e Jacques Chirac. Analogamente, ma di diverso segno, la mancata partecipazione dei leader occidentali alle celebrazioni del 2015 divennero il termometro dello stato di salute delle relazioni tra Russia e Occidente, relazioni gravemente compromesse dall’intervento russo in Ucraina e dal conseguente varo di sanzioni e contro-sanzioni da entrambe le parti.
La Grande Guerra Patriottica nell’era sovietica: simboli e contraddizioni
Come è ovvio, celebrazioni tanto imponenti non sono mai state prive di simboli e simbolismi. In epoca sovietica, la vittoria divenne lo strumento prediletto di legittimazione del potere di Iosif Stalin, che personalizzò la vittoria, appropriandosene. Tale elemento non poté che trovare migliore rappresentazione che nella prima sfilata per la vittoria, quando, sotto una pioggia incessante, i reparti sovietici sfilarono in Piazza Rossa depositando le effigi naziste ai piedi del mausoleo di Lenin, al di sopra del quale si ergeva Stalin, mentre il maresciallo Zukov, una delle figure più importanti per la vittoria militare della guerra, sedeva a cavallo sotto la pioggia guidando la sfilata. Malgrado l’importanza del 9 maggio, questa non fu a lungo festa nazionale, già nel 1948 fu abolita come pure le parate militari, vedendo la piena riabilitazione solo nel 1965 sotto la dirigenza di Leonid Breznev. A partire dalla metà degli anni ’50 in piena destalinizzazione, la dirigenza di Krushov sostenne la necessità di “destalinizzare la vittoria”, che subì invece un vero e proprio processo di nazionalizzazione, attraverso il quale il popolo russo fu elevato a baluardo del socialismo e primo tra le nazioni dell’Unione Sovietica. Come si ricordava in precedenza, furono gli anni di Breznev ad introdurre le grandi parate militari del 9 maggio, ma la stagnazione degli anni ’70 ridusse il tutto a mera forma, priva di ogni valore oltre la mera dimostrazione di forza.
Con la perestroika e lo sviluppo dei movimenti nazionalisti in tutta l’Unione, il 9 maggio divenne la rappresentazione delle infinite contraddizioni dell’esperienza sovietica. Con sempre maggior forza, le formazioni nazionaliste delle repubbliche baltiche costruirono la propria versione della storia, che vedeva i russi/sovietici essere gli invasori e non i liberatori, come aveva voluto la narrazione costruita in Unione Sovietica. Allo stesso modo, le organizzazioni ucraine recuperarono la memoria di quanti avevano combattuto con i tedeschi contro il potere di Stalin e, ancora prima, di quanti si erano opposti al potere sovietico durante la guerra civile dei primi anni Venti. L’URSS non sopravvisse a quelle contraddizioni, così come il 9 maggio resta ancora oggi per eccellenza una festa russa, seppur commemorazioni in forma ridotta avvengano ancora in alcune delle ex repubbliche sovietiche.
I fantasmi del passato
La centralità attribuita dal Cremlino alla Grande Guerra Patriottica non ha potuto che riportare alla luce i fantasmi del passato, in particolar modo, il progressivo irrigidimento del regime a partire dal 2012, in un contesto di sempre più grande attenzione al nazionalismo e al patriottismo, ha dato adito a facili sovrapposizioni tra Iosif Stalin e l’attuale Presidente russo. Seppur non possa affermarsi che a livello ufficiale ci sia stata una progressiva riabilitazione della figura di Stalin, poiché grande è stato invece lo sforzo di reintegrare nel pantheon degli eroi nazionali la famiglia Romanov o i generali bianchi, nell’opinione pubblica la percezione del dittatore georgiano è andata modificandosi nel corso del tempo. In alcune rilevazioni condotte nel marzo dello scorso anno, il 51% degli intervistati hanno espresso rispetto, ammirazione o affetto verso Stalin, a fronte di un 26 % che si è dichiarato indifferente e un 13% che esprime invece sentimenti di totale avversione. Il dato più interessante viene sicuramente dal confronto con le prime rilevazioni disponibili, ovvero quelle del 2001, che mostrano invece un quadro piuttosto diverso: a fronte di un 38% degli intervistati che esprimeva rispetto, ammirazione o affetto, il 43% si dichiarava avverso alla sua figura e solo il 12% indifferente. Di conseguenza, possiamo notare come, seppur non alimentato ufficialmente dalla propaganda, è innegabile che negli ultimi anni si sia assistito ad una progressiva evoluzione della percezione comune di Iosif Stalin. Tale elemento si accompagna all’irrigidimento non solo del regime interno ma anche al raffreddamento delle relazioni con l’Occidente a seguito della crisi in ucraina del 2014, due elementi che hanno portato ad una più forte attenzione ai temi del nazionalismo e del patriottismo.
La Grande Guerra Patriottica se da un lato ha fatto da collante per il sentimento nazionale della nuova Russia, dall’altro ha obbligato il Cremlino a fare i conti con il proprio passato e a toccare con cura le corde della storia. Quest’oggi i carrarmati non hanno sfilato in Piazza Rossa, così come le grandi città russe non hanno visto il reggimento immortale: il Coronavirus ha infatti obbligato Vladimir Putin ad abbandonare la festa più sacra del suo calendario laico. Ciononostante, il nove maggio resta la data del trionfo e delle contraddizioni, un piccolo prisma attraverso il quale leggere la Russia contemporanea.
Lorenzo Riggi
Geopolitica.info