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NotizieLa geopolitica delle religioni, la sacralizzazione dello spazio

La geopolitica delle religioni, la sacralizzazione dello spazio

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La fine della Guerra Fredda, ovvero il termine della logica bipolare fondata sulla rigida dicotomia socioeconomica tra le due superpotenze, ha riportato alla luce un discorso centrato sulle identità religiose, ritenuto per gran parte del Novecento obsoleto e ormai superato. La coda del XX secolo ha dimostrato come tale prospettiva è risultata infondata e miope. Il sentimento religioso riemerge, nel nuovo millennio, grazie alla crisi della modernità. Il terminus post quem è rintracciabile intorno alla metà degli anni Settanta, quando la rottura del “fatalismo della crescita” e la sottovalutazione della vitalità delle religioni ha aperto le porte a quella che è stata definita da Gilles Kepel come «la revanche de Dieu».

La nascita di un nuovo paradigma interpretativo

Il 1993 è l’anno in cui la Geopolitica delle religioni si ritaglia un proprio ruolo nello spazio accademico, grazie all’articolo The Clash of Civilizations? di Samuel Huntington. Il celebre articolo, in seguito saggio, contrappone alla “fine della storia” di Fukuyama una nuova prospettiva che, creando una diversa spazialità, pone al centro del discorso politico la cultura e le identità. Huntington ha il merito di illuminare questo nuovo spazio, ma non sarà lui a dargli una forma definita ed un nome proprio. La Geopolitica delle religioni diviene, infatti, un paradigma in Francia grazie al lavoro di Yves Lacoste nelle pagine della rivista Hérodote e ai lavori sul ruolo politico della religione di François Thual, che diedero nuova luce a quel che egli definì “il riemergere del represso”.

Questa differente chiave interpretativa della modernità, che pone di nuovo al centro Dio e la religione, è stata utilizzata altresì da Manlio Graziano che, osservando la desecolarizzazione dello Stato e la sua lenta e inesorabile ritirata, ha sostenuto come gli spazi vuoti, lasciati liberi dal retrocedere delle istituzioni statuali, vengano colmati dalla religione. Essa, infatti, riempie quel vuoto “offrendo un riferimento identitario”. Un esempio lampante di come il credo religioso possa divenire un vettore identitario aggregante fu la politica intrapresa dal patriarca Aleksij II che, eletto il 7 giugno 1990, scelse di indirizzare in tre direzioni la propria strategia: riconquista della primauté nella società russa; ricollocazione della fede ortodossa al centro dello spazio urbano; custodia dei legami dell’intero popolo ortodosso nonostante lo smembramento territoriale dell’ex Unione Sovietica.

La Geopolitica delle religioni entra così in quella che Lacoste chiama “rappresentazione geopolitica”, ovvero una rappresentazione che “raggruppa l’insieme delle immagini e delle idee che un gruppo politico si fa della sua situazione geopolitica e di quella dei suoi vicini. Considera che queste rappresentazioni sono un motore essenziale delle situazioni geopolitiche”. Lo studio delle religioni, il loro spazio, la loro rete di potere divengono uno strumento imprescindibile per cogliere il momento di transizione che stiamo vivendo.

L’immaginario geo-religioso del Patriarcato moscovita

Lo spazio geopolitico del Patriarcato di Mosca è un esempio di come l’immaginario geo – religioso possa condurre ad una rappresentazione dello spazio politico filtrata dall’immaginario sacro, uno spazio che non deve essere analizzato unicamente nella sua veste territoriale concreta, bensì, riprendendo la tesi di Lacoste, è opportuno esaminare tenendo presente la rappresentazione spaziale insita nel discorso e nella narrazione ortodossa. 

L’immaginario politico religioso del popolo russo ha prodotto mappe mentali che, umanizzando l’impero prima e lo stato in seguito, pongono l’entità statale in relazione con il divino e, altresì, evidenziano come la struttura imperiale venga considerata non solo la rappresentazione del Paradiso in terra, ma anche l’argine alla venuta dell’Anticristo, giustificando in tal modo la propensione all’espansione territoriale che diviene, come sostenuto da Vitale, per l’Ortodossia un dovere “civico”, in quanto la vera fede non conosce confini territoriali.

Il fil rouge della sinfonia nel mondo ortodosso vede religione e nazione procedere insieme, formando una sinergia attiva che si esplica in un continuo aiuto reciproco. La Chiesa è, come dichiarato dal patriarca Kirill, gosustanovitel’naja, ovvero quella forza che edifica lo Stato. L’Ortodossia russa ha illustrato come questo immaginario collettivo abbia agito quale mythomoteurs della geopolitica persuadendo e indirizzando la politica dell’Impero russo prima, soccorrendo il potere sovietico nel momento del bisogno poi e, infine, come il sentimento religioso sia stato fondamentale nella riunificazione della Federazione Russa agendo come promotore della mobilitazione interna.

Nel mondo ortodosso, dunque, risulta difficile scindere l’ideologia religiosa dall’ideologia politica, in quanto la fede è stata considerata uno strumento per legittimare sia la politica estera zarista sia quella della presidenza Putin.

L’altare come instrumentum regni

La centralità del patriarcato moscovita nel panorama politico della Federazione russa è tangibile, non solo quale strumento di legittimazione politica interna, come in occasione delle cerimonie di insediamento di El’cin, sia nel 1991 sia nel 1996, dove Aleksij II fu l’unica personalità presente oltre al protagonista della cerimonia, ma anche quale garante dell’unita della Rodina al di là dei confini territoriali che non corrispondono ai confini dello spirito. Il patriarcato mantenne, infatti, la propria giurisdizione su quasi tutto il territorio ex sovietico – non senza difficoltà – e la legittimità di tale spazialità fu rimarcata più volte da Aleksij II, che sostenne: “si è radicalmente trasformato l’ordinamento statale, mentre la società si divideva secondo criteri politici, nazionali e culturali, la chiesa ha mantenuto la sua unità” rimanendo “uno degli ultimi fondamenti spirituali che uniscono la gente nel territorio post – sovietico”.

Il patriarca è, dunque, il trait d’union con l’estero vicino russo e tale ruolo Aleksij II lo ha interpretato con costanza e determinazione, rimarcando, in ogni occasione, che i confini stabiliti successivamente al crollo dello stato sovietico sono spazialità costruite artificialmente ed esse non possono essere vincolanti per il patriarcato, poiché l’immaginario spaziale della “Santa Russia” oltrepassa questi steccati che non possono impedire una comunione di anime con una storia condivisa plurisecolare.

La sinfonia tra trono e altare basata su un nuovo rapporto di partenariato ha così reso il patriarcato moscovita uno strumento di soft power per le politiche della Federazione. Una delle operazioni in cui la chiesa di Mosca collaborò alla politica estera del Cremlino fu nel 2012 quando, ad una Grecia in piena crisi economica, venne prospettato un prestito di 25 miliardi di dollari e relazioni economiche privilegiate in nome della fratellanza ortodossa che legava i due popoli, tentando in tal modo di sottrarre il paese dall’influenza di Bruxelles. 

Oltre al caso greco, il patriarcato moscovita ha giocato un ruolo preminente anche nella partita disputata per l’annessione della Crimea. Infatti, questa conquista fondamentale nel quadrante strategico del Mar Nero venne legittimata dalla presidenza Putin attraverso il ricorso al “mito crimeano”. La Crimea, essendo consacrata quale patria del cuore della Rus’ cristiana, è, infatti, ritenuta parte integrante della proiezione spaziale dell’identità russa.

Il crescere delle tensioni con l’Ucraina non comportò solamente un’escalation militare, ma ha segnato anche un profondo limes in ambito religioso quando, il 6 gennaio 2019, il patriarcato di Costantinopoli concesse l’autocefalia alla Chiesa ortodossa di Kiev, consegnando nelle mani di Epifanyj, metropolita di Kiev, il Tomos che, sottraendo Kiev al magistero di Mosca, ne sancisce l’autocefalia. Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, dopo la firma del decreto affermò: “il pio popolo ucraino ha atteso per secoli questo giorno benedetto […]. Ora può godere del sacro dono dell’emancipazione, dell’indipendenza e dell’autogoverno, diventando libero da ogni pressione e intervento esterni”. 

Il profondo legame che intercorre tra politica e religione si evince altresì dalle parole dell’allora presidente Poroshenko il quale, annunciando ai fedeli presenti dinnanzi a Santa Sofia la creazione della Chiesa ortodossa locale autocefala d’Ucraina, stabilì che la nuova chiesa non sarebbe stata “né con Putin né tantomeno con Kirill, bensì con Dio e l’Ucraina”, ritenendo in tal modo spezzato il giogo spirituale che teneva l’Ucraina legata ad una Russia non sentita più come madre, bensì matrigna.

La risposta di Mosca non si fece attendere e fu dura, da un lato Kirill dichiarò la fine della comunione con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dall’altro Putin espresse la ferma volontà di tutelare e difendere sul piano politico e diplomatico tutti gli ortodossi ucraini, sacerdoti e laici, che avrebbero voluto rimanere fedeli alla Chiesa ortodossa russa. 

Il ruolo politico delle geografie sacre

Nel mondo ortodosso, più che in altri, quel che conta non sono tanto le cose in sé stesse, ma il modo in cui esse vengono percepite e, di conseguenza, viene dato maggior rilievo all’immaginario prodotto dalle geografie leggendarie, dai luoghi, dalle terre, dai simboli e alla loro valenza emotiva. Tali geografie sacre, riprendendo l’affective geopolitics di Toal, rompono la rigida visione di una realpolitik fredda e calcolatrice, che viene stemperata attraverso il “calore” di una geopolitica di forti sentimenti e credenze che ha prodotto negli ultimi anni in Russia una commistione di real(geo)politik e affective geopolititics. Tale commistione è erede di quella sinfonia bizantina che, sopita negli anni sovietici, è tornata alla ribalta prima con la presidenza El’cin e, ancor di più, con la presidenza Putin coadiuvata dal patriarcato di Kirill. Putin, abbracciando una politica revanscista, è riuscito a far confluire in un unico discorso e il campo geopolitico del Near Abroad e la affective geopolititics del Russkij Mir, riconsolidando quella tradizione che vede nell’Ortodossia la fede che unisce il popolo russo e nel patriarca il simbolo e il garante dell’unità delle coscienze delle popolazioni post-sovietiche. Il popolo russo, mancando di un nazionalismo etnico, rinsalda il proprio legame attraverso un vincolo spirituale e territoriale ricondotto alla Rodina, ovvero alla patria. Il patriarca di Mosca diviene così il custode delle anime di coloro che abitano le “sacre terre russe”, poiché la terra se abitata da un ortodosso diviene automaticamente sacra: la Svjataja Russkaja Zemljà (Santa Terra Russa).

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